Incontro con le Guide di Marzo 2017, 29 marzo 2017 - Vito, Georgei, Rodolfo, Moti

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view post Posted on 30/3/2017, 08:01

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I corpi dell'individuo incarnato, come ormai dovreste sapere, non vengono costruiti lasciando al caso o alla natura e ai suoi processi fisiologici il compito di formarli, ma hanno uno stretto legame sia con il percorso evolutivo compiuto nel tempo dall'individualità che si incarna, sia con i suoi bisogni di sperimentare il mondo fisico per acquisire quelle piccole o grandi comprensioni che il suo corpo della coscienza non è ancora riuscito a sistemare al suo interno nel corso del suo incessante tentativo di adeguamento alle norme con cui la Vibrazione Prima ha pervaso il Cosmo in cui l'individuo incarnato si trova a essere inserito.
Questo significa che i corpi inferiori dell'individuo che costituiscono la sua interfaccia con il piano fisico e che modulano la sua reattività alle situazioni che si trova ad affrontare sono strettamente personalizzati e adeguati a quelli che sono i suoi bisogni evolutivi, dando vita a quell'illusione che è l'Io (illusorio ma, a ben vedere, indispensabile per agire all'interno delle varie esperienze mettendo in campo ciò che l'individuo è realmente a livello evolutivo).
Data la molteplicità di elementi che entrano in gioco nella costruzione dei corpi inferiori essi sono costruiti sulla scorta di innumerevoli variabili che rendono ogni corpo astrale, mentale o fisico di ogni individuo in gran parte diverso da quelli di ogni altra individualità incarnata, rendendo ognuno di questi corpi qualcosa di unico, sia nella sua costituzione sia nella maniera in cui gestisce i suoi rapporti con gli altri corpi e, di conseguenza, nel modo reattivo in cui si pone al confronto con le esperienze che via via gli si presentano.
E' ovvio che per comprendere veramente quello che muove ogni individuo nella conduzione della sua vita non è possibile basarsi sulla semplice osservazione delle sue reazioni alle esperienze, ma è necessario avere certezza del suo grado di evoluzione e di quali sono gli elementi che il suo corpo akasico non ha ancora posizionato al suo interno, ed è altrettanto ovvio che ciò non può essere possibile, cosicché l'esprimere giudizi su un'altra persona diventa solo un mero esercizio mentale inadeguato al compito che ci si prefigge in quanto, per emettere il proprio giudizio, si usano solitamente i parametri forniti dalle norme della società in cui si vive, confrontandoli con quelle indicazioni che provengono dal proprio sentire, a sua volta incompleto e frammentario e, per questo, estremamente soggettivo e poco attendibile nella sua analisi delle motivazioni più profonde di un'altra persona.
L'espressione del giudizio diventa ancora più aleatoria se si considera che esso viene a formarsi basandosi sull'osservazione dei modi reattivi dell'altra persona paragonandoli a quelli che sono le proprie personali reattività, non tenendo conto che la reattività alle esperienze è gestita dall'interazione di tutti e tre i corpi inferiori e, di conseguenza, proprio a causa dell'unicità di ogni corpo personale, in gran parte differenti da quelle che sono le nostre risposte alle esperienze che si affrontano nel corso della vita.
L'insieme di tutte queste considerazioni rende evidente come sia estremamente difficoltoso giudicare il comportamento di un'altra persona e, in fondo, come risulti spesso molto difficile anche dare il giusto supporto alle persone in difficoltà con cui capita di rapportarsi nel vivere la vita.
D'altra parte, ricordiamo che cercare di aiutare un'altra persona, se pure ad essa possa risultare di nessun reale aiuto, è comunque estremamente utile a chi porge il suo aiuto, perché con il suo agire si trova davanti ai suoi limiti e alla possibilità di osservare quanto il suo aiuto nasconda, sovente, dei secondi fini egoistici, in perfetto accordo con quanto vi abbiamo sempre detto, ovvero che il rapporto e la presenza delle persone intorno a voi risulta necessario e indispensabile per favorire la crescita della comprensione di voi stessi. (Vito)


D - A me non sembra tanto difficile o pauroso rendersi conto delle proprie emozioni e reazioni; basta osservare cosa provi quando uno, per esempio, ti dice: “sei intelligente”, oppure “sei un testone cocciuto ”, o cose simili … Senza fatica puoi vedere se sei contento, gonfio di orgoglio e gratificazione, oppure se ti senti offeso e ti assale la rabbia. Quelle sono le emozioni, e poi le relative “reazioni” possono essere varie: puoi aver voglia di dargli un pugno in faccia ma non lasciarlo trasparire e continuare amabilmente la discussione; puoi girare sui tacchi e andartene, puoi ribellarti e attaccare, ecc. ecc. Per eventuali gratificazioni, invece, osserva qual è il livello della tua soddisfazione, quanto ti premuri di mostrarti umile e riconoscente, quanto colui che ti parla diventa subitamente “simpatico, interessante”, ecc. ecc. Davvero può essere che sia un lavoro così pesante?

Hai ragione, rendersi conto sia delle proprie emozioni che delle proprie reazioni non è una cosa difficile: basta porre un minimo di attenzione su se stessi e ci si può rendere facilmente consapevoli delle emozioni che sono sorte in noi durante il confronto con chi ci è esterno e della maniera in cui abbiamo reagito allo stimolo cui l'altro ci ha sottoposto.
Questa è davvero la parte facile della questione! La parte difficile è, invece, quella di scoprire il perché della nascita di quelle particolari emozioni e perché abbiamo avuto quel tipo di reazione e non un altro.
Il problema nasce dal fatto che, per capire se stessi, è necessario sollevare il più possibile le barriere che vengono innalzate dal proprio Io e, dal momento che la nostra osservazione, nel momento in cui si è incarnati, adopera proprio l'Io come mezzo di osservazione quasi sempre si tende a raccontarci di noi stessi non la verità ma le spiegazioni più adatte a mantenere (e magari migliorare ai nostri stessi occhi) l'immagine che si ha di se stessi.
Questa mia osservazione potrebbe farvi sentire frustrati e darvi la sensazione che, in fondo, si tratta di un lavoro senza sbocchi utili e, quindi, indurvi a soprassedere. In realtà non è così: chi deve comprendere le emozioni che vivete e le reazioni che mettete in atto non è il vostro Io ma è il vostro corpo della coscienza e ad esso ogni elemento può risultare utile per ampliare la sua comprensione, persino le vanagloriose (e spesso fantasiosamente tirate per i capelli) elucubrazioni messe in atto dal vostro Io per abbellire se stesso o, nel caso sia in vena di autoflagellazione, per ottenere attenzione e approvazione da parte degli altri.

D - Il problema, a mio modo di vedere, è come cercare la strada per rendere da inconsapevoli a consapevoli i sensi di colpa individuali, in modo così, di cercare di “prevenire” eventuali cristallizzazioni e soprattutto successivi fastidiosissimi somatismi. Allora a questo punto la domanda diventa: siamo in grado di “vagliare” e magari accettare le osservazioni che ci vengono rivolte principalmente dalle persone di cui ci fidiamo, “allenando” il nostro Io, e a creare così, quei famosi “canali preferenziali” che aiutano il corpo akasico ad acquisire i dati indispensabili alla comprensione?

La questione principe delle tue considerazioni risiede nella domanda: “siamo in grado di vagliare e magari accettare le osservazioni che ci vengono rivolte principalmente dalle persone di cui ci fidiamo?”, domanda che, secondo me, non è limitabile alle persone di cui ci si fida ma è espandibile a ogni persona che incontriamo nel corso delle nostre esistenze terrene.
I filtri sulla realtà che viviamo nella nostra vita sono quelli che ci vengono posti dal nostro Io, ma questo equivale a dire che tali filtri sono quelli che scaturiscono dall'insieme delle nostre comprensioni e incomprensioni, quindi dal conseguente livello di sentire che è stato raggiunto.
La minore o maggiore facilità con cui i sensi di colpa inconsci arrivano a presentarsi alla consapevolezza dell'individuo incarnato è conseguenza della comprensione posseduta e il passaggio del senso di colpa da inconscio a conscio avviene in maniera pressoché automatica, come conseguenza intrinseca delle sfumature di sentire che vengono via via acquisite vivendo le esperienze quotidiane all'interno del piano fisico. Molte volte non ci si accorge di questo passaggio, perché l'Io riesce a occultarlo all'osservazione di se stessi adoperando i suoi soliti strumenti fatti di estrema soggettività tendenzialmente illusoria, tuttavia ciò non significa che tale passaggio sia ininfluente, anche se resta inavvertito, perché gli effetti di tale passaggio si riflettono inevitabilmente sulla comprensione dell'individuo e, anche se in maniera sotterranea, contribuiscono ad alimentare il flusso delle comprensioni dall'esperienza vissuta al corpo della coscienza.
Cosa si può fare per aiutare questo processo? Principalmente cercare di indurre l'Io ad essere il più possibile sincero con se stesso, cercando di togliergli le maschere che tende a mettersi e adeguarlo il più possibile alla realtà che si sta vivendo, invece di lasciare che sia lui a cercare di adeguare a se stesso tale realtà. E questo è fattibile con il minimo sforzo di porre attenzione a se stessi, alle proprie emozioni e alle proprie reazioni cercando di mantenere il più possibile aderente alla realtà dei fatti la propria obiettività su se stessi. (Rodolfo)

D - Davvero si riesce ad ascoltare le osservazioni di chi coraggiosamente ci esprime la sua opinione su noi stessi? Se ciò accadesse, secondo me, potrebbe significare che qualche sfumatura era già a portata di mano facendo capolino dal preconscio. A quel punto basterebbe un pizzico di umiltà , una manciata di fiducia nella persona che ci aiuta , ed il tutto condito con un po' di gratitudine. Questo nella migliore delle ipotesi. Sarebbe già tanto se avessimo almeno il dubbio che potrebbe esserci la possibilità che l'altro abbia colto qualcosa che ci appartiene.

Mi viene da chiedermi se ci vuole più coraggio ad esprimere la propria opinione o ad ascoltare veramente le opinioni su noi stessi che gli altri ci propongono.
In realtà, la tendenza generale è quella di bollare le opinioni altrui come errori di giudizio, come proiezioni dell'altro per bisogni suoi, sorreggendo spesso le nostre interpretazioni con l'osservazione che è il modo in cui l'osservazione ci viene fatta che ci induce ad accettarla o meno.
E' ovvio che tali considerazioni siano del tutto pretestuose e mascherino il nostro tentativo di difenderci non tanto dai presunti attacchi esterni quanto dalla possibile conseguenza dolorosa che riconoscere come anche solo parzialmente reale ciò che gli altri vedono di noi stessi.
E' evidente che gli altri scorgono soltanto parziali frammenti della nostra realtà e che tale parzialità è influenzata dai bisogni personali dell'altro. E' altrettanto evidente che l'opinione dell'altro spesso è deficitaria dal punto di vista della comprensione delle nostre motivazioni interiori, e questo è inevitabile che sia così, dal momento che l'altro non può quasi mai conoscere veramente le nostre reali motivazioni e i nostri reali perché.
Resta, comunque, un fatto incontestabile: il giudizio altrui è in gran parte basato su ciò che ognuno di noi, nel corso della sua vita, proietta all'esterno di se stesso. Di conseguenza diventa il riflesso delle nostre resistenze ad essere conosciuto per ciò che realmente siamo in quel momento della nostra evoluzione.
In fondo, è come se interiormente ci vergognassimo delle nostre mancanze e cercassimo di minimizzarle e di nasconderle in tutte le maniere possibili.
Questo significa che in profondità dentro di noi sappiamo quali sono le nostre mancanze e che manca soltanto il coraggio di ammetterlo con noi stessi per lasciarle venire a galla nella nostra consapevolezza e riuscire, così, ad affrontarle a viso aperto e con la maggiore sincerità possibile.
Si tratta di cattiva volontà da parte del nostro Io, di mancanza di coraggio o di profonda ipocrisia verso noi stessi e gli altri? Solo in minima parte è così: la maggior parte della nostra non accettazione delle opinioni che ci riguardano ha le sue radici nel fatto che all'interno della nostra coscienza mancano ancora degli elementi determinanti per farci prendere una oggettiva coscienza di ciò che siamo.

D - Noi tutti nell'osservare gli altri, siamo portati ad applicare ad ognuno di loro delle etichette che il nostro Io compila sulla base dei suoi bisogni, dei suoi desideri, delle sue aspettative.

Questo è vero ed è sperimentato in continuazione da ognuno di noi, nel corso della sua esperienza sul piano fisico, ma viene quasi sempre tenuto in considerazione soltanto in una direzione: quello che riguarda gli altri, senza ricordare che anche gli altri ci classificano con lo stesso identico meccanismo di attribuzione di etichette.

D - Quando un individuo segue il proprio sentire non ha nessun problema! Non ha bisogno di scambi di vedute.

Fosse vero, quello che affermi!
In realtà la questione non è così semplice.
Affinché l'individuo non abbia alcun problema allorché segue il suo sentire è quanto meno necessario che tale sentire sia acquisito e completo nelle sue varie sfumature, altrimenti le conseguenze del suo agire potrebbero comunque creare problematiche inaspettate e causa di sofferenze più o meno grandi a se stessi o agli altri.
E' proprio per questo motivo che è così necessario che vi sia uno scambio di elementi con chi condivide con noi l'esperienza di vita nel piano fisico, in quanto solamente in questo rapporto con gli altri è possibile confrontarsi, basandosi non su ipotesi ma su dati di fatto, con la propria realtà interiore, entrando in contatto non teorico ma pratico con ciò che si ha ancora necessità di comprendere o di perfezionare all'interno di ogni comprensione raggiunta. (Georgei)

D - Che cosa intendiamo per “esperienze che si presentano”? Si tratta di fare viaggi in terre più o meno lontane? … o di nuove persone da incontrare? … o di frequentare dei “corsi” di vario genere? … o di cimentarsi in nuove discipline sportive? … o che altro?

Quanto spesso accade che rendiate il concetto di esperienza qualche cosa di straordinario e al di fuori della normalità, perdendo di vista il reale significato di tale concetto, forse esprimendo, a questo modo, il vostro desiderio di essere unici e importanti all'interno della realtà che vivete.
L'esperienza non è necessariamente collegata a qualcosa di straordinario o fuori dalla normalità quotidiana: non crederete mica che chi vive una vita semplice, senza grandi turbamenti interiori o esteriori, non stia facendo comunque esperienza?
Fare esperienza significa essenzialmente mettere alla prova le comprensioni possedute per completarle o per verificarne l'esattezza e anche semplicemente annusare un fiore può fornirvi quel piccolo bagaglio di esperienza di cui potevate aver bisogno a quel punto della vostra evoluzione.
L'esempio che ho fatto potrebbe sembrarvi banale e insignificante dal punto di vista evolutivo, ma, in realtà, ogni esperienza che vivete è in grado di insegnavi qualcosa, ad esempio, in questo caso, che anche il più piccolo dei fiori è un'opera straordinaria e che la sua esistenza rende meraviglioso il quadro che l'Assoluto ha dipinto per voi.

D - La domanda che mi pongo è questa: “perché sento necessario ‘nascondermi’ anche con le persone che mi sono più care e vicine? La fiducia nel loro affetto per me è proprio così scarsa?”

Questa domanda, apparentemente così semplice e lineare in verità necessiterebbe di una risposta molto complessa e articolata, dal momento che implica elementi che necessiterebbero dell'esposizione dell'intero complesso filosofico che in questi anni siamo andati trattando.
Perché nascondersi? La risposta è collegata al senso di colpa, al proprio Io che teme il giudizio altrui, alla paura di perdere, mostrando come si è veramente, la considerazione e l'affetto delle persone a cui teniamo, alla capacità di essere sinceri con se stessi e con gli altri, al grado di evoluzione che ci permette o impedisce di mostrarci serenamente come veramente si è... e via dicendo.
Non si tratta di sfiducia nell'affetto degli altri nei nostri confronti, bensì di scarsa fiducia nei confronti di se stessi, temendo, con la manifestazione del proprio reale sentire, di perdere il legame con gli altri, quel legame che ci consola, ci gratifica e ci fa sentire bene anche se appoggia su un'immagine non veritiera di noi stessi.

D - “Perdonare se stessi” …Che vuol dire? Chiudere un occhio e consolarsi dicendo che “tanto, tutti fanno degli errori!”?

Arrivare a tale consolazione è veramente triste: cercare una giustificazione al proprio rubare sul fatto che altri rubano è il modo peggiore di giustificarsi!
Perdonare se stessi vuol dire prima di tutto riconoscere quali sono i nostri errori (e questo non significa conseguentemente non commetterli più), accettare questi nostri errori come inevitabili in quanto, evidentemente, c'è qualche elemento che non abbiamo compreso e che li ha alimentati e operare per acquisire quella comprensione che sola, allorché viene raggiunta, ci permetterà di non commettere più lo stesso tipo di errore.

D - Come si potrebbe interpretare "l'essere freddi"? Provo ad azzardare l'ipotesi che "l'essere freddo" possa essere una caratteristica di un individuo con il corpo akasico abbastanza strutturato e con un sentire di una certa ampiezza . Costui vivrebbe le situazioni in modo interiormente attivo, con equilibrio, prestandosi consapevolmente a fare da specchio , accettando le reazioni dell'Io, sia del suo, che di coloro che gli stanno accanto, considerandole un punto di passaggio inevitabile per la crescita individuale. Sono nel giusto?

No, non sei nel giusto, perché è sbagliato il tuo punto di partenza, ovvero che l'essere freddi sia collegato a un corpo akasico abbastanza strutturato, cosa che non è.
L'individuo con un corpo akasico ben strutturato non potrà mai essere freddo anzi, la sua sensibilità lo porterà sempre ad essere empatico coinvolto e partecipe dei bisogni e delle sofferenze degli altri, pur riuscendo, contemporaneamente, a non essere travolto da ciò che percepisce nell'altro.
L'”essere freddi o caldi e non tepidi” è riferito essenzialmente al modo di posizionarsi dell'individuo incarnato di fronte alle esperienze che gli si presentano, esortandolo ad interagire in qualche modo con esse perché essere “caldi o freddi” nei confronti dell'esperienza è la maniera per mettere maggiormente alla prova se stessi e, quindi, far affluire al proprio corpo akasico la massima quantità di dati possibile che gli possano risultare utili per allargare o completare la sua comprensione, mentre il restare “tiepidi” comporta porre barriere all'esperienza che si sta vivendo non lasciando spazio alla propria interazione e bloccando, di conseguenza, la propria interattività con l'esperienza stessa, rendendo pressoché inutile la sua funzione di stimolo.

D - Secondo me, il “non giudicare” riguarda non solo i giudizi “negativi” ma anche quelli “positivi” perché, ugualmente, non possiamo sapere come è l’altro veramente, quali sono le sue vere intenzioni e i motivi che spingono le sue manifestazioni. A volte nemmeno l’interessato ne è consapevole, … tanto meno noi dall’esterno!

Considerazione più che lecita, la tua.
Al termine “giudicare” viene quasi sempre attribuita una connotazione negativa sulla scorta delle reazioni dell'Io a quelle che magari avverte come critiche nei suoi confronti, ma il “giudizio” non è necessariamente negativo e non di rado accade che si venga “giudicati” positivamente e anche, magari, migliori di quanto si sia veramente.
Entrambi i tipi di giudizio sono, come dici anche tu, inaffidabili, in quanto si basano su l'immagine offerta dall'Io dell'altra persona, immagine che può essere anche ben lontana da quella che è la sua realtà interiore. E' per questo motivo che è profondamente ingiusto esprimere dei giudizi sugli altri e, al massimo, si può arrivare a proporre delle proprie opinioni quali ipotesi di discussione e di confronto. (Moti)
 
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