Incontro con le Guide di Maggio, 20 maggio 2015 - Scifo,Max, Moti, Rodolfo, Fabius, Georgei, Ombra

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Moderatore sez. Messaggi
view post Posted on 25/5/2015, 13:53




Creature, serenità a voi.
Uno dei problemi più discussi in questo momento delle società attuali (e che riveste una certa importanza specialmente per voi che ci seguite ma anche per tutte le popolazioni che vivono nel bacino del Mediterraneo) è senza dubbio quello dell'immigrazione... o dell'emigrazione?
Già creature, perché mi sembra che più di uno tra voi non abbia ben chiaro il significato dei due termini.
Il fatto è che, in realtà, non vi è una vera e propria distinzione tra di essi ma si tratta di due punti di osservazione diversi di uno stesso fenomeno sociale.
Siccome non voglio essere pedante ricorrendo, come mio solito, all'etimologia delle parole che da sola basterebbe per poter distinguere i due termini l'uno dall'altro, mi limiterò a sottolineare che il fenomeno di base è il trasferimento volontario di una massa di esseri umani da un paese ad un altro e che si parla di immigrazione quando il punto di vista è quello del paese d'arrivo (nel quale la migrazione si concretizza) mentre si parla di emigrazione quando si ragiona dall'ottica del paese dal quale proviene la migrazione.
In altre parole, i molti italiani che nel secolo scorso andarono nelle Americhe in cerca di fortuna erano classificabili come emigrati dai compaesani che li vedevano partire e come immigrati dagli abitanti delle Americhe che li vedevano arrivare. (Scifo)

I fenomeni di tipo migratorio non sono certamente una novità nella storia del pianeta, sia a livello animale che a livello umano: ogni volta che le condizioni di vita e di sopravvivenza di una specie (o di una sua parte) di tipo stanziale - cioè tale da avere una storia di sviluppo all'interno di un'area ben precisa del territorio – diventano insostenibili e ingestibili non solo per il singolo individuo ma per l'intera popolazione, ecco che si innesca il processo che spinge verso il trasferimento in
altre zone del pianeta, ritenute, più o meno a ragione, più favorevoli.
Si tratta, insomma, di una risposta naturale e, se vogliamo, anche logica dato che risponde a precise esigenze di conservazione della specie e della vita dell'individuo.
Osservando tale fenomeno dal punto di vista filosofico relativamente al concetto di evoluzione è abbastanza facile comprendere che esso ha il fine di dare nuovi stimoli alla razza incarnata, aiutando quell'omogeneizzazione delle culture, sia a livello genetico che a livello sociale, che, solo, può favorire il percorso verso l'acquisizione e la comprensione quanto meno dell'archetipo della fratellanza universale.
Ma non mi sento del tutto in grado di esaminare la questione da questa prospettiva, e preferisco, invece, fare alcune considerazioni inerenti al momento attuale, più che al suo logico sviluppo futuro, e riferite, in maniera particolare, al bacino del Mediterraneo in cui state compiendo il vostro cammino reincarnativo attuale.
E' innegabile che la migrazione dai paesi sia dall'Africa che dal Medio Oriente ha degli elementi peculiari che la rendono in qualche aspetto diversa dalle migrazioni succedutesi nei secoli scorsi: mentre allora avvenivano principalmente sotto la spinta della ricerca di una vita migliore di quella che potevano avere in patria, attualmente si sovrappone a questo aspetto anche la fuga da situazioni violente e di guerra che aumentano e sostengono con forza il desiderio di migrare da parte delle masse.
L'intera Europa, con la cecità tipica di un Paese costruito da più etnie e tenuto insieme da concetti economici più che da comuni idee sociali e legislative, ha indirizzato la sua risposta al fenomeno migratorio - che, inevitabilmente, provoca tensioni e reazioni tra le popolazioni dei singoli stati – verso il contenimento, se non addirittura l'annullamento di tale fenomeno, senza arrivare a rendersi conto che si trova davanti a un fenomeno incontenibile e, certamente, non annullabile.
Dal punto di vista etico è facilmente intuibile che, in realtà, la responsabilità dell'innesco del fenomeno migratorio è attribuibile in buona porzione proprio all'Europa e alle civiltà occidentali: le condizioni di vita difficili in quei paesi da cui principalmene proviene la migrazione sono in gran parte conseguenza dello sfruttamento economico che è stato attuato, nei secoli, su quei territori, così come le tensioni sociali e le guerre che martoriano quelle zone del pianeta sono state la logica deriva del controllo politico ed economico di quelle zone, alimentate dall'aver attivamente contribuito ad armare l'uno o l'altra fazione in lotta (quando non addirittura entrambe) per perseguire vantaggi sia politici che economici.
In quest'ottica è ovvio che, sulla scorta dell'insegnamento portato dalle Guide, tale situazione indica il verificarsi un una risposta karmica a livello collettivo... ma non vorrei addentrarmi nell'esame di questo aspetto puramente filosofico che non rientra nel mio orientamento di interessi
Al di là, quindi, di queste considerazioni fin qui esposte per inquadrare la situazione, la domanda che viene spontanea farsi è “cosa fare?”.
Se il fenomeno migratorio ha presupposti che indicano come non sia possibile né controllarlo né annullarlo, non resta che cambiare la prospettiva di osservazione e cercare, invece, di inglobarlo nella realtà dei paesi dell'Europa, cercando di favorire l'integrazione penalizzando nel modo minore possibile i naturali abitanti dell'Unione Europea, e questo credo che sia possibile farlo considerando le caratteristiche delle popolazioni che stanno migrando.
Nell'Unione Europea è avvenuta, negli ultimi secoli, una forte concentrazione della popolazione nell'ambito urbano cittadino, con la conseguenza di svuotare diverse zone interne ai vari stati in favore della costituzione di aree metropolitane sempre più vaste e popolate: nella stessa Italia, per esempio, esiste una gran quantità di paesi montani o rurali praticamente deserti e abbandonati.
Considerato che le popolazioni che stanno migrando provengono da civiltà in cui l'agricoltura e l'allevamento sono spesso l'unica possibilità di sopravvivere, perché non provare a studiare una maniera per inserirle nel tessuto sociale all'interno delle zone abbandonate per renderle non un peso sociale che ricade sulla popolazione europea ma un elemento di produttività proprio sfruttando le loro capacità ed esperienze in tali ambiti? Questa, a parer mio, può essere una possibilità d'azione concreta e credo che sia possibile trovarne anche altre, tutte, comunque, tali da necessitare un radicale cambio di prospettiva da parte di chi è preposto a governare, senza bisogno di arrivare – come mi sembra invece che si sia cercato di fare – a creare nuove forme di schiavismo attraverso al conferimento di possibilità di lavoro sottopagato.
E' evidente che un tale cambiamento di prospettiva porta con sé molti problemi da risolvere a livello sociale, oltre che strettamente economico: da quello della sicurezza - perché si deve riuscire a non creare contrapposizioni negative tra migranti e popolazione residente - a quello del mantenimento della legalità – in quanto diventerebbe estremamente necessario gestire in maniera equa le diversità di cultura, religione, usi e costumi e il loro relazionarsi -, all'estensione dei diritti sociali senza abbassare il livello preesistente – per non far sorgere tensioni e rappresaglie -, e via dicendo.
Ma io credo che con il tempo e con la buona volontà si tratti comunque di questioni che possono venire risolte col raggiungimento di benefici per tutti.
Certo, ci sarà da lottare contro i grandi interessi economici, inducendoli a spostare la concezione dell'economia verso concetti più etici, così come le varie classi politiche dovranno a loro volta ritrovare la concezione del governo come gestione del bene pubblico e non di quello personale, ma l'evoluzione non può che andare in quella direzione ed è sempre meglio assecondare i processi evolutivi piuttosto che cercare di impedirli, dal momento che l'opposizione non può fare altro che creare difficoltà, contrasti accentuati, dolore e sommovimenti cruenti dai quali nessuno della parti in causa, alla fin fine, ne uscirà veramente vincitore.
Giunti a questo punto non mi resta che passare la parola a chi risponderà alle vostre domande, ringraziandovi per avermi seguito in questo mio ragionare. (Max)

D - A me sembra di vivere una vita sempre col freno a mano tirato e questo perché credo di avere paura di sbagliare e di fare del male a me stessa e a chi amo di più...

Questa tua affermazione pone diversi problematiche, di non facile e immediata soluzione, dal momento che può essere osservata da diversi punti di vista.
Ma vediamo di analizzare più in dettaglio gli elementi presenti in quanto hai detto.
L'aver paura di sbagliare è un fattore che accomuna tutte le persone.
Ma, pensandoci bene chi ha questa paura e per quale motivo?
Certamente entra in gioco la dotazione caratteriale che, magari, non attribuisce all'individuo grandi capacità di essere deciso o una forte volontà nel portare avanti quello che pensa di poter fare.
In realtà, però, si può anche affermare, con ragionevole certezza, che chi ha paura di sbagliare è l'Io, e non tanto per timore di fare del male a qualcuno (non può essere in grado, infatti, di sapere con sicurezza e a priori se le azioni compiute non porteranno alla fin fine a risultati utili e positivi sia per se stesso che per le altre persone coinvolte invece che creare risvolti negativi) quanto per il tentativo di non sminuire ai suoi stessi occhi l'immagine di potenza che desidera conservare o, al limite, per cercare di non prendersi la responsabilità di scatenare un insieme di conseguenze fuori dal suo controllo e che non sa se sarà veramente in grado di gestire.
In questa posizione di incertezza l'Io finisce col scegliere la via del preservare l''apparente stabilità che pensa di aver raggiunto, finendo col non agire e vivendo, come dicevi tu, “col freno a mano tirato”.
Questa, senza dubbio, appare la via più facile da seguire e quella che non sembra presentare pericoli particolari ed è quella che, solitamente, seguono la maggior parte delle volte le persone.
Ma noi che sappiamo che se la vita ci pone davanti delle scelte e noi evitiamo di scegliere accadrà, inevitabilmente, che tali scelte ci verranno ancora riproposte e, quasi certamente, in condizioni ancora più difficili da gestire perché, evidentemente, quelle scelte hanno la finalità di indirizzarci a comprendere delle cose che, fino a quel momento, non siamo riusciti ad acquisire e a rendere sentitamente nostre.
Che fare, allora?
Rimandare le nostre scelte di continuo fino a che diventano portatrici di una sofferenza sempre maggiore o cercare di compiere delle scelte il più possibile immediate e nel momento in cui le condizioni di scelta sono più affrontabili?
Io credo che sia sempre meglio cercare di risolvere le situazioni nell'immediato, anche esponendosi al rischio di fare delle stupidaggini di cui poi ci pentiremmo, dal momento che è proprio grazie a quegli eventuali errori che avremo la possibilità di essere maggiormente in grado di adeguare in maniera corretta le nostre risposte comportamentali alle situazioni più o meno simili che l'esistenza ci proporrà successivamente per testare il raggiungimento reale o meno della nostra comprensione.
La paura di fare del male a se stessi o agli altri con le nostre scelte, in fondo, non è altro che un falso problema perché non agire e lasciare le cose in sospeso e irrisolte finisce col far star male l'individuo con se stesso e a deteriorare i suoi rapporti con gli altri che potrebbero vivere il suo non agire come indifferenza e mancanza di partecipazione, lasciando, presenti ma inespressi, quei sentimenti di delusione, rancore e rivalsa che, inevitabilmente, portano con sé ampi contrasti e sofferenza.
Io credo, per averlo sperimentato sulla mia pelle, che è sempre meglio sbagliare che non agire per paura di commettere degli errori e che, alla lunga, l'azione messa in atto dà i suoi frutti.
Certo, non vi sto dicendo di andare a testa bassa contro le situazioni senza osservare con un minimo di attenzione quello che state per dire o fare, dal momento che anche questo non sarebbe altro che seguire ciecamente il proprio Io e la sua volontà di potenza e di prevaricazione supportata dalla sua presunzione di essere sempre e comunque nel giusto: l'azione deve essere sorretta dal desiderio di fare del proprio meglio e di dare il meglio di se stessi in ogni situazione, cercando di essere il più possibile onesti, coerenti e sinceri con se stessi e con le motivazioni che ci spingono.
In questo modo, quanto meno, la percezione di aver fatto con sincerità quello che pensavate potesse essere il migliore comportamento possibile da mettere in atto vi aiuterà a sentire meno pesante la sofferenza che un vostro eventuale errore potrà aver causato, in quanto la vostra coscienza saprà che non avevate certamente l'intenzione di essere creatori consapevoli di dolore e sofferenza. (Moti)

D - Chi di noi conosce se stesso?

Beh, in linea di massima direi che nessuno, nel corso della sua vita, conosce davvero e profondamente se stesso.
Ed è logico e ovvio che non possa che essere così: conoscere se stessi non significa avere compreso la propria interiorità e le proprie spinte interiori, ma solamente avere presenti tutti gli elementi che in qualche modo influenzano e condizionano le nostre reazioni nel corso della vita.
Io posso riconoscere il fatto di essere tendenzialmente egoista e di pensare prima di tutto a me stesso e a ciò che mi torna utile, ma questo mi impedisce di comportarmi comunque in maniera egoistica?
Se bastasse la conoscenza, ormai tutti voi dovreste essere dei santi perché in quarant'anni di nostri interventi vi abbiamo messo davanti tutti gli elementi che formano ciò che siete, elementi che certamente avete fatto razionalmente vostri.
Malgrado questo vi comportate fprse in maniera meno egoistica?
Certamente no o, per lo meno, non con una certa continuità, e questo accade perché avete la conoscenza ma non ancora la comprensione di ciò che siete e che determina le vostre scelte e le vostre reazioni.
Verrà senza dubbio il momento in cui non solo conoscerete ma anche comprenderete voi stessi e, allora, sarete portatori “sani” di quella malattia estremamente contagiosa che si chiama “amore”. (Rodolfo)

D - Quanto si deve conoscere di se stessi per trovare quella pace, quella tranquillità, quella serenità, quella consapevolezza che può aiutare anche chi sta attorno a noi? E allora che fare? In quale misura è necessario conoscere se stessi?

Per poter veramente aiutare chi sta attorno a voi non è sempre necessario e indispensabile conoscere se stessi ed essere consapevoli di ciò che si sta facendo: molte volte accade che si aiutino gli altri inconsapevolmente e che le nostre azioni abbiano effetti benefici anche se la loro spinta proviene dai nostri bisogni egoistici, quindi al di là delle nostre eventuali motivazioni egoistiche.
Non dimentichiamo, d'altra parte, che nel nostro Io agiscono sia le incomprensioni da definire che le comprensioni già raggiunte e talvolta, senza che neppure ce ne rendiamo conto, le nostre azioni sono spinte maggiormente dal sentire.
Se così non fosse il mondo sarebbe molto peggiore di quello che è e ogni vita sarebbe un continuo calvario fatto solo di lotta, di scontri e di prevaricazioni.
E' ovvio che maggiormente si conosce, maggiormente si comprende se stessi e più facilmente si individuerà la maniera migliore per aiutare la crescita interiore di chi ci sta intorno, come dei buoni genitori che conoscono i propri limiti ma anche quelli tipici dei loro figli e, di conseguenza, riescono a trovare il percorso migliore per favorire la loro crescita mediando tra i propri bisogni e quelli delle creature di cui sono responsabili.
Credo che il modo migliore di agire sia quello di non cristallizzare le nostre azioni sottoponendole all'esasperato vaglio mentale del grado di egoismo che comportano da parte nostra: il nostro egoismo è un problema completamente nostro e non bisogna lasciare che l'osservazione di noi stessi ci impedisca di cercare, comunque, la via migliore per porgere il nostro aiuto restando bloccati nel nostro intervento.
Nella tradizione di molti paesi le persone che abbandonano la loro vita e i loro affetti alla ricerca della cosiddetta “illuminazione” vengono ritenute molto evolute. In realtà si tratta di individui che non riescono a mediare tra i propri bisogni interiori e quelli delle persone che l'esistenza ha posto al loro fianco, finendo, così, col comportarsi in maniera decisamente egoistica: il vero evoluto, in realtà, è quello che riesce a mettere in secondo piano le proprie necessità per favorire quelle che sono le necessità altrui o, quanto meno, a trovare il modo per appagarle entrambe. (Fabius)

D - Come tutti gli elementi della Realtà anche l’illusione dovrebbe essere ambivalente e, di conseguenza, avere un’utilità e non essere solo un danno... devo dire, però, che non sono riuscito a trovare un esempio che possa mettere in evidenza l’aspetto «utile» dell’illusione?

Forse vi siete fatti un'errata concezione dell'illusione (così come di molti altri aspetti dell'evoluzione interiore dell'individuo, ad esempio la percezione soggettiva della realtà).
L'illusione è uno stadio, un passaggio che è intrinseco al processo evolutivo, e che, in quanto tale, ha una sua utilità e una sua ragione di esistere all'interno del percorso dell'individuo. Ma si tratta di un passaggio transitorio che, necessariamente, verrà ad essere superato a mano a mano che verrà superato l'Io che è la fonte principale della sua esistenza.
Stai chiedendo quale può essere l'utilità dell'illusione e posso dirti, per fare un esempio, che l'illusione può aiutare a soffrire meno quando non si è in grado di accettare una realtà esterna spiacevole perché non si è pronti, dal punto di vista del proprio sentire, ad accettare qualcosa. Grazie all'illusione è possibile ottenere una pausa rispetto alla verità che non riusciamo ad accettare dando così tempo alle altre esperienze che, nel frattempo, inevitabilmente, portiamo avanti, di creare nel nostro sentire quei collegamenti di comprensione che ci porteranno ad essere in grado di far cadere una parte delle nostre illusioni e di affrontare quanto cercavamo di non riconoscere.
L'illusione – e lo ripeto per sicurezza di essere compreso – è comunque e sempre uno stato transitorio che verrà superato nel momento in cui si sarà in grado di accettare le realtà anche più spiacevoli per il nostro Io. (Rodolfo)

D - Posso vedere le caratteristiche della mia immagine in quello che vedo di positivo/negativo negli altri, ma solo in quello che mi rimandano in modo inconsapevole o anche in quello che dicono di me? Quello che gli altri dicono di me è «inquinato» dalla loro percezione soggettiva, mantiene comunque un qualche valore oggettivo? E’ possibile usarlo come strumento per l’aggiornamento interiore della propria immagine?

L'immagine che l'individuo ha delle altre persone non è in'istantanea fissa e immobile ma è in continua fase di aggiornamento in qualche suo aspetto.
Il rimando di tale immagine che viene fatto, a sua volta, non è costituito da un solo fotogramma percepito ma dalla fusione delle varie percezioni di molteplici elementi (l'espressività emotiva, l'interazione fisica, le caratteristiche intellettive) che definiscono, agli occhi di chi sta osservando, le altre persone e che si riflette, inevitabilmente, nella costruzione dell'immagine e, anche, nella maniera in cui ognuno esprime all'esterno di sé tale immagine, sottoponendola al vaglio di quelle che sono le sue caratteristiche percettive e, quindi, rendendola parziale rispetto alla sua formazione.
Il termine immagine può essere fuorviante perché viene riferito, per consuetudine, a una sorta di istantanea della realtà dell'altro, come se fosse la stampa di una fotografia, immobile e costante nel tempo, mentre è composta da una molteplicità di fattori che definiscono l'individuo nella sua complessità e le forniscono una continua variabilità.
L'immagine di noi che ci viene riflessa dagli altri è senza dubbio parziale e soggettiva, perché condizionata dai loro bisogni e dalle loro capacità percettive ma contiene anche elementi che l'altro elabora vagliando i nostri comportamenti e le nostre reattività, quindi c'è comunque uno stretto collegamento tra ciò che gli altri ci rimandano di noi e ciò che noi manifestiamo all'esterno di noi stessi e che ci trasmettono attraverso quelle che sono le “loro” reazioni in risposta alle “nostre”, riproponendocele come ragionamenti, emozioni e scambi fisici.
A questo punto credo si possa dire che, esaminando le reazioni messe in atto dagli altri nei nostri confronti, è possibile scorgere il riflesso di noi stessi e, di conseguenza, risalire a ciò che di noi stessi e del nostro agire è stato portato alla percezione nell'altro inducendolo a formarsi un'immagine che riflettono su di noi con i loro comportamenti reattivi nei nostri confronti.
Esiste, quindi, un valore oggettivo nell'immagine che gli altri si formano di noi ed esaminare il riflesso dell'immagine che ci viene proposto può aiutare a comprendere meglio se stessi e le proprie incomprensioni portandoci, come conseguenza, ad aggiornare l'immagine che noi abbiamo di noi stessi. (Rodolfo)

D - Nei momenti in cui mi sono trovata di fronte a reazioni altrui secondo me spropositate rispetto alla situazione mi sono chiesta: ... per quel che ho capito dell’insegnamento, se questa reazione (dell’altro) mi colpisce, vuol dire che anch’io sono così? Però a me non sembra. Ecco: a me non sembra perché non ne sono consapevole? Oppure perché non arrivo a quegli eccessi, ma comunque condivido la stessa base? Oppure perché potrei arrivarci ma per motivazioni, secondo me, ben più importanti? Oppure perché ho maggior capacità di controllo emotivo, e quindi esteriorizzo di meno, ma ciò che si muove nel profondo è identico?

Hai messo, come al solito, molta carne al fuoco!
Vediamo se riusciamo a cuocerla tutta in maniera uniforme...
I rapporti di relazione con le altre persone sono costruiti sulle mutue relazioni tra di loro, quindi vi è sempre uno stretto legame tra la reazione di un individuo e la percezione dell'altro individuo con cui si sta esprimendo.
Ora, come sappiamo, l'opinione che ci si forma dell'altro, dal momento che i veri perché dell'altro non possono essere quasi mai compresi, sono soggetti alla percezione da parte nostra dei modi in cui l'altro reagisce, e questo significa che notiamo in tali modi principalmente quelli che suscitano al nostro interno una risposta reattiva di qualche tipo.
Questo significa che su di noi si riflette la stessa problematica che è sottintesa nella reazione che stiamo osservando e che, di conseguenza, tale problematica è anche nostra? In altre parole, se noi notiamo una reazione di forte invidia in un altra persona, significa che anche al nostro interno esiste una forte componente di invidia?
E' anche possibile che sia così, ma l'interazione tra le reazioni dell'individuo è molto più complessa e sfumata di così e non può essere descritta come “bianco” o come “nero”, ma può contenere anche tutte le sfumature di grigio necessarie per transitare tra i due estremi.
Nella maggior parte dei casi ciò che si muove nel profondo degli individui non è e non può mai essere identico, anche semplicemente per il fatto che il sentire delle persone non è mai identico come non è identico il percorso compiuto per acquisire il sentire che esse possiedono.
Pensando all'esempio fatto sull'invidia, si è notato quel particolare elemento perché esso ha richiamato qualcosa di non compreso al nostro interno: certamente può essere che siamo invidiosi anche noi ma, magari, la percezione preminente di quel particolare elemento è conseguenza anche solo del fatto che non abbiamo ancora compreso tutte le sfumature collegate al concetto di invidia o, se vogliamo proprio essere più positivi, è il desiderio di poter trasmettere all'altro quello che abbiamo compreso in maniera che anche l'altro possa comprendere e superare il suo essere invidioso. (Scifo)

D - Avere la massima attenzione da parte nostra a ciò che si fà a ciò che si dice, a ciò che si sente non può indurre il rischio di irrigidire il nostro modo di vivere le esperienze concentrando troppo l’attenzione su noi stessi e diventando un po’ impermeabili agli stimoli che arrivano dall’esterno?

Senza dubbio è così, e l'eccesso d'attenzione su questi aspetti può portare a un certo immobilismo interiore arrivando, come era stato detto prima, a vivere la propria vita “col freno a mano tirato”.
E' anche per questo che noi vi abbiamo sempre suggerito di vivere prima di tutto la vostra vita dando a questo aspetto del vostro percorso evolutivo la precedenza assoluta, usando l'introspezione in maniera oculata e non ossessiva per non correre il rischio di perdere di vista la realtà e di impantanarvi in sabbie mobili mentali dalle quali correte il rischio di uscire più confusi che mai di fronte alle molteplici ipotesi che potete trovare ma senza riuscire a determinare con certezza una vera ipotesi utile.
In fondo – e non ci stancheremo mai di ripetervelo – l'esistenza vi offre già tutto ciò di cui avete bisogno per evolvere e, di conseguenza, noi e l'insegnamento che vi abbiamo portato in questi decenni non vi siamo indispensabili per crescere, anche se possiamo fornirvi qualche stimolo in più, adatto al percorso di crescita che ognuno di voi, personalmente, ha scelto di percorrere.
In fondo, se ci pensate bene, anche il Cerchio e noi stessi che veniamo a parlarvi non siamo estranei alla realtà ma facciamo parte delle esperienze che vi vengono proposte per accompagnarvi e guidarvi lungo il vostro cammino e rientriamo nella categoria degli stimoli esperienziali che l'esistenza vi offre per aiutarvi ad andare avanti dal punto di vista evolutivo. (Moti)

D - Secondo me non è sempre vero che l’aggressività dell’altro riguarda solo lui, ed io cosa ho fatto per innescare quell’aggressività? D’altronde quando invece riceviamo reazioni «positive» di gioia, affetto, gratitudine chissà perchè non pensiamo mai che è solo affare dell’altro, ma pensiamo che in qualche modo quello che abbiamo detto o fatto l’ha provocato.

Hai ragione: non solo “non è sempre vero che l’aggressività dell’altro riguarda solo lui” ma, addirittura, non è “mai” semplicemente così.
Penso che ognuno di voi abbia talvolta notato che la stessa frase detta da due persone differenti provoca reazioni diverse nella persona a cui è stata rivolta.
Questo significa che le due persone vengono recepite in maniera dissimile dal soggetto che reagisce e significa ancora che vi è una parte di responsabilità di ognuna delle due persone nel favorire il tipo di risposta reattiva che viene ad estrinsecarsi.
Per quanto riguarda, invece, l'attribuzione a se stessi del merito di aver suscitato reazioni positive (a parte il fatto, per altro ovvio, che potrebbe anche essere effettivamente merito vostro!) è evidente che l'Io non si tira mai indietro di fronte alla possibilità di acquisire meriti agli occhi suoi e a quelli degli altri, mentre preferisce sempre, quando le reazioni sono “negative” puntare il dito sulle responsabilità altrui più che sulle proprie. (Scifo)

D - Il suicidio è sempre un bisogno evolutivo dell’individuo o può essere mosso anche da un forte bisogno dell’Io?

Dove sta, a ben vedere, la differenza?
Certamente nella persona che arriva al suicidio c'è sempre una grande influenza da parte di un Io che si sente talmente inadeguato ad affrontare l'esperienza che la vita gli sta, con apparente crudeltà, sottoponendo, ma, altrettanto certamente, l'esperienza che l'individuo si trova a vivere affrontando il suicidio (anche se poi, magari, neanche portato fino alla sua estrema conseguenza) non può che essere una necessità evolutiva dell'individuo per comprendere qualche cosa che non sta riuscendo a fare veramente suo. (Georgei)

D - I bisogni dell’Io possono davvero essere così fortemente in contrasto con quelli evolutivi?

Pensi davvero che i bisogni dell'Io non facciano parte del processo evolutivo dell'individuo? Se è così certamente hai una concezione errata di quello che vi abbiamo spiegato in questi anni di nostri interventi! (Scifo)

D - L’aspirante suicida sta male con se stesso e con il mondo, ma sta ancora più male perché deve combattere con questo pensiero/voce che fatica a contrastare, è possibile portare un aiuto dall’esterno?

E' difficile poter dare una risposta univoca a questo tipo di interrelazione, in quanto coinvolge la capacità di trasmettere il suo disagio interiore da parte dell'individuo che pensa al suicidio ma anche la sensibilità e la capacità percettiva messe in atto da parte di chi si trova nella situazione di interagire con il teorico suicida. (Georgei)

D - E’ il caso di arrivare ad intontire la persona di farmaci e impedirle in questo modo di avere una vita almeno vicina alla normalità oppure si dovrebbe imparare ad accettare anche il fatto che una persona possa fare un gesto così estremo?

Senza dubbio si dovrebbe riuscire ad accettare anche un gesto così estremo, in quanto è sempre bene cercare di rispettare le esigenze degli altri.
Questo, però, non ci esime, non ci può esimere, dal cercare di fare il possibile per aiutare l'altro a trovare altri modi più utili per se stesso e per gli altri nell'esprimere il suo disagio interiore.
Molte volte basta la sola presenza dell'affetto di un'altra persona per far desistere l'aspirante suicida dai suoi propositi autodistruttivi, e non è un caso che quasi sempre chi si suicida lo faccia quando è da solo, quindi quando il senso di abbandono e di solitudine che lo opprimono non gli forniscono motivazioni sufficienti a farlo desistere dal pensare di compiere un gesto estremo. (Georgei)

D - Mi domando perché di alcuni sogni, anche a distanza di decenni, ricordo nitidamente ogni più piccolo particolare, comprese le mie emozioni, e saprei raccontarli con dovizia di particolari, illustrandone anche il significato metaforico (o almeno quello che io ritengo tale e che continuo ancora oggi a ritenere valido), mentre di altri non ricordo nulla di nulla. Devo, forse, ritenere che quelli che mi ricordo così bene e che ho ritenuto di dover osservare attentamente, in realtà, sono i meno importanti visto che l’Io non si è impegnato per nulla ad attivare la censura della dimenticanza?

Le possibilità sono almeno due: o i sogni che si ricordano sono poco significativi e vengono usati dall'Io lasciandoli filtrare fino alla consapevolezza da sveglio del sognatore per nascondere gli elementi che non vorrebbe venissero portati alla luce, oppure i meccanismi di difesa sono stati talmente forti da riuscire a nascondere gli elementi poco accettati dall'Io o ricoprendoli di complesse sovrastrutture che rendano il simbolismo del sogno inestricabile o dando pregnanza ad alcuni elementi che lo fanno apparire chiaro e immediato, in maniera da non stimolare la ricerca di ulteriori quesiti interiori. (Ombra)

D - Ho pensato che potrebbe essere utile la comparazione fra le considerazioni intuitive fatte nel primo momento del risveglio, (quelle che compaiono nella nostra mente prima che si attivi la razionalità) e le considerazioni fatte a freddo in un momento successivo. E’ anche molto utile raccontare il sogno a qualcuno.

Tutte le cose che dici sono valide e condivisibili.
Ma cerchiamo di essere realistici: quanti di voi hanno mai provato a fare un percorso del genere? E, nel caso che qualcuno ci abbia provato, per quanto tempo lo ha fatto?
Non bisogna stupirsi di questo, dal momento che i richiami della vita vissuta sono sempre quelli predominanti e l'esperienza che l'individuo affronta sul piano fisico ha una valenza certamente superiore e più pregnante di quella che può avere il contenuto del sogno che, oltretutto, è soggetto a maggiori possibilità di censura da parte dell'Io, in quanto, all'interno del sogno, esso non si viene a scontrare con l'esterno di se stesso e non subisce, di conseguenza costrizioni esterne di alcuna sorta, avendo così la possibilità di usare tutti gli strumenti di manipolazione del sogno che ha a disposizione senza altro contrasto che quello degli elementi che cercano, all'interno del sogno, di arrivare alla consapevolezza del sognatore. (Ombra)

Terminiamo così questo incontro, rispondendo a vostre domande a cui, probabilmente, già altre volte in passato avevamo cercato di dare risposta, provando a fornirvi ulteriori elementi di riflessione.
Come abbiamo detto ultimamente, ormai il corpo dell'insegnamento che vi abbiamo proposto in questi anni è stato tutto esposto, così non ci resta altro, nel tempo che ancora avremo a disposizione per comunicare con voi, che la possibilità di spiegare ulteriormente, di chiarire in maniera più precisa e diretta quelle cose che ancora fate fatica a collegare tra di loro e a recepire nella loro giusta luce, fedeli al nostro compito di fratelli maggiori che, per esperienza diretta, pensano di potervi aiutare a fare chiarezza dentro di voi, consapevoli che, comunque, noi vi possiamo fornire le candele e i fiammiferi ma che solo voi potete mettere in atto l'azione che porterà alla loro accensione.
Che la pace sia con voi. (Moti)
 
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