Posts written by gianfrancos

view post Posted: 11/4/2024, 09:52 Relazione: Vivere la vita (2007) - Do Ut Des - Do affinché tu dia
“E’ necessario comunque, figli, che voi tutti che ci seguite e che fate dei nostri interventi e delle nostre parole un sostegno su cui condurre il cammino della vostra esistenza, ricordiate, comunque, che essi non possono né debbono diventare un sostitutivo della vostra realtà perché, se così fosse, verrebbe a mancare quell’importante fattore per la vostra evoluzione che è costituito dall’esperienza, dalla necessità per ognuno di voi di fare esperienza all’interno del mondo fisico, per mettere in moto quel circolo di comprensione, di conoscenza, di consapevolezza che, sola, può arrivare al vostro interno e far arrivare al vostro corpo akasico quelle briciole di verità che, un po’ alla volta, vi permetteranno di abbandonare la ruota delle nascite e delle morti. Ricordate, quindi, che sempre e comunque ciò che va posto dinanzi al vostro modo di vivere, di essere, di pensare e di agire è la realtà in cui vi trovate immersi a vivere, non i sogni che così spesso trattenete presso di voi e cercate di afferrare per nascondere ai vostri stessi occhi ciò che vi circonda, ciò che vi accade, interno o esterno che sia.
Questo è ciò che conta di più e, senza di esso, anche il nostro parlare non soltanto perderebbe significato, ma verrebbe a perdere qualsiasi utilità e qualsiasi realtà.
Certamente è molto facile attribuire a se stessi dei nobili pensieri, dei nobili intenti, delle grandi conoscenze, un cammino iniziatico; ma ricordate, fratelli, ricordate, figli nostri, che qualunque iniziato non parte mai da una condizione di privilegio interiore ma parte sempre da un grande fardello di sofferenze, dolori, errori che hanno accompagnato il suo cammino prima che egli fosse pronto veramente ad essere un iniziato.” (Rodo/fo)
Ho voluto aprire con queste parole di Rodolfo perché mi sembrava che in esse ci fosse tutto il saggio senso della vita. Ma per me, comune mortale, in questo mezzo secolo che senso avevo dato alla mia vita? Come l’avevo vissuta?
È da qualche tempo che sento il bisogno di fermarmi e osservarmi e, in questo caso, probabilmente, era l’unico modo per cercare di rispondermi. Se, come credo, tutti noi nasciamo con delle caratteristiche su misura, quali strumenti importanti per condurci nell’esperienza di vita, la mia sembrava essere principalmente l’emotività. Credo che le prime ad accorgersene furono 45 anni fa le suore che non mi vollero all’asilo perché “bambina troppo emotiva”; il medico di famiglia poiché ero sempre ammalata e, in seguito, gli insegnanti e gli amici.
Lo non so se è per questa caratteristica che l’immagine che ho di me – di quando ero una ragazza – è quella di essere stata una delle più grandi sognatrici del mondo, da poter fare concorrenza a Cenerentola! Ma di sicuro so che, nel mio modo di vivere, le emozioni hanno sempre preso il sopravvento sulla ragione. Se sognavo che sarebbe arrivato il principe azzurro ho dovuto presto capire che gli uomini che ho incontrato nella mia vita avevano tutti i colori tranne che l’azzurro; se credevo che nella mia vita avrei incontrato degli amici stupendi ho dovuto capire che gli amici non sono un’idealizzazione di ciò che vorresti, ma sono ciò che sono, a volte veri, a volte falsi, a volte nemici veri e propri. E in questi rapporti l’unica salvezza mi è sembrata essere la capacità di distinguere attraverso l’osservazione di me stessa; e se ad alcuni ho voluto bene veramente, altri li avrei voluti morti, perché, se presa dai miei bisogni emotivi, ho dato spazio nella mia vita a qualche mascalzone, forse un po’ di responsabilità l’ho avuta …
E l’Insegnamento? Come ho vissuto l’Insegnamento?
Sono ormai passati più di 10 anni … all’inizio un po’ portata, un po’ condizionata, sono rimasta poi affascinata dall’Insegnamento etico, sembrava giusto per me. Con l’atteggiamento di chi se la tira un po’, mi sembrava di aver capito tante cose, ma puntualmente la vita, senza un attimo di tregua, ha cominciato a mettermi alla prova. I castelli di carta non solo sono caduti, ma mi hanno letteralmente sepolta! E
un susseguirsi di avvenimenti mi portavano davanti ad uno specchio così limpido da vedermi spesso spaesata e sola. Quanta presunzione, quanta superficialità e quanta meschinità… La vita non è un concetto o una frase recitata, ma la responsabilità delle azioni che compi e delle scelte che fai; e, ancora una volta, ho capito che dovevo fermarmi e osservare.
E i 30 anni di vita con mio marito come li ho vissuti?
Se vi raccontassi la mia vita con lui sicuramente alcuni di voi non ci crederebbero. Abbiamo il nostro armadio pieno di errori ed incomprensioni, e la sofferenza che ora condividiamo insieme tutti i giorni forse è purtroppo lo strumento che ci obbliga a vuotare quell’armadio e osservarne il contenuto. La sua malattia si è aggravata, tanto che ogni mattina la prima domanda è “come sarà oggi?”. È un anno ormai che questa domanda si ripete ogni giorno, è difficile spiegare come si vive questa situazione. Quando la giornata si presenta brutta, c’è un forte senso di impotenza e di solitudine; quando va benino non riesco a vivere veramente, perché so già che quel “benino” potrebbe durare poco. Ci sono momenti in cui mi sembra di non farcela e penso che la vita dovrebbe avere una misura per le lezioni, poi mi accorgo che mi ha sentita e che, al momento giusto, infila nella mia quotidianità quelle cose semplici e carine che mi danno un po’ di tregua e mi fanno sperare in momenti migliori.
La cosa più bella che ho fatto nella mia vita è senz’altro quella di essere diventata madre di una figlia che è il mio orgoglio e che, dopo 23 anni, ogni volta che la guardo riesco ancora ad emozionarmi come la prima volta che l’ho vista.
Questo è quello che sono riuscita a dire su questo argomento, anche se so che dentro di me c’è un mondo di sentimenti, sensazioni, pensieri e segreti, che più di tutto contribuiscono a farmi vivere la mia vita, ma che mi sembrano intraducibili e irraccontabili. Mi accorgo che quando si parla o si racconta come si vive la propria vita si tende spesso ad enfatizzarla, ad esagerarla, persino a banalizzarla a volte.
Lo non so se ho capito, se sono maturata o cambiata, ma ho dovuto capire che è nel vivere quotidiano che impari, come recita un luogo comune, a stare al mondo. Nonostante tutto non riesco a non amare la vita e non riesco a vedermi vivere senza le mie emozioni, sperando che la vita prima o poi mi farà trovare quell’equilibrio tra cuore e mente per arrivare alla tanto desiderata pace interiore.
view post Posted: 11/4/2024, 09:48 La rabbia 2 - Piccoli corsi
D - Leggevo in un libro che il nostro cervello apprende attraverso l’imitazione determinati comportamenti, determinate risposte comportamentali a delle situazioni che si trova a vivere. Il bambino da piccolo vede come reagisce la mamma di fronte a una determinata situazione e poi rimette in atto. Quello che io mi stavo chiedendo era questo, soprattutto: mi arrabbio e continuo ad arrabbiarmi, i miei figli vedono che… Perché poi non è tanto quello che gli dico, è ciò che loro vedono e comprendono… vedono che di fronte a determinate situazioni io rispondo con rabbia e, di fatto, io sto trasmettendo questo tipo di modello comportamentale. Loro risponderanno così. Come faccio a interrompere questa cosa? Capisco che dovrei risolvere la mia rabbia, però se ci sono dei modelli alternativi, posso fare in modo di… non so,… vorrei limitare i danni.
Credo che tu legga troppo, comunque. Ti infarcisci troppo la testa di idee altrui e, alla fine, ti sembrano tutte giuste, cosicché non riesci a cavar fuori un’idea originale tua; ma, per il discorso che facevi tu, non è così semplice come l’hai fatta; perché, sì, certamente il genitore propone dei modelli di comportamento ai figli così diventa un modello; che lo voglia o che non lo voglia, il modo in cui il genitore reagisce alla rabbia può essere un modello che il figlio osserva, ma non è assolutamente detto che il figlio poi metta in atto quel modello!

D - Ma se io non gli offro un’alternativa?
Ma non ci sei solo tu, c’è tutto il resto del mondo intorno, ce ne sono centinaia di alternative, migliaia, milioni! Certamente i genitori sono importanti, ma non sono poi così importanti da determinare in assoluto tutto quello che capita al figlio.
Ricordate che il figlio ha una sua interiorità, un suo carattere, una sua personalità, un suo modo di reagire, che certamente possono essere influenzati dalla personalità e dal carattere, dalla reazione dei genitori, ma non è detto che queste reazioni dei genitori diventino anche loro, siano fatte proprie da parte loro, perché i bisogni dei figli sono diversi da quelli dei genitori, l’evoluzione dei figli è diversa da quella dei genitori, i bisogni evolutivi dei figli sono diversi da quelli dei genitori; quindi le reazioni sono, comunque sia, diverse. Se fosse così come hai detto tu, vorrebbe dire che tutti i figli che hanno dei genitori che si arrabbiano, sono altrettanto aggressivi; mentre non è assolutamente vero, questo.

D - Allora, ricapitolando un po’ per mia immagine un attimo, allora per prima cosa, da quello che ho capito, è stato reso chiaro questa sera col tuo ragionamento il discorso che la rabbia non è negativa, ma è talmente utile che permette che vengano a galla degli elementi dell’individuo che altrimenti non verrebbero facilmente; quindi questa è la rabbia. Quindi la rabbia è un qualcosa di strutturale all’individuo che può essere assimilabile a respirare, un qualcosa che non dobbiamo dargli una connotazione negativa ma qualcosa funzionale all’evoluzione, appunto, come dicevi. Poi hai detto che la rabbia si può attenuare se capisci il motivo della rabbia; allora mi stavo chiedendo: non è la rabbia che si può attenuare, ma quella motivazione che scatenava la rabbia, se è compresa, non scatena più la rabbia in quella maniera, ma magari si scatena su un altro aspetto della vita.
Se è compresa, non si scatena più.

D - Per quella particolare motivazione, però.
Sì, per tutto quello che riguarda quella particolare motivazione.
Non si manifesterà più in quelle condizioni, però potrà manifestarsi per i “perché” interiori collegati a questo sentimento in altre situazioni.

D - Io dicevo che posso riuscire a tenere la rabbia fuori dalla mia portata se io riesco a capire tutto quello che mi scatena,… cioè secondo me potrebbe essere che non si manifesti più in nessun modo...e invece no? Non è così?
Se nel tuo carattere c’è una predisposizione alla reazione rabbiosa e se la tua personalità è strutturata in maniera tale che questa predisposizione alla reazione rabbiosa è “normale” per te, capirai certamente il motivo, puoi capire uno dei motivi della tua rabbia però, allorché ci sarà l’occasione, la tua reazione sarà comunque rabbiosa.

D - E il meccanismo vale non solo per la rabbia ma per tutti gli altri…
Certamente. Ricordate che quello che noi stiamo dicendo è per tutte quelle che voi chiamate comunemente “emozioni”.

D - La rabbia è la reazione più comune che conosciamo, ma un’altra reazione così tanto comune quale può essere per una cosa che ti tocca?
Beh, la violenza, per esempio.

D - Ma non è sempre una manifestazione legata alla rabbia?
Non è detto. Ci sono persone, per esempio, che picchiano i figli con freddezza. Queste sono reazioni violente al di fuori della rabbia.

D - Nel momento in cui noi acquistiamo consapevolezza, quello che immagino io è questo: capiamo qual è la causa scatenante la nostra rabbia, quello che ci fa… la sede del groviglio; la guardiamo, non per questo l’abbiamo risolta…
Voi volete continuare a parlare di queste cose in maniera teorica, cerchiamo invece di parlarne in maniera pratica! Parliamo della vita di tutti i giorni! Tu ti arrabbi perché tua figlia non studia e allora le molli una sberla perché non ha studiato!
Partiamo da un esempio di questo tipo; non dico che sia così, eh, per carità! Non sempre, almeno.
Questa è la situazione pratica in cui esce fuori questa rabbia per cui un ceffone arriva a chi deve arrivare. È chiaramente un picco emotivo che è uscito fuori; la rabbia non è della figlia, la rabbia è tua; Allora, secondo te cosa giustifica la reazione rabbiosa?

D - Non giustifica nulla. La determina la mia incapacità di gestire diversamente l’emozione che mi procura il sapere che quella lì non studia; e questa emozione non è unica, ma è una quantità di emozioni che guardo tutte, vedo e osservo ma, nel momento in cui io le ho guardate tutte, le vedo ed osservo, per cui c’è: “Accidenti, devo usare il mio tempo per starti dietro”, “Sei un’idiota e perdiamo…”, insomma ci sono una serie di cose…
Nel momento in cui io le ho individuate, se faccio ancora un passo un po’ più avanti e mi rendo conto che è un problema mio perché, tutto sommato, poi, se lei non studia sono fatti suoi - io potrei anche decidere di fermarmi un attimo prima… Ho questa sensazione: che potrei fermarmi un attimo prima e dire: “Non ti do una sberla, blocco il mio tumulto interiore e mi seggo di fianco a te e ti dico lavoriamo insieme”. Allora, non cambia nulla di tutto quello che io sento, però cambia il modo in cui… cioè, non si piglia la sberla, lei! E magari riusciamo a trasformare in positivo tutta questa energia che c’è e la facciamo fruttare diversamente. La poverina si piglia la sberla più per… avrà le sue responsabilità, ma più per una mia incapacità di gestire una situazione, che per un reale bisogno di una sberla.
Tutto bello e giusto quello che hai detto, però noi stiamo parlando di un picco; e il picco, quando esce fuori, non ti permette di fare tutti questi ragionamenti!

D - Ma mi devo fermare prima!
Ma per fermarlo prima, devi averlo compreso.

D - Quello che mi chiedo è: come faccio a incanalare… nel momento che osservo, ci sto lavorando, incanalare queste emozioni, questo groviglio, in modo tale che non arrivi alla sberla; modificarlo strada facendo, non dico scioglierlo, ma modificarlo pian pianino?
Creatura mia, in una situazione di questo tipo, tu sai che quando vedi tua figlia che non studia, questo ti provoca una reazione che arriva alla rabbia e le conseguenze, poi, si sa quali possano essere; Quindi tu sai qual è l’elemento esterno scatenante e se ritieni che non sia giusto reagire così nei confronti della ragazza, allora puoi intanto fare qualche cosa perché l’elemento esterno scatenante non ti scateni niente.
No, non capisci, vero? Se tu sai che (supponiamo che sia Giulia) tu sai che Giulia non sta studiando e la cosa ti fa arrabbiare terribilmente, e quando tu ti arrabbi non sai come puoi reagire; può esserci un momento in cui sei buona e non hai altre tensioni e allora fai la brava mammina, se è in un momento in cui le tensioni si accumulano dentro di te e allora in qualche modo arrivano al picco e tu le fai uscire tutte e ti scarichi bene e chi ci rimette è lei; che avrà anche le sue responsabilità e le farà anche bene prendere una sberla ogni tanto però, se diventa un’abitudine, anche le sberle non sono più educative ma abitudinarie, non servono più a niente.
Una sberla all’anno a volte può far pensare di più che una sberla tutti i giorni. No? Allora, se sai che è così, perché non cerchi di eliminare questa possibilità di picchi di rabbia… che so io?… facendo in maniera tale che non si ponga il problema del fatto che lei non abbia studiato. Tu dirai “Ma per far questo, devo…”… Devi?

D - Forse può essere l’aspettativa che ha il genitore.
O forse può essere la proiezione che ha il genitore.
Chiediti: “Se la bocciassero quest’anno, perché mi darebbe così fastidio la cosa?”

D - No, adesso non stiamo facendo… io mi sono fatta le domande e mi sono data anche una serie di risposte. Allora, ci sono tutta una serie di mie aspettative, sicuramente, però poi tutto sommato mi spiace anche per lei e quindi mi sento terribilmente frustrata. È come se non riuscissi a comunicare con lei, non riesco a farle capire quello che sto dicendo, o forse non riesco a capire quello che lei mi dice. A volte mi sembra di stare su due pianeti diversi, e questa cosa… sai quando muovi le labbra e non esce la voce e sembra di essere due cretine una davanti all’altra? E allora lì esplodo! Mi sembra di non riuscire a comunicare con lei! E tutta una serie di reazioni si aggrovigliano e pum, è il caos; ma non posso produrre il caos, anche perché lei non osa, chiaramente, produrlo! Non l’aiuta! E se la lascio andare, lei non sa, non sa cosa fare, non sa cosa vuole, non… Non può passare il suo tempo a leggere i fumetti!
E tu pensa che sei solo all’inizio dell’adolescenza!
Effettivamente siete su due pianeti diversi, in questo momento. Bisogna che tu abbia pazienza e aspetti che prenda la sua astronave e arrivi sul tuo stesso pianeta.

D - Ma intanto non sarebbe mia responsabilità, mio dovere, sostenerla, aiutarla? Non riesco a capire come sostenerla e aiutarla. Non riesco a trovare una sintonia, e questo è frustrante!
Eh beh, non c’è un metodo unico per poter fare una cosa del genere, lì bisogna che la tua sensibilità di madre e di donna riesca a trovare di volta in volta la maniera per reagire; che non dovrà essere sempre la stessa, comunque. Cioè non puoi dirti: “Io, d’ora in poi, in queste situazioni così, mi comporterò sempre così”; non va bene, perché non saranno mai le stesse situazioni.

D - Allora: la rabbia parte dell’akasico…
Giusto.

D - Attraversa i vari corpi…
No, non proprio giusto, ma comunque vai. Non parte la rabbia: “la vibrazione”.

D - Sì, la vibrazione della rabbia.
D - Non è della rabbia! Di qualcos’altro che non è la rabbia!
La vibrazione di qualche cosa di non compreso, che ha bisogno di essere compreso.
Quindi è indistinta, in qualche maniera. Si personalizza, si caratterizza a mano a mano che si immerge poi nella materia, perché interagisce con le componenti dell’individuo.
Diventa rabbia nel momento in cui esplode all’esterno, sul piano fisico.
Te lo rispiego un attimo. Supponiamo che sia una vibrazione unica così semplifichiamo le cose anche se, certamente, è un esempio portato agli estremi questa vibrazione parte, è una vibrazione che ha bisogno di tornare al corpo akasico tranquillizzata, quindi compresa, per poter essere inserita al suo posto nel puzzle del corpo akasico. Parte, arriva al corpo mentale della persona, questo tipo di vibrazione smuove delle cose all’interno del corpo mentale, raccoglie della materia mentale da portarsi dietro, attraversa il corpo astrale, fa lo stesso procedimento, arriva al corpo fisico con le vibrazioni provenienti dalla catena genetica, che - ricordati - è presente in tutto il corpo dell’individuo, non è localizzata in un punto solo, la quale reagisce, anche fisiologicamente, a questo tipo di vibrazione. E reagisce in che modo? Reagisce attivando le reazioni che sono iscritte come norma all’interno di quel carattere. Queste reazioni vengono a manifestarsi sul piano fisico attraverso l’espressione della personalità.

D - Ecco, ma quando quelle incomprensioni sono ancora un bel pezzettone della cosa, la richiesta sarà indistinta; e quindi cosa va a fare la differenza tra l’attivare la parte del codice genetico legata alla rabbia piuttosto che legata all’amore, o a qualsiasi altra emozione?
Questa può essere una domanda interessante. Immaginate questa situazione di cui ha parlato il nostro amico come un insieme di vibrazioni ad ampio spettro che arrivano e si catapultano verso la catena genetica, il carattere della persona. Ora, cosa accade? Non è che vanno ad attivare la rabbia, vanno ad attivare un intervallo di caratteristiche.
Così vi sono tante possibili reazioni, tutte in qualche modo sono possibili, tutte potrebbero innescare qualche cosa all’interno dell’individuo. Ora, se dovessero uscire tutte assieme, succederebbe un finimondo, veramente. Cosa accade? Accade che trovano dei cammini preferenziali di espressione all’interno del piano fisico attraverso quella che è la maniera di espressione della personalità.
Si esprimeranno attraverso la personalità; quindi la personalità in qualche modo sarà un filtro che permetterà il passaggio dell’espressione di determinate reazioni emotive e, invece, lascerà in sospeso, o addirittura annullerà o tranquillizzerà l’altro tipo di reazioni.
Questo spiega anche un’altra cosa importante, che nessuno di voi si è posto come problema: perché non accade che, per tutte le emozioni per cui viene richiesta l’esperienza dal corpo akasico, non vi sono i picchi? Altrimenti dovreste essere un continuo susseguirsi di picchi, e non succede così.

D - Ma questo non è legato a quanto abbiamo compreso di quella cosa?
In parte sì.

D - Però dipende anche dalla personalità?
Però dipende anche dal carattere e dalla personalità.

D - Mi stavo chiedendo se avere la caratteristica con la rabbia, cioè con questo Dna diciamo, ha anche a che fare con l’imprinting e l’istinto, nel senso che voi ci avete sempre detto che ognuno ha fatto le proprie esperienze nei regni inferiori che poi ce li portiamo anche dietro, fino alla fine.
Certamente, senza dubbio. Che poi è quello che inizia a differenziare un individuo dall’altro e che già dà una base diversa per la costituzione di ogni carattere per ogni individuo.

D - Appunto, nel senso che se ognuno ha un carattere diverso, ci sia anche questa… sì, questa impronta, insomma, ecco.
Se uno ha trascorso tutta la sua vita animale, diciamo, tra i bovini, certamente non si arrabbierà molto facilmente, per esempio, ma sarà un tipo molto paziente come carattere, in linea di massima. Le tracce di quello che siete stati - che siamo stati - si rincontrano anche nella costituzione dei corpi più attuali che andiamo a rivestire.
Una base comune da un carattere all’altro ci sarà sempre, quella che cambierà invece sempre è la personalità; perché, indubbiamente, ci sarà dopo l’influenza di un ambiente diverso da vita a vita, di una famiglia diversa, e quindi il modo di esprimere la base caratteriale cambierà di gran lunga, potendo sembrare addirittura l’opposto di quello che era la vita precedente.

D - Se succede una cosa, io posso reagire arrabbiandomi, reagire con violenza però queste due reazioni comunque esternamente avranno una valutazione negativa; posso avere una reazione che esteriormente ottiene una valutazione positiva?
Ma valutazione da parte di chi? Tua…

D - No, dell’esterno.
Ma da parte dell’esterno è impossibile che ci sia una valutazione positiva, perché c’è la reazione dell’Io che si sente aggredito, quindi non può mai essere positiva!
C’è una componente positiva che può essere, invece, avvertita da te mentre manifesti queste reazioni che diventano positive nel momento in cui t’aiutano a comprendere, ti mettono sott’occhio quello che è il tuo bisogno di comprensione.

D - Scifo? Allora, non mi ricordo le esatte parole, però l’altra volta ci avevi detto di riflettere, dopo aver riflettuto sulla rabbia e il piano fisico,…
Cosa che non avete fatto tantissimo, comunque!

D -… in particolare sulla rabbia e il piano astrale. Senza che io voglia dirti cosa ho pensato, però ci dici adesso esattamente che cosa succede lì?
Allora, abbiamo dimenticato quello che abbiamo detto all’inizio, ovvero questo cammino circolare che ha la vibrazione che parte dall’akasico e che ritorna all’akasico. Vediamo un attimo, usiamo questi strumenti, così riusciamo a tirar fuori qualcosa di importante, di interessante per quello che riguarda ad esempio il piano astrale. Allora: c’è questa richiesta che parte, lasciami perdere il piano mentale, attraversa comunque il piano mentale e si ricopre di materia mentale, poi si ricopre di materia astrale, arriva sul piano fisico, fa reagire il carattere, il carattere mette in moto i meccanismi che portano all’espressione di questa richiesta, sotto forma di esperienza diretta all’interno del piano fisico. Meccanismo che sembra abbastanza limpido in questo verso.
Ora, in questo caso cosa succede; sul piano astrale? Niente di particolare; semplicemente, la vibrazione attraversa il piano astrale, se non ci sono intoppi, se non ci sono altre motivazioni tipo cristallizzazioni, fantasmi in particolare e via dicendo, e compie il suo cammino tranquillamente.
Quindi, diciamo che la vibrazione in discesa verso il piano fisico avviene tranquillamente. Arrivata al piano fisico, vi è la reazione dell’individuo, con il picco vibratorio, l’esplosione e la manifestazione della rabbia sul piano fisico, Ora, è ovvio che, quando c’è l’esplosione vibrazionale, queste vibrazioni provocano delle turbolenze all’interno degli altri piani di esistenza.
Dunque, si esprime sul piano fisico, c’è questa esplosione vibrazionale, che provoca quello che abbiamo definito tzunami all’interno dei vari corpi dell’individuo, i quali non sono più tranquilli com’erano quando la richiesta stava arrivando; e, in particolare, al primo corpo che è investito, che è quello più fluido, più malleabile, più cangevole, ecc., che è il corpo astrale. All’interno del piano astrale, l’espressione di rabbia provoca una formazione di mulinelli vibrazionali all’interno di tutto il corpo, per cui - dal punto di vista emotivo e di sensazioni - l’individuo a quel punto è completamente turbato e frastornato.
Osservate le vostre reazioni subito dopo la reazione di rabbia, o la reazione di aggressività, o qualsiasi esplosione di picco emozionale: le vostre reazioni saranno di tipo fisico immediato ma saranno anche di destabilizzazione dal punto di vista emotivo; e se guardate (e poi ci arriveremo) saranno anche come diceva, giustamente per una volta, la nostra amica E. saranno anche fonte di destabilizzazione dal punto di vista mentale. Se osservate questi mutamenti, questi cambiamenti, queste destabilizzazioni, vi renderete conto di quello che compie la vibrazione nel momento che è stata espressa nel suo cammino di ritorno per compiere il ciclo verso il corpo akasico.
La vibrazione tornerà indietro, scompagina, mette sotto-sopra il corpo astrale, mette sotto-sopra il corpo mentale, arriva al corpo akasico (che vede tutte le reazioni che ci sono state) e, a quel punto, la vibrazione sarà diventata più complessa e, magari, se avrà fortuna, si incastrerà nella posizione giusta e l’esperienza avrà fatto il suo giro e avrà compiuta la sua utilità.

D - Ma il corpo akasico non ha nessun tipo di reazione?
Il corpo akasico non reagisce mai! Il corpo akasico è come… (come si può dire?) è un puzzle che aspetta soltanto di riempire i punti a mano a mano che arrivano le tessere!

D - Ma quando arriva lo tzunami non ha un sussulto? Cioè, voglio dire, non tzunama nulla lui?
Non tzunama nulla anche perché la materia che ha provocato lo tzunami è una materia transitoria, non è una materia permanente come quella del corpo akasico!

D - La sua interazione sarà quella di completarsi oppure di non completarsi.
Oppure di non completarsi e, quindi, di far ripartire di nuovo, con pazienza, un altro tipo di vibrazione con le opportune modifiche, in modo da ricreare il circolo e vedere di mettere questo benedetto pezzo, magari l’ultimo, al suo posto.

D - Un’altra domanda sul carattere: ipotizzavamo il carattere come - tra i vari scopi che ha - anche quello di limitare il sentire che possiamo manifestare durante l’incarnazione, è giusto?
Sì. Sì sì.

D - E la personalità, invece, può completare la parte di sentire che il carattere ci impedisce di manifestare?
Sssssì,… meno convinto, su questo, però sì, si può anche dire così.

D - Scifo, allora il procedimento che ci hai detto, questo vale per tutti, per tutto, quando l’akasico ho bisogno c’è questo procedimento, però se la rabbia è la manifestazione, la manifestazione riguarda la personalità,…
Sì.

D -… quindi lo scombussolamento… Mi stavo chiedendo, sai; poi magari è tutto sbagliato... Lo scombussolamento del carattere e tutto quanto ha una reazione, però è la mia personalità che la manifesta in quella maniera lì? Questo scombussolamento è la mia personalità che la manifesta in quella maniera?
Certo.

D - E quindi la mia personalità, il mio Io va in tilt completamente e quindi è abituato, si può dire, per reazione a questo. Mi viene da pensare che pian pianino ‘sta cosa, certo io ho questo pathos, però un po’ alla volta, un po’ alla volta, allora sì si può modificare, perché la personalità si può cambiare un pochino!
La personalità cambia, certamente.

D - Perché, se ho una manifestazione di uno scombussolamento, posso avere una reazione diversa pian pianino; non impormela, però pian pianino sì.
Senza dubbio. Ricordate che abbiamo detto che il carattere resta fisso, mentre la personalità è variabile per l’individuo; no?

D - Quindi la personalità è legata agli archetipi transitori, se non sbaglio, e quindi certe nostre manifestazioni sono influenzate dagli archetipi transitori!!
Tutto il vostro modo di esprimervi sul piano fisico è condizionato dagli archetipi transitori.

D - Io non so se l’ho capita giusta; però, nella prima seduta in cui avevamo parlato della rabbia, avevamo parlato anche dell’aggressività, dicendo che era una manifestazione della rabbia. Ora poi abbiamo detto che la rabbia è una manifestazione di emozioni; se però l’aggressività è una manifestazione della rabbia, che è una manifestazione di altre emozioni, non mi torna chiaro. Cioè, se l’aggressività è una manifestazione della rabbia, che è un’altra manifestazione?
Diciamo che l’aggressività è una delle maniere in cui la rabbia può essere espressa; non è detto che la rabbia abbia sempre una componente aggressiva!

D - Sì, ho capito, però… allora forse non ho ben chiaro l’aggressività… Cioè, non mi viene un altro esempio diverso di manifestazione della rabbia, allora!
Dunque, abbiamo fatto la distinzione tra che cos’è la rabbia e cos’è un’emozione e avevamo detto che, in realtà, quella che voi definite normalmente rabbia non è un’emozione, è la manifestazione di un’emozione, che è una cosa diversa così come l’aggressività, che potrebbe sembrare una conseguenza dell’emozione anche quella, non è un’emozione ma è anch’essa una manifestazione di qualche cos’altro. Quindi, tutto quello che manifestate sul piano fisico, che voi siete abituati a considerare come “emozioni”, in realtà sono manifestazioni emotive; quindi la parte finale dell’emozione come si presenta sul piano fisico. Ora, forse sarebbe bene, a questo punto, ricapitolare un attimo il cammino della vibrazione - visto che anche Fabio mi sembrava che avesse qualche perplessità in merito - per cercare di chiarirvi nel modo migliore possibile come avviene questa discesa dell’emozione attraverso i vari piani, per arrivare poi a manifestarsi in quella che, solitamente, viene definita come “rabbia”.
Allora: ricordate il famoso “schema” che avevamo dato anni e anni fa, quello del ciclo della Vibrazione Prima, in cui c’erano tutte quelle freccette, tutti quei cicli che si formavano all’interno dell’individuo e che circolavano prima nel piano fisico, poi nel piano astrale, poi nel piano mentale e poi nel piano akasico. Allora, abbiamo detto che la partenza di tutta la questione è strettamente collegata a quelli che sono i bisogni di comprensione da parte del corpo akasico; d’accordo? Tutta l’esistenza vostra sul piano fisico, tutta la costituzione dei vostri corpi inferiori, tutta la costruzione di come voi siete, è in realtà una conseguenza di quelli che sono i bisogni del corpo akasico.
Nel corpo akasico voi sapete che sono inscritte tutte le comprensioni che avete raggiunto fino a quel momento della vostra evoluzione. Queste comprensioni - come voi sapete - sono delle vibrazioni quindi possiamo al corpo akasico come a un insieme di vibrazioni che possono essere turbolente o quiete, a seconda se le comprensioni sono raggiunte o se le comprensioni sono da raggiungere. Una parte del corpo akasico, quella in cui la comprensione è stata raggiunta, è formata da vibrazioni che si compenetrano quietamente, che interagiscono tra di loro ma senza provocare problemi, distorsioni, o mulinelli, o via dicendo, mentre la parte che non è ancora messa in ordine, proprio per il fatto di non essere messa in ordine, è caotica vibrazionalmente e, quindi, ancora in subbuglio. Allora, cosa succede?
Succede che questa parte in subbuglio, che è quella che a noi interessa, quella che è lo scopo della vostra esistenza sul piano fisico - perché lo scopo della vostra esistenza sul piano fisico è quello di rendere il vostro corpo akasico uniforme vibrazionalmente con tutte le comprensioni raggiunte - questa parte in subbuglio esprime, rappresenta quelle che sono le cose che non sono state ancora capite e, quindi, i bisogni di comprensione che l’akasico ritiene di dover ancora raggiungere per ottenere lo stato ottimale.
Siccome sono vibrazioni, accade che - sotto la spinta di questo bisogno di ottenere nuova comprensione - le vibrazioni partono dall’akasico e vanno verso il piano fisico, in maniera tale che attraversano l’individuo e l’individuo, con il riscontro delle esperienze, riesca ad avere dei dati di ritorno in maniera tale che si sommino a queste vibrazioni e si sistemino nei punti strategici, in modo tale che queste vibrazioni, un po’ alla volta, trovino la comprensione e quindi si acquietino, e il corpo akasico si struttura sempre di più.
Ora immaginiamo che dal corpo akasico parta un bisogno di comprensione; quindi una vibrazione che deve portare nel suo circolo dall’akasico al piano fisico e ritorno all’akasico la comprensione necessaria per sistemare un tassello all’interno della sua organizzazione vibrazionale; parte dunque questa vibrazione e incomincia ad attraversare le varie materie dei vari corpi dell’individuo. Ora, questa vibrazione passa prima attraverso la materia del corpo mentale, poi quella del corpo astrale e poi quella del corpo fisico, per arrivare alla fine a manifestarsi all’interno del piano fisico sotto forma di azione. Cosa succede? C’era qualcuno che si chiedeva: “Ma questa vibrazione, mentre scende, viene trasformata, diventa diversa? Cosa succede a questa vibrazione, a questa richiesta da parte dell’akasico?”.
La vibrazione, ovviamente, nell’attraversare i corpi dell’individuo si scontra con le vibrazioni che incontra via via che “scende” verso il piano fisico, ovviamente e interagisce con le materie che incontra. Questo, cosa significa? Significa che la richiesta inviata dall’akasico è strettamente correlata a quella che è la composizione dell’individuo sul piano fisico. Quindi, chi avrà un corpo mentale strutturato in un certo modo, reagirà in un certo modo a quel tipo di richiesta. Lo stesso discorso vale per quello che riguarda la risposta emotiva, e la stessa cosa per quello che riguarda la risposta fisica; e, allorché questa richiesta arriva a compenetrare il corpo fisico dell’individuo in questione, passerà anche attraverso la materia che appartiene a quella che è la catena genetica dell’individuo, nella quale sono segnate tutte le caratteristiche che formano quello che è il carattere di base dell’individuo.
Ecco, quindi, che attraversando tutti i vari corpi dell’individuo, questa richiesta otterrà delle reazioni dalle componenti dell’individuo che - non dimentichiamolo - sono tali perché sono quelle di cui l’individuo ha bisogno per poter fare esperienza; quindi sono strettamente correlate ai suoi bisogni evolutivi, strettamente correlate al suo sentire e, quindi, individualizzate e utili allo scopo che deve essere raggiunto.
Ovviamente, la richiesta si deve adeguare a quelle che sono le possibilità di comprensione dell’individuo; quindi, attraversando il corpo mentale, si dovrà adeguare alle possibilità di comprensione mentale dell’individuo, poi alle sue comprensioni emotive e poi anche alle sue reazioni fisiche. Passando, questa richiesta, provoca il movimento delle varie componenti della materia dell’individuo fino a quando queste materie, mettendosi in movimento, provocano delle risposte nei vari corpi che portano l’individuo a interagire sul piano fisico manifestando la sua personalità nell’azione e nell’esperienza.

D - Quindi, in questa andata, dove si situano il carattere e la personalità?
La personalità si situa, come reazione, sul piano fisico nel momento in cui si interagisce…

D - Dopo che l’azione è stata compenetrata nella materia fisica?
Sì, dopo che la richiesta ha interagito con tutte le componenti e, quindi, porta ad una reazione sul piano fisico.

D - E il carattere?
Il carattere è una reazione alla vibrazione, che interpreta in qualche modo la vibrazione secondo certi parametri che sono peculiari di quel tipico individuo. Cosa che, d’altra parte, fa non soltanto il carattere dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista astrale e dal punto di vista mentale.

D - Quindi è trasversale?
Certo. È coinvolto tutto l’individuo, nella totalità dei suoi corpi inferiori.

D - Una domanda, magari stupida: ma allora tutto questo accade nell’attimo in cui mi arrabbio e perché mi è appena arrivato l’impulso dall’akasico e ha fatto tutto il percorso, oppure in realtà l’impulso c’è e quando io mi arrabbio questo qua semplicemente si esplica nella mia azione?
Questo può essere un punto importante. Voi immaginate che ogni volta che vi arrabbiate, vi arrabbiate perché c’è questo cammino, perché dal corpo akasico è arrivato questo impulso; in realtà non è proprio così, perché le richieste del corpo akasico sono molte e arrivano in continuazione al vostro essere. Succederà che voi reagirete e avrete la vostra reazione nel momento che le vostre componenti, le componenti di cui siete costituiti, reagiranno a quel tipo di richiesta sulla base dell’esperienza a cui vi trovate di fronte.

D - Quindi la vibrazione è lì in stand-by finché non succede qualcosa dall’esterno che catalizza la cosa, per cui tu agisci e quindi ricomincia poi tutto…
Non è neanche così, non è in stand-by; la vibrazione continua a vibrare, è attiva. Semplicemente non risuona, non provoca reazioni fino a quando non trova una risonanza vibrazionale in quello che è all’interno dell’individuo che lo porta a reagire.

D - Ma… una cosa: mi sembra di aver capito che in realtà gli impulsi sono più di uno e contemporanei, da parte dell’akasico ma in presenza, appunto, di più bisogni, quindi di più impulsi (chiamiamoli così) che cosa fa sì che uno abbia la precedenza sull’altro; cioè nel senso che la risonanza vibrazionale avviene sempre per un impulso alla volta, oppure c’è un meccanismo diverso?
No no no no; diciamo che la precedenza delle reazioni - perché poi di questo si tratta - è data da come risponde la materia che costituisce l’individuo; quindi risponde a seconda di qual è la costituzione dei suoi corpi; che, siccome sono costruiti in maniera tale da permettergli di poter sperimentare quello che non ha ancora compreso, reagirà talvolta a uno stimolo e talvolta all’altro, a seconda della situazione che gli permette di reagire sul piano fisico.
La richiesta vibrazionale dell’akasico si attiva, diventa importante e tale da generare qualche cosa, nel momento stesso in cui la materia che attraversa reagisce a lei. Quindi, perché possa creare una risposta emotiva o mentale e così via, bisogna che la materia mentale che attraversa (per esempio) abbia una connotazione tale per cui risponda in qualche modo alla vibrazione che la sta attraversando.
Deve essere così per forza, non può che essere così! Pensateci un attimo: il vostro corpo akasico ha decine e decine di bisogni di comprensione,… per essere ottimisti! Ma questa volta non è per cattiveria che lo dico, è una constatazione ovvia e logica!
E invia in continuazione queste richieste e, chiaramente, nel corso della vostra vita non potete soddisfarle tutte o seguirle tutte quante; quindi verranno seguite e soddisfatte soltanto quelle che troveranno dei riscontri che permetteranno loro di far reagire i vari corpi che attraversano.
Siete continuamente attraversati di queste richieste da parte del vostro corpo akasico; soltanto che alcune non avranno nessuna influenza perché non avete gli strumenti per poterle manifestare, per poter attivare il processo di comprensione attraverso l’esperienza di quel particolare tipo di elemento, mentre per altri elementi siete strutturati in maniera tale da poter attivare le reazioni e, quindi, arrivare a manifestare la vostra reazione all’interno del piano fisico; e, quindi, a dare elementi per la comprensione del corpo akasico.

D - Scusa, una curiosità: ma, allora, quelli che passano e che non trovano riscontro, passano e non lasciano nessuna traccia?
Passano e non lasciano nessuna traccia, e ritornano indietro senza provocare nessun problema. Ricordate che è un circolo; le richieste vengono giù e ritornano su, e continuano ad andare avanti e indietro, a circolare fino a quando non ci saranno le condizioni tali per cui questo circolo verrà deviato dalla risposta dei corpi che attraverserà.

D - Scusa, Scifo, ma allora questo passaggio - diciamo così - “indolore”, questa richiesta non soddisfatta da parte dell’akasico avviene perché non è stata fatta un’esperienza sufficiente sul piano fisico o perché nell’akasico non ci sono gli elementi sufficienti per incasellare quel tipo di esperienza?
Ma può essere vero per tutti e due i modi. Può avvenire, prima di tutto, perché i vostri corpi possono non essere strutturati per rispondere a quel tipo di richiesta; può avvenire perché non si presenta l’occasione sul piano fisico dell’esperienza che vi permetta di sperimentare quel tipo di richiesta,…
Può anche essere che non vi sia dato proprio di affrontarla; che non sia importante o che, magari, non eravate in realtà ancora pronti per poterla affrontare, o forse vi si presenta l’esperienza ma vi scivola addosso, senza che ve ne accorgiate neanche, perché non siete pronti ad affrontarla.
La normalità è che un certo tipo di reazione provoca il picco, il picco poi, per motivi interni di comprensione e motivi esterni di situazione, un po’ alla volta diminuisce la sua intensità e, quindi, l’insieme dei vari corpi ritorna a trovare un equilibrio normale. Può però accadere - e spesso accade - che in questo processo ci sia l’azione dell’Io. Cosa fa l’Io? L’Io vede, sente, percepisce, sperimenta la rabbia, si rende conto che le reazioni intorno a lui in qualche modo lo hanno favorito, in qualche modo ha ottenuto con questo episodio di rabbia qualche cosa che desiderava, e allora cosa fa? Cerca di mantenere la vibrazione della rabbia in se stesso, in maniera tale da poterla usare, sfruttare allorché gli torna comodo.
Però state attenti, perché non è vera rabbia quella; è soltanto finta rabbia, come è finto l’Io, d’altra parte! È l’Io che furbescamente si è reso conto dei vantaggi che può ottenere manifestando quel tipo di reazione emotiva e allora la tiene pronta per poterla usare in continuazione alla ricerca dei vantaggi che gli potrebbe procurare.
Ritorniamo ai nostri discorsi. Siamo arrivati alla vibrazione che attraversa il corpo mentale, il corpo astrale, il corpo fisico e si viene a manifestare nell’esperienza all’interno del piano fisico. Fermiamoci un attimo qua, prima di fare il giro di boa.
A questo punto, la rabbia - visto che parliamo della rabbia si manifesta all’interno del piano fisico. Cosa succede? Qua la cosa è veramente complicata, creature; perché, prima di tutto, vi è l’esplosione, la manifestazione di quello che voi sentite dentro, che si manifesterà in maniera diversa a seconda di quello che è il vostro carattere, quindi ci sarà chi reagirà aggressivamente, chi reagirà diventando estremamente silenzioso, e tutte le gradazioni in mezzo (intermedie) in maniera tale da poter abbracciare qualsiasi spettro di reazione da parte vostra; però non è così semplice, perché non vi è mai una situazione in cui c’è soltanto una reazione, vi sono anche le reazioni che provengono dalle persone con le quali fate esperienza; le quali, a loro volta, interagiscono con la vostra reazione; e quindi la vostra reazione si viene a caricare di che cosa? Della responsabilità del comportamento vedendo le reazioni alle proprie azioni.
E qua è già un po’ più complicata, ma non è finita neanche questa, perché al di sopra di tutto questo, le vostre reazioni e quelle delle persone che vi stanno accanto da che cosa sono in qualche maniera condizionate? Da quelli che sono gli archetipi transitori; quindi, arrivate alla manifestazione sul piano fisico e, manifestando voi stessi, il rapporto con gli altri e i rapporti con tutta la realtà che vi circonda, a cui siete collegati. Quindi, in quel momento, voi veramente manifestate tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, ed ecco perché l’esperienza è necessaria ed è quella che, soltanto vivendola direttamente, vi può dare tutti gli elementi di cui avete bisogno, perché è la più completa possibile. Non basterebbe che voi aveste la vostra reazione sul piano mentale, nel corpo mentale; ma sarebbe una reazione limitata e non potreste avere le risposte che cercate; invece, riuscendo a manifestarla all’interno del piano fisico attraverso l’esperienza alle vostre reazioni, avete tutti gli elementi necessari al vostro corpo akasico per valutare la questione che gli interessa comprendere.

D - Se ho capito correttamente è un falso problema dire “è giusto manifestare la rabbia, o non è giusto manifestarla, è giusto tenere conto di chi hai di fronte”… In realtà, il punto vero è: tu, cosa è giusto per te, in quel tipo di azione, in quel picco di rabbia è giusto manifestare perché quell’esperienza ti dia il massimo del succo per te possibile, che sarà diverso magari per un altro, con i suoi silenzi, o con la sua aggressività, o altri metodi di espressione?
Diciamo che chiedersi che cosa è giusto manifestare è già un post-reazione, in realtà ; perché tu manifesti in base a quello che il tuo carattere ti permette di manifestare, tu manifesti in base alle reazioni delle altre persone nei tuoi confronti, tu manifesti in base a quello che gli archetipi transitori a cui sei collegato ti dicono che puoi manifestare. Tutto questo, poi, alla fine, provoca delle reazioni in tutto il tuo essere, in tutto te stesso, nel momento in cui passi alla valutazione di quello che stai facendo o che hai fatto. Lì, allora, arriva il momento di chiedersi “è giusto o non è giusto?”, cosa è giusto o cosa non è giusto fare; ma la reazione avviene comunque, in una maniera o nell’altra; avviene prima del chiedersi se è giusto.
Puoi anche scegliere di non reagire, però non ti chiedi se è giusto non reagire, semplicemente non reagisci. La richiesta interiore, se è giusto che io non abbia reagito o meno, avviene successivamente; la reazione comunque avviene prima.

D - Scusa, è il mentale che riflette; giusto? È l’azione del mentale che valuta la bontà o non bontà di una reazione, cioè che fa le sue valutazioni?
Aspetta! Allora, qua… abbiamo detto che abbiamo avuto un’esperienza a cui c’è la reazione; giusto? A quel punto, cosa succede? La vibrazione torna indietro, chiaramente; torna indietro perché attraversa il corpo fisico, riattraversa il corpo astrale, riattraversa il corpo mentale e ritorna all’akasico. È in questa fase di ritorno che c’è l’elaborazione interiore del giusto o dell’ingiusto; ed è in questa fase di ritorno che l’elaborazione del corpo mentale è quella che riflette la maggiore importanza, non per il corpo akasico, ma per voi che state vivendo l’esperienza.

D - Ma se c’è l’elaborazione, c’è non solo per il corpo mentale, c’è anche un’elaborazione fisica e un’elaborazione astrale?
Certamente, certamente; ma la traduzione in pensieri, in razionalità, avviene attraverso il corpo mentale, che è l’ultimo passaggio.

D - Perché non riesco a immaginare un’elaborazione fisica!
Ma perché l’elaborazione fisica avviene attraverso automatismi, principalmente.

D - Tipo?
Nel momento che hai avuto l’esperienza, che è passato il picco di rabbia, il tuo corpo fisico reagirà diminuendo l’adrenalina, diminuendo la frequenza del respiro, diminuendo il battito cardiaco e via dicendo, ad esempio.

D - E mi fai un esempio astrale anche?
Sull’astrale, tornando indietro, avendo già fatto l’esperienza, succederà che vi sarà… che so io?… meno tensione, l’aggressività sparirà del tutto, per esempio. Vi sarà il calmarsi di tutti gli elementi emotivi che accompagnavano l’esperienza. E, alla fine, la vibrazione di ritorno arriverà al corpo mentale - che è l’ultimo corpo, in questo senso, in questo giro della vibrazione - che elaborerà che cosa? Elaborerà tutto quello che proviene dall’esperienza nel suo giro di ritorno; e quindi cercherà, a quel punto, di mettere in atto quel “giusto” o “ingiusto” di cui parlava l’amico prima.

D - E i fantasmi vibratori?
I fantasmi vibratori hanno avuto un’influenza nell’andata.

D - Nel ritorno no?
Nel ritorno no, perché la situazione è diversa; non è più la richiesta di esperienza, l’esperienza è fatta.

D - Cioè io pensavo che potessero bloccare in qualche modo il circolo vizioso anche nel ritorno.
D - Anch’io lo pensavo.
Beh, può anche capitare, ma devono essere molto forti. In quel caso, cosa succede? Succede che la vibrazione, invece di tornare direttamente all’akasico, ripeterà ancora un’altra volta il giro.

D - No, perché… Ti spiego… credo che l’abbiano provato tutti. Tutte le volte che ci siamo arrabbiati o che a me è capitato di arrabbiarmi - mi sono osservata nel picco, senza riuscire a fermarlo, ed ero come scissa in due dicendo: Ecco, questo è il picco, questo è il picco” però nel frattempo “Eahhh!” c’era tutto il mio picco; ma la mia mente però era come consapevole del fatto che ci fosse il picco senza riuscire, nonostante questo, a bloccare, modificare… Allora, qualche ritorno c’era stato; perché, come dicevi, la mente in qualche modo rifletteva, però non ero né calma né…
Perché succedeva quello che dicevamo prima; ovvero che l’Io ha preso in mano la situazione; ed è diventato l’Io, a quel punto, quello che indirizza la rabbia, non è più l’akasico.

D - Ma, quindi, mi sembra di capire che la manifestazione di un’emozione reale - passatemi il termine - è caratterizzata da un breve lasso di tempo,…
Sì.

D -… cioè, se una manifestazione di un’emozione si protrae nel tempo, allora con tutta probabilità è l’Io che ne sta facendo uso. Questo è corretto?
Certo.

D - E quindi, praticamente la prova del nove, in pratica, a quanto ho capito io, è che se tu hai il tempo (come diceva appunto lei) di capire, cioè di pensare che stai facendo qualcosa, come un dejà-vu, nel senso che sai e continui, vuol dire che è il tuo Io, a quel punto?
È vero, perché se il tuo ragionamento su quello che vedi non riesce a togliere le ultime spinte, le ultime tensioni della tua rabbia, significa che il tuo ragionamento è messo in atto dall’Io; il quale non ha nessun interesse o non vuole togliere quelle tensioni, ma le alimenta.
Pensate ai casi in cui (che so?) tra marito e moglie c’è una lite e uno dei due tiene il muso per dei giorni ; questa è una tipica reazione di questo tipo, ovvero la situazione non c’è più, l’esperienza è passata, la lite è finita, il motivo per cui c’era la lite probabilmente non esiste più, ma l’Io cosa fa? Mantiene il circolo di questa vibrazione negativa, in maniera tale da poterla strumentalizzare e ottenere quello che vuole.

D - Ma, scusa, però, la causa scatenante di quel tipo di rabbia (di cui soffro anch’io) è per esempio una grande frustrazione di fronte alla propria incapacità di affrontare una situazione ripetuta, nota e già esperienziata molte volte in maniera soddisfacente, in maniera tale da riuscire a risolverla. In qualche modo ti trovi impotente e una delle reazioni - adesso parlo a titolo puramente personale - è proprio quella che monta questa rabbia; è come una difesa, come uno sbattere fuori qualcosa prima che ti faccia troppo male quando arriva. Cosa sta succedendo allora lì? Cos’è? È l’Io? È l’akasico che cerca in qualche modo di indirizzarti per trovare una soluzione al tuo porti rispetto a questa situazione esterna…
C’è che al corpo akasico il fatto che tua figlia impari il francese non gliene frega niente, assolutamente!

D - No, ma che io impari a rapportarmi ad una qualsiasi situazione… Cioè, io sono arrivata anche a pensare che nel momento in cui fossi riuscita a risolvere il mio modo di rapportarmi, visto che nulla va sprecato, probabilmente loro avrebbero smesso di andare male a scuola, perché tanto non sarebbe più servito!
Beh, questo è ottimistico!

D - No, però vale come principio in generale, nel senso che nel momento in cui io riesco a pormi in maniera diversa, chiaramente ottengo delle reazioni diverse anche, ma se io non ci riesco a rispondere a questa cosa che succede all’esterno di me in maniera efficiente, mi rimane questa frustrazione e la mia reazione (sarà caratteriale, non lo so) è quella di rabbia, come ne esco?
Ne esci semplicemente capendo perché ti comporti a quel modo; perché il problema è tuo, non dimenticarlo!

D - E infatti sto dicendo che il problema è mio… nel senso che non posso continuare ad arrabbiarmi… Sì, per carità, continuo ad arrabbiarmi… Sono andata oltre al fatto che mi arrabbio perché tu non fai queste cose, mi arrabbio perché io non riesco a spiegarti, mi arrabbio perché c’è qualcosa che non va, mi arrabbio perché c’è una frustrazione mia, non rispondi a una serie di miei bisogni però ci sono anche necessità oggettive alle quali far fronte. C’è una mancanza da qualche parte. Come faccio a trovarla? Cioè, non riesco a capire che strada seguire. Non vedo come la rabbia mi possa aiutare in questo.
Ma tu ricorda che la rabbia, la tua espressione della rabbia dura poco. Quando la rabbia dura tanto significa che c’è qualcos’altro.

D - La frustrazione!
Ma non è neanche la frustrazione; la frustrazione è un sintomo, non è una causa.

D - Di cosa?
Eh, di cosa devi capirlo tu, non posso capirlo io per te!
Non è che ci sia molto, poi, da capire! La rabbia che provate in quei casi è semplicemente quella del vostro Io che è insoddisfatto di quello che state vivendo e, a quel punto, non accetta di doversi sentire così insoddisfatto e, quindi, reagisce negativamente o aggressivamente scaricando all’esterno le colpe.

D - Quindi non c’entra proprio più niente con la vibrazione di cui parlavamo prima; è tutto l’Io, a quel punto, che governa.
È tutto l’Io a quel punto, certamente.

D - È come se il mio tappeto akasico non avesse più a che fare con l’Io! Se c’ho quell’Io lì, vuol dire che mi serve a qualche cosa; no?
Ah, certamente; sennò come faresti a capire che stai sbagliando?! Come faresti a capire - tu come tutte le madri, tutti i genitori - che, in realtà, con le vostre reazioni ottenete il contrario di quello che vorreste ottenere dai figli?! E quel tipo di reazione non vi aiuterà a trovare il rapporto con i figli e non aiuterà i figli a trovare il rapporto giusto con voi. E questo, alla lunga, poi creerà dei problemi, ovviamente.

D - Mi stai dicendo che se in qualche modo io lavoro sulla mia “pace interiore”, il mio equilibrio interiore, basato sul non bisogno di risultati ottimali da parte del figlio, piuttosto che…, immediatamente questo si riverbera sul rapporto e si va a disinnescare il meccanismo?
Anche. L’importante è sempre - come diciamo sempre - riuscire a trovare il giusto equilibrio tra le varie cose. Certamente, fino a un certo punto è giusto insegnare ai figli a ottemperare quelle che sono le loro piccole o grandi responsabilità, però senza farle diventare più grandi di quello che devono essere veramente. Compito del genitore è quello di insegnare a comprendere il concetto di responsabilità ed a metterlo in atto spontaneamente; magari imponendolo un pochino, all’inizio, ma non imponendo “sempre” che devono essere responsabili, perché così non diventa responsabilità; diventa responsabilità imposta e non ha più nessun valore per l’individuo.

D - E laddove loro rifiutano o si comportano… Cioè, dopo che lo hai imposto un attimo, loro assumono atteggiamenti… Diciamo così: si sperimentano nel comportarsi in maniera diversa, cosa facciamo? Li osserviamo…
Invece di farvi prendere dalla vostra aggressività e farla uscire dal vostro Io manipolandola e ottenendo i fuochi artificiali, ricordate che non hanno ancora tutti i corpi allacciati e, quindi, hanno tutto il diritto di non comprendervi e di reagire in maniera sbagliata; siete voi che non avete.

D - Ma a noi è stato insegnato - e forse questo è un archetipo transitorio - che in qualche modo va mostrato, va imposto… Cioè, l’idea è questa: se li lasci fare, poi è peggio! Forse è un’idea sbagliata, allora?
Direi proprio di sì.

D - Beh, un conto è contenere, un conto è lasciar fare; son due cose diverse, secondo me. Un conto…
Come dicevamo prima, il giusto equilibrio è quello importante da trovare.

D - Ma questo credo che valga per tutte le cose, non solamente…
Ma certamente; però, in particolare, per quello che riguarda la gestione dei figli, che è sempre un argomento molto delicato e difficile da portare avanti. E voi, che siete madri o padri, ve ne rendete conto che, crescendo i figli, non è che i problemi diminuiscano, anzi!

D - Forse perché era stato detto che, dopo il picco di rabbia, praticamente anche i fantasmi vibratori venivano a galla e si rompevano delle cristallizzazioni, si potevano anche rompere delle cristallizzazioni…
Però questo non modifica la vibrazione di ritorno! La vibrazione di ritorno è quella che porta tutti i dati acquisiti; quindi i dati acquisiti sono quelli e arriveranno quelli.

D - No, pensavo che in qualche maniera potesse venire distorta dalla nostra interpretazione di bene/male o da fantasmi particolarmente resistenti e, quindi, non tutti i dati passassero all’akasico.
No no, arrivano all’akasico. Certamente che nel passare attraverso il mentale cosa succede? Succede che il mentale, attraverso gli strumenti che usa, quindi la contrapposizione bene/male, giusto/sbagliato, e via dicendo (tutti gli elementi che dicevo prima) può tenere nell’Io della persona gli elementi che più gli fa comodo tenere, a scapito degli altri; però tutti gli elementi, giusti o sbagliati, dell’esperienza arrivano comunque all’akasico.

D - Io non ho capito una cosa; cioè, nel momento in cui la rabbia viene usata dall’Io, la vibrazione che sta tornando su sparisce?, è già tornata su e interviene l’Io?, rimane un attimo ferma? Non ho capito che fine fa.
Dunque: la vibrazione sta tornando indietro, torna indietro, attraversa l’Io, cioè attraversa il corpo fisico, il corpo astrale e il corpo mentale e ritorna al corpo akasico. Giusto? Questo è il percorso lineare, normale, però cosa succede? Succede che, attraversando corpo fisico, astrale e mentale, mette in moto le materie di questi piani anche nel ritorno, in maniera diversa da come era successo all’andata, ovviamente, perché c’è stata un’esperienza in più. Ecco, quindi, che l’Io reagisce a queste vibrazioni di ritorno.

D - Non ha reagito all’andata, hai detto?
Certamente che ha reagito all’andata!
La vibrazione è già tornata su, però la materia che ha coinvolto all’interno dei corpi inferiori continua a vibrare in conseguenza di questo passaggio di dati di esperienza; continua a vibrare e resta nell’Io che in qualche modo gestisce poi la cosa al suo interno.
Se ricordate il famoso “schema”, c’è il ciclo che passa dall’akasico all’akasico ma poi, all’interno di ogni piano, c’è un ciclo ulteriore. Diciamo che questi 3 cicli (il ciclo fisico, il ciclo astrale e il ciclo mentale) comunque sia son modificati nella vibrazione di ritorno e creano un ciclo diverso da quello di prima, quindi creano la modificazione dell’Io.

D - Scifo, ma l’Io è in grado in questo modo di riprodurre fittiziamente delle vibrazioni simili a quelle prodotte dalla vibrazione vera, che si fa il suo giro e che, quindi, ha radice nell’akasico, scende e torna su per i suoi scopi? L’Io, nel momento in cui ha colto qualcosa che gli interessa, all’andata o al ritorno, è in grado di riprodurre in qualche modo quelle condizioni proprio, per esempio, per mantenersi arrabbiato 3 giorni, senza che questo in realtà all’akasico possa minimamente interessare?
Riprodurre no, cercare di imitare sì. Senza dubbio cerca di imitare. Pensate, per esempio, a quelli che fanno i maestri senza essere dei maestri ; cercano di imitare quella che è la loro idea di essere maestri e la propongono, facendo delle misere figure, molto spesso.

D - E come fai a cogliere la differenza?
Ma in quello che fa un altro o in quello che fai tu stessa?

D - Scifo, giusto per chiarirmi. Quindi la vibrazione in sé dell’akasico sale e scende praticamente pulita sia all’andata che al ritorno, eventualmente è la materia giustamente dei 3 corpi inferiori che si attacca, si gira, si volta, si gira, si modifica, in base a come viene attraversata, cioè nel momento che viene attraversata, sia all’andata che al ritorno; però poi, arrivata all’ultimo diciamo punto, dove finisce la parte fisica e si arriva alla coscienza, arriva quello che deve arrivare e basta; o parte quello che deve…
Certo.

D - Cioè, è sempre pulita lei, è solo la materia che si attacca in funzione alla risonanza della spinta akasica!
Forse, se dici “attacca”, può portare fuori strada; diciamo il modo in cui risuona quello…

D - Ecco, risuona; sì.
Non è che si attacchi, che vi sia un contatto vero e proprio ; semplicemente, nel passaggio, la vibrazione dell’akasico fa risuonare la materia attraverso cui passa.

D - Posso chiedere una cosa? Allora: praticamente il passaggio, così come è stato descritto stasera, ci sembrerebbe abbastanza lineare; però quello che si perde è quello che possiamo fare noi in tutto questo, oppure quali sono le nostre resistenze, perché in qualche modo noi ci opponiamo comunque a questo passaggio di energie in entrata e in uscita; nel senso che… Sennò, allora, a questo punto, noi saremmo soltanto degli spettatori di ciò che ci accade e viviamo le nostre vite; però in realtà noi possiamo velocizzare un pochettino meglio il nostro percorso evolutivo. Siamo qui per questo, poi, tutto sommato; no?
Certamente; e qual è il modo migliore per velocizzare? Quello di opporre meno resistenza possibile alle vibrazioni dell’akasico.

D - Quindi noi di fatto opponiamo comunque della resistenza, nel momento in cui…
Certo. Nel momento in cui la vostra materia reagisce alla vibrazione dell’akasico, crea delle vibrazioni che in qualche modo ostacolano il fluire della vibrazione dell’akasico.

D - Quindi noi ostacoliamo sia le vibrazioni dell’akasico, quindi in entrata, cioè quelle che poi provocano la reazione sul piano fisico, sia al ritorno? Cioè, in qualche modo noi questi canali di entrata e uscita… diciamo forse meglio ascendenti e discendenti, non li teniamo puliti in qualche modo?

Certamente.

D - Tramite l’Io noi captiamo queste cose e le utilizziamo a vantaggio di questo Io che poi, in realtà, dovrebbe essere uno strumento positivo ma in questo modo non fa altro che rallentarci, usato male!
E create dei circoli virtuali all’interno del circolo, e la somma dei circoli provoca delle interferenze, ovviamente.

D - Sì, e come facciamo a non provocare interferenze?
Conoscendo voi stessi!

D - Rispetto a quello che è stato detto questa sera, mi si è un po’ modificato il concetto di evoluzione; perché se ho capito correttamente allora c’è questo ciclo che parte dall’akasico come richiesta di dati, fa la sua esperienza e ritorna su; e lui fa il suo ciclo costantemente. Questo ciclo passa attraverso il nostro Io, ovviamente, le nostre convinzioni, quello che riteniamo giusto o sbagliato, ed è questo che noi dobbiamo modificare! Attraverso l’esperienza, cioè questi dati di comprensioni che partono e attraverso l’esperienza acquisiscono dei dati, avremmo la possibilità di modificarci però noi rimaniamo rigidi, non ci adattiamo a questo tipo di vibrazione che ha già compreso qualche cosa.
Sì, direi di sì, in linea di massima.

D - Per fare un esempio ritorno al discorso di prima. Si potrebbe immaginare… non so… il corpo akasico come un forno a microonde… Se io prendo una tazza d’acqua e la metto dentro, acqua pulita, questa entra in risonanza e va in ebollizione, e tutto avviene senza nessun intoppo; se io prendo una fetta di torta e la metto dentro, ci saranno alcune componenti che entrano in risonanza e fanno il loro lavoro, ci saranno altre componenti che, per come sono fatte, non entrano in risonanza con queste onde e, di conseguenza, ci sarà una parte della torta che si scalda più in fretta e una parte della torta che si scalda di meno. Lo scopo sarà quello di riuscire a far sì che tutta la fetta di torta si scaldi in modo uniforme.
Senza esplodere!

D - Senza esplodere, sì, d’accordo; perché sennò...! no, per dirla...? Si può, per ridurre le cose, semplificarle, anche per…
Sì, è un buon esempio, potrebbe essere un buon esempio.

D - Le risposte che mi hai dato alle domande che ti ho fatto stasera erano assolutamente rassicuranti ma, nonostante questo, il mio Io è qua sulla difensiva! Cioè, io provo fisicamente questa tensione che in qualche modo traduco così e non me la spiego! Cioè, sono qui in diretta…
Invece è semplicissimo da capire: perché si sente minacciato! Perché il passo successivo, è quello di applicare la logica di quello che ho detto e quindi comprendere cos’è che bisogna cambiare, quali sono gli errori. L’unico passo successivo da poter fare è quello! Se tutto quello che ho detto ti sta bene, se hai compreso le meccaniche, e via e via e via e via, il passo successivo è quello di metterle in atto!

D - Cosa succede quando, una volta che parte la richiesta di comprensione dall’akasico, noi abbiamo i corpi strutturati per la comprensione, c’è l’ambiente giusto, noi non comprendiamo, quindi torna su la richiesta all’akasico, cosa succede ai vari corpi. Era questa, vedi!
Nell’akasico non succede niente di particolare; succede che, se c’è stato qualche elemento utile a raggiungere qualche tassello, sistema il tassello e fa ripartire la vibrazione. La vibrazione riprende il suo giro, magari leggermente modificata in base a quello che è stato sistemato. Per quello che riguarda, invece, i corpi inferiori, la situazione dipende tutta da quali sono state le reazioni dell’Io nel momento in cui è stato attraversato dalla vibrazione. So che volevi sapere qualcosa di specifico, ma non è che si possa dire molto di più!

D - Io mi immagino: parte la richiesta e avrei tutti gli strumenti, la situazione sarebbe ideale, mi giro dall’altra parte (tra virgolette), quindi torna in su questa richiesta non soddisfatta, succederà qualcosa quando passa nei vari corpi?!
Beh, succede che, se ti sei girata (metaforicamente) dall’altra parte per non vedere la richiesta e non soddisfarla, la vibrazione torna su tranquillamente, ma siccome è molto paziente, non ha nessuna fretta, torna giù e ci riprova la volta successiva.

D - Ecco, ma se questa vibrazione parte e poi si trasforma attraverso il carattere in rabbia, cioè nel corpo fisico non possiamo girarci! Cioè quella c’è; no? Cioè si manifesta per forza! Cioè, se questa vibrazione parte e se io sono un carattere rabbioso e la manifesto in rabbia, anche se il mio Io non ne vuole sapere, anche se il mio astrale non ne vuole sapere, il mentale non ne vuole sapere, quello c’è per forza maggiore! Giusto?

D - Sì, però io vorrei capire perché mi arrabbio e invece no. In questo senso. Cioè, continuo ad arrabbiarmi, a dire: “Oh, come sono arrabbiata!” però senza chiedermi perché.
D - Ah beh, allora io penso che torna su e, siccome è stata ri-incompresa, ritornerà giù, a un certo punto.
Certamente, fino a quando non ti chiederai il perché e non soltanto il corpo akasico comprenderà, ma ci saranno i riflessi di questa comprensione anche nell’Io, perché ricordate che poi l’Io riflette a sua volta le comprensioni del corpo akasico; non è che non le rifletta, eh! Non è soltanto parte negativa, l’Io, c’è anche la parte positiva!

D - Cioè però quello che io non capisco è: io potrei non comprendere mai, tanto l’akasico è paziente, lui…
Non puoi non comprendere.

D - Allora, proprio negli ultimi giorni abbiamo discusso di due fatti… Uno riguardava il fatto di dover manifestare la rabbia per forza perché questa possa dare il massimo frutto sia per se stessi che per gli altri.
No, questa direi che è una sciocchezza perché non è necessario che la rabbia sia espressa per forza, e poi bisogna vedere come è espressa la rabbia, proprio perché i massimi effetti si hanno quando la vibrazione porta la comprensione, e non è detto che la comprensione avvenga dopo un picco di rabbia molto violento, ad esempio, più che di un picco di rabbia, invece, che si scioglie immediatamente.

D - Quindi si può ottenere la massima esperienza anche contenendo la rabbia?
Certamente. Anche addirittura nascondendo la propria rabbia si può ottenere il massimo della comprensione. Dipende sempre da quanta consapevolezza c’è all’interno dell’individuo.

D - L’altro argomento invece riguardava il rapporto tra l’Io e il fatto che la vibrazione, tornando indietro, attraversa prima la parte mentale più legata all’Io e la parte mentale più legata all’akasico.
Essendo un circolo, la vibrazione parte prima dalla parte del mentale più vicina all’akasico e poi ritorna attraverso la parte del mentale più vicina all’akasico. No? Quindi attraversa tutti gli strati delle materie.
Mi sembra che a volte vi perdiate nelle cose che, tutto sommato, non hanno poi molta importanza. L’importante è capire i concetti fondamentali, quindi questo circolo, questa unità del circolo e delle cose che attraversa; così come è importante capire l’unità dell’Io: che l’Io non è soltanto il vostro corpo fisico, o il vostro corpo astrale, o il vostro corpo mentale, ma è l’insieme dell’interazione di questi 3 corpi, che non sono disgiunti uno dall’altro e nessuno è più importante dell’altro. Nessuna parte di un corpo ha più importanza di un’altra parte dello stesso corpo, ma sono tutti essenziali per la costituzione della vostra realtà, per la costituzione di voi stessi; tutti essenziali alle vostre possibilità di evoluzione. Io posso capire che chi è tendenzialmente emotivo possa pensare che è più importante il corpo astrale, o chi è tendenzialmente razionale pensi che sia più importante il corpo mentale; in realtà non è assolutamente vero! Al corpo fisico, naturalmente, nessuno fa caso, non è proprio importante pazienza, ce lo teniamo, è sufficiente!

D - Scusa, a questo punto noi parliamo di rabbia come… cioè, visto tutto il percorso che abbiamo analizzato, in realtà non è altro che un grande squilibrio di vibrazioni, poi alla fine, no? Diciamo che il significato di rabbia lo diamo noi razionalmente, però di fatto è una… cioè diciamo… sì, non mi viene il termine corretto… Cioè, rispetto a una richiesta di comprensione dell’akasico, uno squilibrio vibrazionale molto forte.
Immaginatevi una valanga, che parte dal vostro corpo akasico, che è la vetta della montagna, rotola giù attraverso i vostri corpi, si ricopre (come sono solite fare le valanghe) di materia a mano a mano che attraversa i diversi tipi di materia e poi alla fine “splash”, si spiaccica all’interno del piano fisico nel momento dell’esperienza.

D - Esatto, ma quello che io mi chiedevo allora a questo punto una forte emozione come potrebbe essere la rabbia, però potrebbe essere anche un grande dolore, che differenza c’è? Cioè, in realtà stiamo parlando… È come si ricopre che ci dà la connotazione di grande dolore o di grande rabbia; in realtà è un grande squilibrio e basta.
Certamente, cambiano soltanto le manifestazioni e basta. Difatti, se ricordi, avevamo detto: prendiamo come esempio la rabbia perché è la cosa più eclatante, però poi è un procedimento che vale per tutte quelle che voi chiamate emozioni.

D - Nel momento in cui viene a mancare la persona che mi era cara, io reagisco?
Certamente: “Io” reagisco!
Tutti, tutti quando si è incarnati si reagisce! L’Io di tutti quando è incarnato reagisce a tutto quello che succede; ogni privazione che l’Io avverte, per lui è un danno, una mancanza, un insulto.

D - Ma è un così… Io, da quello che avete… mi sembrava di capire che la sofferenza, tutto sommato, è qualcosa che se si potesse evitare si eviterebbe; cioè se noi… Avete detto che non è proprio indispensabile.
Non è indispensabile.

D - Però, quando una persona cara muore arriva addosso questa facciata di dolore enorme!
A parte che non è sempre così; comunque sia, se ti muore una nonna di 105 anni è difficile che ti arrivi una facciata di dolore, sinceramente! Può esserci un momento di dispiacere, però si ferma tutto lì.

D - Ci può essere di nuovo l’Io che utilizza la facciata di dolore.
Ma senza dubbio!

D - Se muore il compagno della tua vita però sì.
Certamente, ma…

D - Non hai trascorso la vita con la nonna di 105 anni!
Certamente, ma allora non è per la morte della persona, è per quello che ti è stato tolto; quindi è l’Io che reagisce perché non vuole che gli venga tolto nulla; ciò che è suo è suo e guai a chi glielo tocca!

D - Ma in quel caso non è anche perché la persona ha bisogno di fare questa esperienza?
Anche. Senza dubbio. Certamente, altrimenti non si porrebbe mai le domande: “perché sto così male?”.

D - Posso chiedere una domanda che mi era stata chiesta da un’amica che era presente l’altra volta e non aveva fatto tempo a chiederla. Mi aveva detto: se in giovane età in qualche maniera si rimane feriti, e poi crescendo ci si rende conto che questa ferita aveva le sue motivazioni ben precise per cui è stata inferta, e si riesce in qualche maniera a capirne anche i motivi, però la ferita rimane; cioè sarebbe come se io prendo una pugnalata, certo poi guarisco ma il segno, la ferita, rimane lo stesso o si può rimarginare completamente, anche dal punto di vista emotivo, interiore dico.
Beh, teoricamente si può rimarginare completamente e sparire ogni segno, però poi bisognerebbe vedere di caso in caso; è difficile poter fare un discorso generale su un concetto del genere. Dipende da quanto la persona ha veramente compreso, quanto ha veramente superato quello che è successo, e via e via e via e via.

D - L’orgasmo come picco…come funziona come picco effettivamente, e quali sono le cose che si smuovono?
L’orgasmo cos’è?
È semplicemente un picco vibrazionale principalmente a livello di corpo fisico. Basta; non è che ci sia molto altro da dire! Questa vibrazione molto intensa, questo picco molto intenso che attraversa il corpo fisico ha poi delle risonanze all’interno del corpo astrale e del corpo mentale; principalmente nel corpo mentale, perché il corpo astrale è in subbuglio a causa della fisiologia stessa che accompagna l’orgasmo; e nel corso di questo subbuglio vibrazionale il corpo mentale diventa una massa, una ridda di pensieri caotici che accompagnano, come conseguenza del picco del corpo fisico, quello che sta succedendo fino a quando il picco non arriva al culmine e un po’ alla volta gradatamente sparisce. Allora, a quel punto, anche gli altri corpi si acquietano vibrazionalmente ed ecco che tutto ritorna in condizioni normali, e si è pronti a ricominciare.

D - La domanda è, fondamentalmente, fino a che punto diventa lecito rielaborare la cosa e, invece, quando diventa in realtà più un blocco, un impedimento a quello che è poi il normale scorrere della tua vita di tutti i giorni?
Ritorniamo al solito discorso! In realtà, voi continuate a pensare che la riflessione su voi stessi sia quello che dovete fare, sia quello che può aiutarvi a comprendere, e via e via e via e via, ma non è così.
Come noi abbiamo detto per parecchi anni, l’unica cosa che veramente dovete fare è quella di osservarvi. È l’osservazione quella che vi evita di cadere in quei passaggi reiterati che, alla fine, finiscono con non concludere niente, a confondervi ancora di più le idee. Certamente voi, mentalmente, come Io, tenderete sempre e comunque a cercare di rielaborare quello che avete fatto o quello che non avete fatto, e cercare delle giustificazioni a voi stessi o al vostro comportamento, e magari a cercare di attribuire la responsabilità di quello che è accaduto all’esterno di voi stessi, ma questo è un processo normale del vostro Io che avverrebbe sempre e comunque. Non fateci neanche tanto caso, è normalissimo questo.
Non date neanche molto peso alle vostre classificazioni di giusto e sbagliato, perché sono condizionate da troppi elementi che in realtà non hanno una vera pregnanza, una vera importanza, se non per quello che riguarda la regolazione del vivere comune con le altre persone. Quello che è importante, invece, è osservare voi stessi mentre il vostro Io mette in atto tutti questi ragionamenti; perché, dall’osservazione, voi potete trarre il succo di quelle che sono le cose veramente importanti per voi.

D - Tu hai detto: “non abbiamo parlato un granché di cosa fa la vibrazione sul piano mentale” che si esprime in maniera un pochino più esplicita attraverso il nostro pensiero, ma perché lo fa attraverso il mentale, appunto, lì, così; quando lo fa attraverso l’astrale assume forme diverse e quindi magari non le verbalizziamo nello stesso modo, non so; e quindi semplicemente attiva l’Io che pensa a se stesso. La risposta è questa. La vibrazione attiva l’Io, che comincia a pensare “ho fatto bene - ho fatto male”, a riflettere o a scegliere gli elementi che gli possono servire oppure no. Quella è la risposta.
Non attiva l’Io, attiva delle reazioni dell’Io, di alcune parti dell’Io, alla vibrazione. Se ricordi, avevamo detto che la vibrazione, scendendo, incontra la materia dell’Io e certe parti di questa materia vibrano in corrispondenza alla vibrazione che arriva dall’akasico. Ecco, quelle parti che vibrano, arrivano in primo piano nell’Io che, in qualche maniera, le mette in atto.

Ho visto che le cose che stiamo dicendo ultimamente hanno creato qua e là un pochino di scombussolamento, quindi vediamo di tirare un po’ le fila e di cercare di fare un discorso un po’ più organico, in maniera tale che possiate chiarirvi tutti i dubbi che fin qua vi sono nati e che non siete riusciti se non voi, gli altri a risolvere in maniera per voi soddisfacente.
Di cosa abbiamo parlato fino adesso? Abbiamo parlato di un’emozione, prendendo come esempio la rabbia che poi abbiamo scoperto, nel nostro discorso, che la rabbia in realtà non è una vera emozione e abbiamo cercato di capire qual è il suo percorso nel transitare attraverso i corpi dell’individuo. Tutte le cose che vi dirò stasera son tutte cose a cui avreste potuto benissimo arrivare da soli; io servo soltanto da catalizzatore per aiutarvi a mettere in atto la vostra logica e a cercare di fare una sintesi organica di tutto quello che abbiamo detto in questi 30 anni e che vi permetterebbe, di per sé, di poter far a meno di venire a fare tutta questa strada a sentire sproloquiare Scifo.
Allora partiamo dall’inizio, che è sempre la cosa più semplice: abbiamo il nostro corpo akasico che ha sistemato una parte del suo Sentire, della coscienza, però avverte, facendo attenzione tra l’insieme delle proprie vibrazioni e la vibrazione che percepisce ancora esterna a lui, ovvero la Vibrazione Prima, avverte una discrepanza tra le sue vibrazioni e quelle della Vibrazione Prima. D’accordo? A questo, voi non ci avevate mai pensato con una certa attenzione.
Avvertendo queste discrepanze, poiché questo è il suo compito, ha la tendenza a cercare di eliminare le discrepanze, in modo tale da essere in armonia con quello che proviene dalla Vibrazione Prima, che esso (lui, il corpo akasico insomma) percepisce come la giustezza della Realtà.
Allora, l’unico modo che ha il corpo akasico per riuscire a modificare la propria comprensione e, quindi, le proprie vibrazioni interne, è quello di passare attraverso i corpi dell’individuo, indurli a fare delle esperienze in maniera tale che dai risultati di queste esperienze possa mettere gli altri tasselli alla sua comprensione e, quindi, via via, modificare le proprie vibrazioni interne portandole lentamente ad assimilarsi a quelle della Vibrazione Prima.
Allora, cosa fa? Raduna le vibrazioni che sente dissonanti rispetto a quelle che ritiene giuste e le invia verso il piano fisico, cioè verso l’esperienza; quindi come avevamo detto, mi sembra, l’ultima volta non manda una sola vibrazione, ma manda un fascio di vibrazioni comprendente tutte le dissonanze che sono al suo interno e che corrispondono ognuna a qualche cosa di non compreso all’interno del corpo della coscienza. (Se non capite, fermatemi, perché sembra semplice ma non è poi così semplice da capire, il discorso.)
Queste vibrazioni partono dal piano akasico, dal corpo akasico, e in massa si dirigono chiaramente, parlo per immagini verso la materia del piano più vicino, ovvero la materia del piano mentale, ovvero verso il corpo mentale dell’individuo.
Una volta che arrivano a questo corpo mentale che sarebbe quello di cui dovremo parlare principalmente questa sera che cosa succede, secondo voi?
Arrivano al corpo mentale dell’individuo, attraversano la materia del corpo mentale dell’individuo, e tutte queste vibrazioni cosa fanno? Eccitano, mettono in moto, fanno risuonare all’interno del corpo mentale dell’individuo quelle vibrazioni che più si avvicinano a quelle inviate dall’akasico. È come se tanti campanelli risuonassero a seconda della nota che viene emessa e si mettessero in movimento all’interno del corpo mentale. Questo, però, cosa significa? Cosa succede, in pratica, a quel punto? Succede che nel corpo mentale incominciano a formarsi i pensieri, prima inconsci; poi, via via, sempre più consci; incomincia cioè a formarsi quella parte mentale che predispone l’individuo all’esperienza.
Prendiamo il caso della “rabbia”: il fascio di vibrazioni che arriva nel corpo mentale mette in moto tutti quei punti di materia mentale di quel corpo che reagiscono a quel tipo di stimolo e che predispongono a che cosa fare? A far sì che la rabbia possa, un po’ alla volta, arrivare alla coscienza e a manifestarsi sul piano fisico. Ecco, così, che l’individuo comincerà ad avere dei pensieri particolari inerenti la situazione che sta vivendo; incomincerà ad esserci l’attivazione del pensiero: “Se quella persona per fare un esempio dice questa cosa, fa questa cosa, mi dà fastidio!” oppure: “Se quella persona si comporta in quella maniera, io non so se saprò stare zitto!”, e via e via e via; preparando, insomma, una massa di pensieri che fanno da substrato all’azione che poi arriverà all’interno del piano fisico e, in qualche modo, porteranno poi, assieme alle emozioni del corpo astrale, alla manifestazione del picco di rabbia.
A quel punto, le vibrazioni continuano il loro cammino, dopo aver eccitato il corpo mentale dell’individuo e arrivano al corpo astrale. Il corpo astrale, chiaramente, a sua volta risuona, reagisce al passaggio delle vibrazioni akasiche, tanto più che c’era la preparazione posta dalle vibrazioni del corpo mentale, che a loro volta stanno andando verso il fisico, a questo punto. Quindi, arrivano alla materia del corpo astrale, la materia del corpo astrale si mette in moto; certe emozioni, certe sensazioni, certi sentimenti si mettono in moto a loro volta, sempre in relazione a quelle che sono le richieste partite dall’akasico, e vi è quindi la predisposizione emotiva su come vivere l’emozione dal punto di vista astrale.
La situazione va avanti fino ad arrivare alla manifestazione sul piano fisico. Allorché si manifesta sul piano fisico, ecco che tutte le componenti che erano necessarie affinché il corpo fisico interagisse con l’esperienza sono ormai pronte: i pensieri che han dato il substrato razionale a quello che sta vivendo l’individuo sono stati pensati, le emozioni che danno la parte esplosiva dell’individuo sono state messe in atto, stanno agendo, ed ecco che resta soltanto da fare l’azione, e poi, al limite, per contrapposizione, la non-azione manifestata all’interno del piano fisico.
Questo processo vale sempre per tutte le emozioni, non sempre accompagnato da un picco, ma quando la partenza comporta una vibrazione che non è stata affatto compresa, ma è all’inizio della sua comprensione, il passaggio è molto più invasivo, molto più forte, molto più complesso, arrivando un po’ alla volta alla manifestazione di quello che è un picco, proprio per questa complessità e per questa forza, per questo forte bisogno dell’akasico di arrivare a comprendere.
Ecco, così, che c’è la manifestazione all’interno del piano fisico. Ora, figurativamente, nel famoso schema che avevamo dato anni e anni fa, questo era rappresentato da quelle frecce che sono all’interno di ogni corpo dell’individuo. Se ricordate, c’era la vibrazione che arrivava, poi c’era una serie di frecce che attraversava un corpo, scendeva e attraversava un altro, scendeva e attraversava l’altro, e scendeva. Ricordate che era fatto così? Quindi, si può dire che son tanti piccoli cicli all’interno di ogni corpo e che si compenetrano nel ciclo che va dal corpo akasico alla manifestazione sul piano fisico; come se le vibrazioni girassero intorno nel corpo, girassero, girassero, girassero, per arrivare poi a sfociare nell’esperienza.
Questo, naturalmente, in condizioni normali; poi ci sono tutte le eccezioni, ma non complichiamoci la vita perché sennò dovremmo parlare dei fantasmi mentali, dei blocchi astrali e via dicendo, che complica un po’ tutta la situazione; così abbiamo la situazione più semplice, quella più fluida. E fin qua va tutto bene, però non finisce lì, avevamo detto.
Allorché si arriva alla manifestazione cosa succede? Succede che l’individuo reagisce nella maniera che più gli è utile, più è consona alla sua costituzione, più è adeguata al suo carattere, all’espressione del suo carattere, e questa manifestazione da cos’è accompagnata? È accompagnata dai pensieri che si è portato dietro dal corpo mentale, dalle emozioni che si è portato dietro dal corpo astrale e, quindi, la sua esplosione esterna, il suo intervento verso l’esterno porta con sé tutte queste componenti che lo hanno accompagnato dall’akasico fino alla manifestazione sul piano fisico.

D - Posso interrompere un attimo? Quindi,… una cosa di cui discutevamo oggi: nel momento in cui viene messa in atto la nostra reazione, c’è solo quella possibilità? Oppure ci sono diverse possibilità che vengono scelte, tipo dall’Io?
No; in base a quello che voi siete, in base al vostro carattere, in base ai vostri bisogni evolutivi, in base alle vostre non-comprensioni, alla fin fine, in realtà, voi non potete che reagire a quel modo.

D - Quindi c’è solo quella scelta?
C’è solo quella scelta; ci può essere qualche leggera variazione, ma in realtà l’Io non è che possa influire, sta già influendo! Perché, in realtà, le reazioni di cui stiamo parlando sono le reazioni dell’Io!

D - Perché il ragionamento verteva su questo aspetto della faccenda,ovviamente; che certamente la vibrazione, andando a muovere determinati pensieri e determinate emozioni, non può altro che portare a quel tipo di azione sul piano fisico, ma questo se fosse una cosa non inquinata, cioè una cosa strutturale, il solito mutamento strutturale che forma solo quei pensieri e quelle emozioni. Ci chiedevamo se l’Io, una volta che queste vibrazioni stanno nascendo, può manipolare questi pensieri e queste emozioni, e anche attraverso l’influenza anche degli archetipi transitori, può fare un’azione molto distante da quella che richiederebbe la vibrazione dell’akasico. Era questo il quesito che ci ponevamo.
Ma non ha senso! Non ha senso semplicemente perché la vibrazione che sta attraversando, sta attraversando l’Io! Non è disgiunta dall’Io, quindi è l’Io che reagisce, comunque sia.
E l’Io non può che reagire così perché le sue fondamenta sono quelle; quindi non è che può manipolare ulteriormente. Lui già nel passaggio tra corpo mentale, corpo astrale e corpo fisico ha già manipolato, secondo la propria costituzione, quello che deve uscire fuori. E poi l’uso delle paro certamente è improprio, perché non è che abbia “manipolato”, è che, chiaramente, non poteva che reagire a quel modo sotto quelle sollecitazioni, viste le premesse della sua costituzione.

D - Non ha l’effetto negativo che può avere poi al ritorno.
Certamente il ritorno… Bravo, questa è una bella considerazione!
Questa è una considerazione che, tutto sommato, dovreste tener presente perché potrebbe essere importante.
Allora, qua abbiamo fatto metà del percorso…

D - Volevo chiedere: avviene in modo inconsapevole tutto questo passaggio in discesa, cioè l’Io reagisce in maniera inconsapevole, oppure fa tutto in maniera lucida, presente?
No, l’Io fa tutto in maniera diciamo pressoché meccanica, in qualche maniera; siete voi che potreste essere sempre consapevoli di quello che fate. C’è il famoso discorso dell’osservazione; no? Se voi riuscite a mettervi di lato e osservare il vostro Io, allora voi potete essere consapevoli di quello che il vostro Io sta manifestando.

D - Quindi, i vari passaggi potrebbero essere consapevoli se si osservasse in modo corretto.
Certamente, e questo non può che dipendere da che cosa? Dalla quantità di evoluzione che avete raggiunto.

D - … può avvenire spontaneamente per chi ha raggiunto un certo livello evolutivo.
Certo; quindi è sempre in dipendenza, comunque, dal vostro Sen-
tire.
Il carattere dà la base per l’espressione della personalità, cioè del modo reattivo dell’individuo all’esperienza; la personalità, invece, è qualche cosa di un pochino più complesso di quello che hai detto tu. Certamente si esprime in base alla base caratteriale, in base ai pensieri che ci sono stati nel corpo mentale e alle emozioni nel corpo astrale e perché no? anche alle reazioni nel corpo fisico, ma intervengono anche altri fattori esterni, come sono gli archetipi transitori, per esempio; dove, certamente, l’influsso della società sulla reazione della personalità ha un’importanza non da poco. Quindi, per quello che riguarda la manifestazione della personalità, la cosa è ancora più complessa; mentre l’esempio che stiamo facendo è molto più semplicistico, molto più semplice da osservare.

D - Ma comunque la rabbia si può dire che è una risposta individuale a una richiesta dell’akasico di comprensione? Cioè, nel senso che non è che l’akasico manda la rabbia (detto malamente, ovviamente) ma manda semplicemente una richiesta di comprensione che l’individuo, facendo risuonare tutte queste vibrazioni, poi traduce in rabbia perché per lui questa incomprensione può essere compresa soltanto in quel modo lì?
Certo, certo. Però non è detto che sempre lo stesso invio degli stessi risultati porti poi alla stessa manifestazione; non è detto che porti sempre alla rabbia.

D - Dicevi all’inizio che l’akasico manda questo fascio di vibrazioni, tutte quelle che sono in dissonanza con la Vibrazione Prima, quindi una moltitudine immagino di richieste molto diverse tra loro, molto complesse, e com’è che vengono selezionate? Perché poi noi sul piano fisico vediamo che non è che arrivano tutte simultaneamente, quindi evidentemente ci sarà…
C’è una selezione e questa selezione avviene in maniera abbastanza ovvia, semplicemente per il fatto di come sono costituiti i vostri corpi. A seconda di come sono costituiti i vostri corpi, quindi delle vibrazioni che hanno i vostri corpi in partenza, vi è una reazione. Certamente, se in quelle vibrazioni che l’akasico manda non vi è niente che risuoni con la vibrazione della vostra materia, non vi sarà nessuna reazione. Ecco perché abbiamo sempre detto se ricordi in passato che avete i corpi di cui avete bisogno, e devono essere proprio quelli che avete.

D - Io pensavo che la selezione avvenisse principalmente a livello di codice genetico, di Dna, nella zona intermedia del corpo. È una cosa che ha senso, questa?
Ma diciamo che, in un certo qual senso, puoi anche aver ragione, anche se complica enormemente poi il discorso, in quanto, come avevamo detto in passato, se ricordate avevamo parlato di Dna astrale, mentale e fisico, quindi in realtà c’è una componente del Dna che attraversa tutti i corpi dell’individuo e, quindi, in qualche maniera, bisognava ripetere tutto il discorso per quello che riguarda la manifestazione del vostro Dna mentale, ecc. ecc. ecc. ecc., però direi che se ne può fare tranquillamente a meno, tutto sommato. Nel meccanismo delle cose entra anche questo discorso, però non è indispensabile per capire quello che succede veramente all’individuo.

D - Comunque i corpi fanno da filtro, insomma, a questo fascio?… i corpi inferiori.
Ma più che da filtro, fanno da… come potrei dire?… da “portatori” delle richieste dell’akasico.

D - Quindi il filtro è nell’akasico, comunque?
No, il filtro è automatico; il filtro accade semplicemente perché non avete in certi corpi delle risposte vibratorie alle vibrazioni provenienti dall’akasico; quindi, non essendoci risposte, queste vibrazioni passano senza eccitare nessuna parte di materia dei vostri corpi inferiori.

D - Sì, è la struttura del corpo che fa da filtro.
Certo. Ci siamo? Siete pronti ad affrontare il ritorno? Il ritorno è certamente qualche cosa di più complesso e, forse, un po’ più difficile da arrivarci da soli.
Allora, ecco che finalmente c’è stata la manifestazione del picco di rabbia sul piano fisico; le vibrazioni provenienti dall’akasico sono arrivate all’esterno, si scontrano con la realtà, cambiano (perché ovviamente, scontrandosi con la realtà, si scontrano con le vibrazioni provenienti dall’esterno e con le reazioni interne vostre e vengono modificate), quindi questo fascio di vibrazioni prende e torna indietro, come un ping-pong, come una partita a tennis, dove l’esperienza fa un rovescio verso il corpo akasico, colpendo in pieno la vibrazione akasica che torna indietro; questa pallina/massa di vibrazioni torna indietro e ricomincia il cammino per ritornare verso l’akasico.

D - Posso interrompere? Avrei una domanda: questo vuol dire che la vibrazione, quando parte, ha già dentro di sé il seme per aggiustarsi, diciamo; per mettersi a posto?
Fermiamoci un attimo su questo: questo è senza dubbio vero, perché voi sapete che, in realtà, voi avete già raggiunto la massima comprensione; in realtà siete già diversi, completi, uniti con l’Assoluto, soltanto che non lo sapete ancora! Quindi, necessariamente, tutto questo succede in maniera abbastanza assurda se uno vuol guardare sulla base della logica perché accade che l’akasico invia queste domande, queste richieste di comprensione, mentre in realtà la comprensione la possiede già! E so che questo è difficile da capire, quindi lasciamo stare. Ne parleremo poi più avanti, se ci sarà dato di poterlo fare.
Allora, abbiamo detto che il nostro tennista ha mandato indietro il fascio di vibrazioni modificato verso il corpo akasico. Ovviamente, questo fascio di vibrazioni non contiene più soltanto la vibrazione akasica (no?) ma, nel passaggio attraverso il corpo mentale, corpo astrale e corpo fisico, ha portato con sé anche le vibrazioni di questa materia che ha eccitato, che si sono andate a scontrare con l’esperienza e l’esperienza, in qualche maniera, ha provocato dei mutamenti in questo insieme di vibrazioni. Anche soltanto per il fatto di esserci stata l’esperienza, questo porta già a una modifica delle vibrazioni della massa vibratoria. Lo sapete che dice la vostra scienza che anche soltanto osservando un fenomeno, già si modifica; no?
Allora, ecco che questa massa di vibrazioni incomincia il percorso contrario; prima attraverso il corpo fisico e qua cosa succede? Le vibrazioni nuove dicono al corpo fisico che l’esperienza c’è stata, che il picco di rabbia sta scemando ed ecco che, di conseguenza, il corpo fisico un po’ alla volta lavora cercando di riequilibrare se stesso e di ritornare in condizioni fisiche normali: la pressione sanguigna si abbassa, il sudore si ferma, il tremore incomincia a diminuire, e via e via e via e via; tutti i sintomi di cui avevamo parlato in passato, nel momento del picco di rabbia; no? Questo, come accade? Accade perché la massa di vibrazioni non è che attraversa semplicemente una porzione del corpo fisico, ma fa un giro (come, ricordate, le famose freccette nell’altro verso) all’interno di tutto il corpo fisico dell’individuo, andando quindi a toccare, a modificare con le modifiche che ci sono state dopo l’esperienza le condizioni del corpo fisico in quel momento.

D - Quindi, l’esperienza drammatica di uno scatto di rabbia praticamente va a modificare la situazione fisiologica, biochimica del corpo che aveva scatenato prima. Cioè…
Se prima alimentava il picco, nella fase di ritorno disalimenta il picco, facendo sì che il picco di reazione emotiva un po’ alla volta diventi meno forte e quindi il corpo fisico, con tutte le sue componenti fisiologiche, si stabilizzi trovando un nuovo equilibrio.
Poi arriva al corpo astrale. Il discorso, ovviamente, è esattamente lo stesso: la massa di vibrazioni gira tutto intorno al corpo astrale dell’individuo, in qualche maniera riesce (quando riesce a farlo) a sedare le principali emozioni che ormai si sono sfogate, e… (è difficile riuscire a dare un’immagine di quello che succede in questi casi!)… e lascia nel corpo astrale, che cosa? L’impronta delle modifiche che la vibrazione ha avuto nell’espletare l’esperienza; o meglio ancora: l’esperienza compiuta ha modificato le spinte astrali che avevano completato l’esperienza verso l’esterno e, avendole modificate, nel passaggio di ritorno all’indietro vanno a modificare il corpo astrale dell’individuo di conseguenza.

D - Quindi si modificano le emozioni che erano all’origine della reazione rabbiosa?
Certo, sì, esatto.

D - A questo proposito, si è detto che la rabbia è una reazione emotiva, però mi chiedevo se sul piano astrale, cioè nel corpo astrale esiste un’emozione chiamata “rabbia”; cioè, voglio dire, la rabbia, da quello che ho capito fino ad ora, sembrerebbe una reazione a più emozioni che si scatenano. Quindi, la rabbia risulta un ritorno violento di dati, di vibrazioni, ma non ha un corrispettivo fisso, stabile, di tipo emotivo sul corpo astrale?
Certo, certo. È una somma di diverse spinte astrali; che poi le emozioni del corpo astrale sono delle vibrazioni in realtà, e la rabbia è un insieme di vibrazioni che si uniscono per arrivare ad alimentare questo picco.

D - Noi la chiamiamo emozione ma, in realtà, non è un’emozione precisa.
Come dicevamo l’altra volta, quelle che voi vedete all’interno del piano fisico e che chiamate “emozioni” non sono le emozioni ma sono “reazioni emotive”, che è molto diverso.

D - Quindi noi una percezione diretta, precisa e chiara delle emozioni non possiamo averla?
Potete averla nel suo riflesso, ovvero nella reazione emotiva.

D - E da lì ci facciamo tutti i nostri schemi e le viviamo…
Solitamente, voi vivete in funzione di quello che sperimentate sul piano fisico, ecco che vi immedesimate nel vostro Io, ecco quindi che quello che vivete come emozione all’interno del piano fisico voi lo prendete come emozione reale; mentre, invece, la genesi dell’emozione reale non è quella, ma è soltanto una sua manifestazione.

D - Quindi, se stiamo bene attenti a quello che… al casino che combina la rabbia, possiamo individuare delle emozioni che prima, magari, non…
Certamente, ma non soltanto: se riusciste ad osservare tutto questo processo potreste anche rendervi conto, molte volte, che la parte emotiva che sta alla base della reazione emotiva che abbiamo definita “rabbia”, spesso è accompagnata anche da elementi positivi, perché niente di quello che voi manifestate porta soltanto le vostre incomprensioni, ma tutto porta sia le vostre incomprensioni che le vostre comprensioni.

D - Mi viene in mente che, a volte, dopo uno scatto d’ira, improvvisamente magari uno si sente liberato e gli viene da ridere, gli viene da… Oppure abbraccia la persona con la quale… Cioè, c’è un cambiamento improvviso, a volte, nelle emozioni dopo una lite.
Certamente, è per quello che molte volte noi vi diciamo: “dovreste riuscire anche a ridere di voi stessi” perché se trovaste motivo di ridere, o di sorridere di voi stessi e delle vostre reazioni, molte delle reazioni che avete si stempererebbero già in partenza e molti picchi diventerebbero meno pericolosi per voi e per gli altri; ricordando che tutto quello che vivete non è mai positivo ma ha sempre una duplice faccia quindi c’è sempre anche una parte positiva, oltre a quella negativa, che può essere osservata, per chi osserva spassionatamente.

D - E poi, improvvisamente, si può vedere lucidamente un errore, una situazione che prima era nascosta.
Nella vostra lingua italiana voi avete una caratteristica molto particolare: gli avverbi. Io ho detto “spassionatamente”, poi ho detto “certamente”,… pensateci un attimo; sono un’espressione bellissima i vostri avverbi, perché indicano chiaramente che quello che voi dite passa attraverso la vostra mente; no? Certamente: mente certa; spassionatamente: con la mente spassionata, e via e via e via e via. Ci avete mai pensato? È carina la cosa! Interessante!
Eravamo al corpo astrale. Il fascio di vibrazione compie il suo giro modificando il corpo astrale dell’individuo, che troverà un altro equilibrio sotto la spinta delle nuove vibrazioni che sono entrate in contatto con lui, e arriva al corpo mentale. Anche qua, chiaramente, il processo non può far altro che ripetersi; ancora una volta le vibrazioni ormai soltanto più akasiche e mentali passano attraverso il corpo mentale, tendono a portare il corpo mentale a ritrovare l’equilibrio e, per far ritrovare l’equilibrio, cosa fanno? Modificano in parte le vibrazioni che erano all’interno del corpo mentale e che erano in qualche maniera causa dello squilibrio che ha portato al manifestarsi del picco di rabbia; no? Quindi avviene, di conseguenza, che anche il corpo mentale ha una sua piccola o grande trasformazione. Questo cosa porta come conseguenza? Tutto quello che ho detto, e poi come conseguenza è che in questo processo l’Io che avevate all’inizio non è più quello che avrete alla fine.

D - E quindi se posso, se ho interpretato correttamente ogni discesa non sarà mai identica a se stessa proprio per questo tipo di processo, cioè ogni discesa di vibrazioni?
Certamente, sono diversi i presupposti, sono diverse le reazioni, in maniera più o meno ampia, e sono diversi anche i risultati, le comprensioni e quindi è diverso anche il cambiamento, la variazione dell’Io. Questo vi dà ragione se ci pensate, adesso del perché abbiamo sempre detto che il vostro Io è in continuo cambiamento, che non siete mai gli stessi. Questo, perché voi vivete l’esperienza di continuo ed ogni esperienza, al vostro interno, cambia i vostri corpi e, quindi, la vostra capacità di esprimere esperienza e, quindi, il vostro Io. Quindi, prima dell’esperienza e dopo l’esperienza, voi siete comunque sia rinati, siete persone diverse.

D - Quindi, scusa, questo passaggio di ritorno vuol dire che i nostri corpi si modificano già “definitivamente” tramite questa vibrazione di ritorno prima che questa vibrazione sia ritornata all’akasico?
Sì. Anche perché l’akasico non fa parte dell’Io, quindi l’akasico non cambia, in realtà.

D - Potremmo definire tutto questo processo… suddividerlo in tre fasi ipotetiche?… Nel senso: la discesa è la fase in cui avviene fondamentalmente il movimento, cioè la vibrazione movimenta la materia che attraversa,…
Sì.
D ,,, poi c’è l’esplosione, e quindi la manifestazione nel piano fisico,…
Sì.
D - … e il ritorno in realtà è la modifica, cioè avviene la modifica della materia stessa. È corretto vederla in questo modo, per semplificare?
Sì. Vi sembra tutto chiaro, ovvio? Ditemi la verità: avreste potuto arrivarci anche da soli, in realtà!
D - Beh, adesso, con certi aiuti, sì.
D - Più sulla prima parte che l’ultima.
D - Senza qualcuno che ci dice “questo è giusto e questo no”, dubito.

Mah, io sono più fiducioso nelle vostre possibilità di quanto lo siete voi; comunque, diciamo che siamo arrivati a comprendere questo, che ci dà ragione già di molte cose; perché, come ho detto, ci dà per esempio ragione del fatto che l’Io è sempre diverso di attimo in attimo, e anche voi quindi siete diversi di conseguenza; che non siete mai gli stessi; che voi non siete l’Io perché, se è sempre diverso, allora voi sareste sempre diversi, e quindi non è possibile che voi siate sempre diversi, voi in realtà siete “voi”!

D - A proposito dell’Io,… e l’Io, nella sua illusoria esistenza, poggia sull’immagine. In questo discorso l’immagine viene sconvolta, viene cambiata, viene... Mi chiedevo cos’era in effetti l’essenza dell’Io; è l’immagine l’essenza dell’Io, in sostanza? Cioè, se non ci fosse la possibilità di farsi un’immagine di se stessi, non potrebbe esistere l’Io!
Ma certamente; o, per lo meno, l’Io esisterebbe ma non avrebbe la possibilità di reagire con l’esterno.

D - Eh! Perché il risultato delle reazioni dei vari corpi…
Io m’azzarderei a dire che l’immagine, per l’Io, è quello che è la personalità per l’individuo; quindi come la personalità è il mezzo che ha l’individuo per esprimere se stesso all’esterno, l’immagine è la personalità fittizia che l’Io si crea pensando di potersi manifestare così all’esterno.

D - Quindi la personalità può essere influenzata anche dall’immagine che l’Io si è fatto di sé?
Certo, e viceversa.

D - Più che influenzato, non è che su alcuni aspetti si sovrappongono, le due?
Su alcuni aspetti si sovrappongono, su altri si contrastano, e il tutto poi porta a delle conseguenze, chiaramente.

D - Posso? Allora, in un’altra seduta avevamo detto che nel momento in cui avviene il picco di rabbia, la manifestazione nel fisico, l’Io ne è completamente sbalestrato, tanto che c’è un momento in cui, dopo il picco, possono venire a galla tantissime cose (mi ricordo questa cosa); in questo procedimento delle vibrazioni, come cambiano nell’attraversare la materia, a livello del picco, poi, cosa succede per cui l’Io è sbalestrato e vengono a galla tutte queste cose?
Avviene una cosa abbastanza semplice: che le vibrazioni che non hanno avuto nessuna risposta nell’attraversare i corpi dell’individuo, perché non vi erano elementi che risuonassero alla pari con queste vibrazioni, in qualche maniera risuonano all’interno del corpo fisico invece, e si manifestano con reazioni senza avere in realtà una vera fonte che li spinge in reazione all’interno del piano fisico. E sono reazioni dovute, appunto, a questi elementi che non hanno trovato una risposta vibratoria all’interno dei corpi che hanno attraversato. Non so se sono riuscito a farmi capire. Diciamo che nel momento in cui vi è l’espressione della reazione emotiva, se il picco è abbastanza forte, porta con sé l’espressione di tutto il fascio vibratorio che l’accompagnava. Fin qua ci eravamo già arrivati, prima, però in questo fascio vibratorio in realtà ci sono anche le vibrazioni che non hanno avuto alcuna risonanza, quindi ci sono altre non-comprensioni, che non hanno la possibilità di sfogarsi attraverso il corpo mentale, il corpo astrale e il corpo fisico; però qualche traccia di queste vibrazioni non sfogate, nel momento in cui il picco esplode all’esterno, possono comparire nella reazione dell’individuo.

D - Cioè, è per questo che, quando c’è una reazione, in realtà potenzialmente potremmo comprendere molto di più, perché ci sono queste vibrazioni “nulle”, che comunque ci sono?
Ecco, diciamo così: se steste attenti, riuscireste anche a individuare quelle richieste dell’akasico, quindi quelle reazioni, che in realtà non si esprimono perché non hanno trovato una costituzione fisica, fisiologica, nei vostri corpi adatta all’espressione. In realtà, però, in qualche maniera, nel momento dell’espressione all’interno del piano fisico dell’esperienza, trovano la possibilità e il modo di esprimersi all’esterno; soltanto che sono talmente sovrastate solitamente dalle reazioni normali del picco emotivo, che restano nascoste e non vengono notate.

D - Sono reazioni fisiche?
Sono reazioni diciamo in gran parte fisiche, ma accompagnate anche da emotività e da pensieri, chiaramente. Dicevo che è un discorso molto tecnico, perché questo potrebbe essere utile da comprendere in una più vasta concezione psicologica delle reazioni dell’individuo, chiaramente; anche se complica enormemente le possibilità.

D - Quindi se magari parte la prima volta la richiesta dell’akasico, magari quando poi torna su e riparte di nuovo la richiesta, magari al secondo giro si potrebbero comprendere?
Certamente. Ricordate che io ho detto che quando scende, quando partono, non trovano risposta all’interno del corpo fisico , astrale e mentale, ovviamente ritornando su, i corpi dell’individuo che trova sono stati modificati; quindi può darsi che, in un secondo giro, trovi invece delle risposte. Quindi, è un po’ come se continuasse ad alimentare il cambiamento, continuasse ad alimentare la possibilità di espressione dei vari corpi che attraversa.
Aumentando anche le possibilità di comprensione ma perché? Perché sono aumentate le possibilità di espressione! Cambiando le possibilità di espressione, cambia anche la possibilità di comprensione di quel determinato fattore.

D - È molto bella come immagine, perché spiega molto bene come si autoalimenta il sistema della comprensione stessa e di tutto quanto.
È tutto perfetto! E così siamo ritornati al nostro corpo mentale, il quale subisce lo stesso trattamento degli altri corpi: il fascio di vibrazioni lo attraversa, i pensieri che accompagnavano il picco di rabbia un po’ alla volta diventano meno impetuosi, diventano più razionali, incominciano ad essere elaborati in maniera diversa e il corpo mentale stesso viene modificato dall’essere attraversato da queste vibrazioni. Ecco, quindi, che anche se uno che è scemo non diventerà certamente una cima, certamente il corpo mentale e le sue possibilità di comprensione e di ragionamento saranno in qualche maniera modificate nella loro struttura.
Ci troviamo così, come dicevo prima, con un corpo mentale, un corpo astrale e un corpo fisico in realtà diversi da quelli da cui si era partiti, con possibilità diverse e con possibilità espressive che è quello che più conta diverse dalla partenza.
Allora, finito il suo giro intorno al corpo akasico, il fascio di vibrazione che si è spurgato nel passare da un corpo all’altro di tutti gli elementi astrali, mentali e fisici, ed è ritornato soltanto alla materia akasica, ritorna sul corpo akasico, che terrà presso di sé, incastrandole al posto giusto, quelle che possono essere delle comprensioni, degli elementi che si incastrano nella maniera migliore e poi ricomincerà il suo ciclo fino a quando riuscirà a portare tutta la comprensione al proprio corpo, all’interno del suo corpo akasico.

D - Ma noi quando osserviamo se riusciamo ad osservare qualcosa, intendo un pensiero, un’emozione, in realtà non siamo in grado di capire se stiamo parlando di qualcosa che è in fase discendente oppure ascendente; cioè possiamo osservare soltanto quello che pensiamo o quello che troviamo, punto. Cioè, non siamo in grado di distinguere i due...?
In realtà, sareste in grado di distinguere, però se l’osservazione è passiva, non c’è bisogno di fare distinzioni, bisogna osservare e basta. È chiaro che, prima che avvenga la reazione emotiva c’è la discesa e dopo la reazione emotiva c’è la salita.

D - È la manifestazione che fa da spartiacque.
Certo. E, un po’ alla volta, anche se voi non ve ne rendete conto, vi stiamo portando a ragionare in maniera diversa; ovvero stiamo portando, insinuando in voi, l’idea che chi osserva in quella che noi chiamiamo “osservazione passiva” non è il vostro Io. Questo, se riuscite a raggiungerlo, cambia completamente il vostro modo di vedere voi stessi e la vostra vita. In realtà, se ci pensate bene, non ci può essere che una risposta a questa cosa: chi osserva in maniera passiva non è il vostro Io ma… chi è?

D - Il corpo akasico.
Bravi! Quindi, stiamo cercando un po’ alla volta, piano piano, lentamente, senza che neanche voi ve ne accorgiate, di portarvi a considerare che voi siete il vostro akasico e non siete il vostro Io. E quando voi lo sentirete, lo accetterete, lo comprenderete, la vostra vita sarà davvero diversa.

D - L’Io può solo farsi da parte.
Certamente; ma, a quel punto, nel momento in cui voi sarete consapevoli che non siete il vostro Io ma siete la vostra coscienza, non ci sarà nessuna necessità che il vostro Io si faccia da parte; il vostro Io esisterà come una parte di voi necessaria, anzi direi persino indispensabile nella sua illusorietà, per portarvi ad arrivare a comprendere che voi non siete il vostro Io bensì la vostra coscienza.

D - Quindi verrà usato per quello che effettivamente è.
Certamente; come uno strumento, non come un fine ma come un mezzo.

D - A disposizione dell’akasico, come spesso siamo a disposizione dell’Io, ovviamente.
Certamente; cambierà completamente la vostra visione della vostra realtà e di voi stessi.

D - Quindi, anche di tutti i guai che accompagnano l’Io; dolori, sofferenze, guai…
Senza dubbio. E cosa ci può essere di più soddisfacente e gratificante per tutti voi? Certo, soddisfacente e gratificante per chi? Per il vostro Io; e qua sembra che si ritorni al punto di prima, però non dimentichiamo che, se voi osservate il vostro Io con la vostra coscienza e davvero vi rendete conto che il vostro Io è necessario e giusto che ci sia, è anche giusto che possa sentire gratificazione, e quindi va accettata anche la gratificazione dell’Io. Perché sentirsi in colpa se uno si sente gratificato da qualche cosa?! Invece, molte volte riuscite a sentirvi in colpa anche di quello che vi fa piacere!

D - Quando dicono “far diventare conscio un pensiero inconscio”, vuol dire che a quel punto i corpi sono strutturati; cioè prima non lo erano e poi, a un certo punto, ho dei dati in più, c’è stata una modifica e allora, a quel punto, son diventati consci, i pensieri si possono manifestare.
C’è la possibilità che, se la modifica è quella giusta, il pensiero possa diventare conscio, certamente. E questo è alla base visto che tu sei addentro alle cose della psicologia sta alla base del meccanismo psicanalitico; no? Nel momento che l’individuo parla con lo psicologo e teoricamente nei casi migliori tira fuori la propria esperienza, questa esperienza è accompagnata da pensieri, da emozioni e da reazioni fisiche, quindi un’emozione, è lo stesso procedimento della rabbia in realtà. E ci sono questi pensieri inconsci che non riescono a venire manifestati, però l’individuo manifesta con lo psicologo o lo psicanalista che sta cercando di aiutarlo si manifestano le reazioni all’esterno.
Nel ritornare indietro, queste reazioni cosa provocano? Provocano una modifica dell’Io del paziente; giusto? Questa modifica potrebbe essere tale da permettere ai pensieri inconsci di affiorare. Ecco perché l’utilità della tecnica, di quel tipo di tecnica, che potrebbe essere utile se lo psicanalista, lo psicologo o chiunque usi questa tecnica, riesce a fare le cose nella maniera giusta, cercando di non proiettare se stesso e i propri bisogni su quelli del paziente; ché la difficoltà principale, in questi rapporti a due, è sempre questa!

D - Quindi, scusa, praticamente deve riuscire a fare da specchio neutrale?
Certo: più lo specchio è pulito, meglio è! È che è difficile poterlo fare, perché la maggior parte degli psicoterapeuti tende a interpretare questo come un non fare niente, ma non considerano che anche il non fare niente può essere un modo, una maniera per influenzare l’altra persona; è qualche cosa di più sottile nel comportamento. E poi deve diventare l’altro, in modo che l’altro riconosca se stesso nello psicoterapeuta e, quindi, non si senta influenzato da altri che da se stesso. È difficile questo passaggio da riuscire a mettere in atto. Ma diventiamo troppo tecnici… e avete già troppi pensieri, non vorrei darvene altri! (Scifo)

Padre mio,
io guardo la Realtà che Tu hai creato e non posso fare altro che restare annichilito nell’osservare la complessità dell’enorme Disegno che hai saputo creare.
Tutto, per chi sa ben guardare, ha un suo posto e una sua posizione, nulla è in contrasto con nulla ma tutto esiste perché è necessario che esista; la Realtà è reale proprio perché Tu hai concepito il reale come esistente.
Come non essere innamorati di Te, Padre mio, che tutto questo hai saputo sognare?!
La pace sia con tutti voi, figli. (Moti)
view post Posted: 7/2/2024, 12:02 La rabbia 1 - Piccoli corsi
Creature, serenità a voi.
Prima di incominciare, volevo spiegarvi un attimo l’andamento di questa seduta e delle prossime, perché abbiamo deciso di prendere un argomento – in questo caso «la rabbia» – e di fare ciò che si può fare, conoscendo l’Insegnamento, nell’esaminare qualcosa di particolare, come un’emozione quale la rabbia; ovvero esaminare questo argomento da tutti i punti di vista, in modo tale da insegnarvi, da mostrarvi come si può operare per rendere attivo e pratico quello che noi diciamo.
Per questo motivo, «la rabbia» non sarà soltanto l’argomento di questa sera ma anche di qualche incontro successivo, durante il quale tenderemo ad esaminare i vari punti di vista da cui può essere osservata la rabbia, ovvero dal punto di vista fisico (per esempio), dal punto di vista astrale, e quindi delle emozioni; dal punto di vista mentale e, ovviamente, dal punto di vista akasico; non soltanto, ma dal punto di vista di chi si arrabbia e dal punto di vista di chi subisce la rabbia; e se avete altri argomenti in merito siete pregati di metterli in piazza, in modo da rendere il più completo possibile il modo di trattare l’argomento stesso. Ovviamente, includeremo in tutta questa trattazione anche quali possono essere le influenze, per esempio degli archetipi, sui sentimenti come da rabbia; dimostrando così, in questo modo, che tutto l’Insegnamento, anche quello filosofico più difficile e apparentemente più rarefatto e più lontano dalla vita di tutti i giorni, in realtà si riflette nella vostra vita.
Benissimo, creature. Allora incominciamo, questa sera, a parlare della rabbia; anzi: «incominciate» a parlare della rabbia, questa sera, dal punto di vista diciamo della fisiologia della rabbia; perché a voi sembra un argomento scontato ma non è così scontato come tutti voi potete pensare. E questo vi ha preso, come al solito, di sorpresa; mi dispiace, non era proprio quello che vi aspettavate, ma arriverà prima o poi anche quello che vi aspettavate, quando non sapremo escogitare altre cose per sorprendervi!
(… silenzio …) Vedo che è un pullulare di idee!

D - Se ci vuoi spiegare cosa intendi «dal punto di vista fisico» … nel senso che intendi che se uno prova rabbia lo si vede anche nel fisico, oppure …
Certamente!

D - … oppure psicosomatismo? …
Incomincerò a darvi un po’ di avvio perché, altrimenti, so che non se ne esce, questa sera!
Allora: la rabbia cos’è? Come la classifichereste? Come un’emozione, ovviamente. Come voi sapete – specialmente quelli che hanno seguito la ML2 le emozioni si riflettono anche sul fisico (giusto?) quindi, per manifestarsi all’interno della vita che l’individuo conduce, hanno bisogno del corpo fisico. Questo significa che stando attenti al proprio corpo fisico, alle proprie reazioni nei momenti di rabbia, ci si può accorgere di quello che la rabbia provoca all’interno della fisiologia del corpo fisico. Ecco, partite da questo punto: se voi avete provato la rabbia, secondo voi quali sono gli elementi che si ripercuotevano e come si manifestavano attraverso il vostro corpo fisico.
D - Certo, il sangue ovviamente fluisce alla testa in maniera eccessiva, ti senti la pressione che sale, che … E qui è difficile, secondo me, distinguere fra aggressività e rabbia perché, a un certo punto, la rabbia ti fa anche essere aggressivo.
Quindi abbiamo già trovato una componente da abbinare alla rabbia, che – secondo il nostro amico L. – la rende indissociabile, in gran parte, da quella che è la spinta aggressiva dell’individuo. Siete d’accordo, su questo?

D - No.
Sentiamo perché no.

D - Perché l’aggressività è la manifestazione esterna della rabbia. La rabbia non necessariamente si esprime attraverso l’aggressività del comportamento, secondo me.
Io direi che l’aggressività può essere considerata – quando è associata alla rabbia, perché può essere un’aggressività che non è associata alla rabbia; non è detto che l’aggressività sia sempre associata alla rabbia … che l’aggressività può essere considerata come una delle maniere in cui la rabbia può manifestarsi all’interno (sempre) del piano fisico; quindi è una conseguenza della manifestazione della rabbia. Naturalmente, non sempre alla rabbia può seguire una manifestazione aggressiva; è difficile, però, riuscire a comprendere quando (come diceva la nostra amica, prima) l’aggressività in realtà c’è all’interno ma non viene espressa fisicamente. Io direi che, solitamente, la reazione di rabbia è sempre un picco … Voi ricordate cosa sono i picchi?
I «picchi vibratori» sono i punti di massima vibrazione nell’espressione di un sentimento, di un’emozione, di una reazione di qualsiasi tipo. E la rabbia, per sua stessa connotazione, è chiaramente un picco vibratorio, cioè un’improvvisa esplosione di emozione che arriva ad un massimo, per poi decrescere o, al limite, stopparsi completamente nel momento in cui le energie vengono completamente buttate fuori e, quindi, c’è quel momento di stasi che riporta all’attuale equilibrio dell’individuo. D’accordo?
E l’aggressività, chiaramente, rientra nella tipologia del picco, per cui la manifestazione ripete sul piano fisico questo picco attraverso una reazione forte, quindi una reazione aggressiva nei confronti degli altri o, a volte, anche nei confronti di se stessi attraverso qualche forma di autolesionismo (come diceva l’altra amica, prima). Ci siamo fin qua? Volete chiedere qualcosa di particolare su questo? Non mi fate, tutte le volte, rifare tutte ‘ste cose, perché lo strumento sta già facendo abbastanza fatica e non vogliamo che gli venga un altro infarto, vero?

D - Allora, sul discorso che non sempre si manifesta sul piano fisico questa aggressività legata alla rabbia, dipende da un non lasciar fluire queste emozioni o è dissociata completamente?
Ecco, qua è un argomento complesso, che tratteremo successivamente; vi spiego, però, il perché, in modo tale che possiate pensarci e ricordarmelo poi in uno dei prossimi incontri per riportare a galla questi aspetti, che riguardano poi altri concetti che abbiamo esposto in precedenza. Perché l’aggressività a volte non viene espressa? Può non essere espressa semplicemente perché l’individuo ha un ferreo controllo su se stesso, può non essere espressa perché l’individuo ha introiettato l’Insegnamento e si rende conto che potrebbe far del male agli altri, può non essere espressa, invece – per esempio perché secondo la morale tipica degli archetipi transitori di quella particolare situazione, la reazione aggressiva viene stigmatizzata come errata.

D - O per paura.
O per paura; sono tantissimi i motivi, ma questi sono più motivi legati forse all’insegnamento filosofico che è un insegnamento sulla reazione fisica diretta, quindi li tratteremo più avanti. Ricordatemelo, perché – ahimè incomincio ad avere la memoria corta anch’io!

D - Posso fare una domanda? Qual è l’origine della rabbia? Cioè, che cosa avviene nei meccanismi, dal vostro punto di vista, quello dell’Insegnamento, quando a un certo punto, invece che reagire in altri modi, ci travolge questa emozione, questa cosa che poi è una via non scelta, per certi versi, o sembra una via non scelta e … …
E anche qua hai tirato in ballo un altro argomento che dovrà essere trattato. Anche tu ricordamelo in uno dei prossimi incontri, perché quello che hai detto tu è un evidente rapporto particolare che ci può essere tra l’aggressività e l’Io dell’individuo.
Senza dubbio vi è una forte relazione, nel manifestare la rabbia, tra quello che è l’Io dell’individuo e la spinta della rabbia che l’individuo subisce, sente nascere dentro di sé. La genesi della rabbia, indubbiamente, è molto amplificata da quello che è l’Io dell’individuo, quindi i rapporti tra l’Io e la rabbia sono importati da essere esaminati e sono validi un po’ per tutte le emozioni che l’individuo manifesta, ovviamente.

D - E allora un’altra domanda: come ci dobbiamo comportare rispetto alla rabbia? Come sarebbe giusto porsi nel momento in cui sentiamo arrivare questa emozione – indipendentemente dalle sue cause e dalle sue … però, in qualche modo percepiamo gli effetti, sentiamo che monta, … che facciamo?
Qua c’è un altro punto importante, che andrà esaminato anche questo vedete quante cose ci sono da esaminare su un argomento apparentemente così semplice e scontato ovvero i rapporti importanti tra l’individuo che esprime un’emozione (in questo caso la rabbia) ed i suoi rapporti con gli altri; quindi il modo di rapportarsi con questa rabbia e il rapportarsi con questa rabbia nei confronti delle persone che gli stanno intorno. Anche questo è molto importante; giusto? E anche di questo parleremo dopo. In poche parole, vi riconduco a quello che dicevo, che era il punto di partenza, che state tutti evitando bellamente perché non sapete cosa dire.

D - Ah, la fisiologia della rabbia. Ecco, ma qui si intendeva reazioni fisiche interne – come pressione del sangue e cose del genere – o anche… che ne so … il tono della voce …?
Ma io direi tutte le manifestazioni in toto nell’individuo allorché è in preda alla rabbia... quindi la situazione fisiologica, la manifestazione del suo fisico all’esterno …
Io direi che, in realtà, non c’è un modo standard in cui l’individuo esprime la rabbia. Ognuno, ovviamente – e se ci pensate bene non può essere che così, conoscendo l’Insegnamento – esprime qualsiasi sentimento che esprime sul piano fisico attraverso il proprio percorso evolutivo, i propri bisogni evolutivi. Giusto? Quindi, cosa può accadere? Che ci sia l’individuo che esprime la rabbia aggressivamente e magari anche con violenza portata all’estremo, arrivando ad uccidere un’altra persona per porre fine a quel picco di emozione che non riesce più a controllare – con tutte le gradazioni intermedie, fino ad arrivare all’individuo che riesce invece a bloccare al proprio interno la rabbia, a non lasciar trasparire la rabbia che in quel momento lo sta mettendo sotto-sopra. Ognuno di voi la esprime in modo maggiore o minore, diversamente da come la esprimono tutti gli altri.

D - Però potrebbe anche arrivare non a bloccare in modo consapevole e dire: “Un attimo, mi sto arrabbiando» ecc. ecc., potrebbe anche far finta… cioè come dire “Ok, sono arrabbiato, però me ne sto e appena posso la faccio uscire in un altro modo», ecco.
Certamente, certamente. Se ci pensate, tra i modi di esprimere la rabbia, per esempio, senza apparire di essere arrabbiati, vi è quello di fare i musi e di far finta che «tanto, non mi importa niente, però io intanto non ti parlo!»; quello di dire, come fanno alcuni: «Sì, sì, fai pure tutto quello che vuoi, mi va tutto bene, io ti seguo, ti aiuto per quanto posso, però poi, appena capita, te la faccio pagare in qualche maniera indiretta!».
A quel punto si scivola nel rancore; sarebbe molto meglio esprimere la propria rabbia e lasciare che si manifestasse cercando di contenerla nei limiti, ovviamente che si manifestasse e buttasse fuori l’energia del picco vibratorio e così si acquietasse un po’ alla volta, invece così resta all’interno e le energie cercano tutti i modi collaterali per uscire, facendo molti più danni che se la rabbia uscisse come doveva uscire inizialmente.

D - Ma a me fa un po’ paura quando esce inizialmente, Scifo!
Ti ripeto: se tu costringi la rabbia a non uscire ma non sai come scioglierla, la rabbia ti resta dentro e alla fine fa più danni che se uscisse realmente.

D - Somatizzi ancora di più.
Questo è un altro elemento da tener presente, ovvero la reazione psicosomatica della rabbia; cosa può provocare, dal punto di vista psicosomatico, esprimere la rabbia oppure trattenere la rabbia. Anche questo è un argomento su cui pensare, che mi ricorderete nei prossimi incontri.

D - Ma, invece, se io sono in una situazione che sono arrabbiato con una persona, e io quella persona non ce l’ho davanti, lì entra in gioco la cosiddetta rabbia silente, che poi è molto più logorante che non una reazione rabbiosa; ma se non ho davanti quella persona, io quella rabbia come faccio a farla uscire?
Ma per lasciar uscire la rabbia non c’è bisogno che ci sia l’altra persona, l’oggetto della rabbia; basta anche dire una sequela di parolacce per scaricare la tensione della rabbia; quelle che voi definite parolacce, per lo meno … Quello delle parolacce è un argomento un po’ particolare, perché voi le definite «parolacce» e non vi rendete conto che nei secoli le parolacce sono cambiate sempre e non sono definibili univocamente in tutte le società quali sono le parolacce e quali sono le parolucce. Certamente, esprimere la propria tensione attraverso una cosiddetta parolaccia, tale almeno stigmatizzata da un archetipo transitorio che si sta vivendo, provoca un senso di soddisfazione perché l’Io dice a se stesso: «Guarda come sono bravo, vado anche contro le convenzioni e riesco ad essere trasgressivo!». E voi sapete che l’Io si pavoneggia in queste cose!

D - Dal punto di vista pratico-pratico, posto che è vero che è giusto, son d’accordo, che la rabbia magari si esprima piuttosto che rimanga dentro, ma cosa si può fare … se ci puoi aiutare … per evitare che si esprima ma non si trasformi in aggressività, che diventi nociva … cioè trovare un giusto mezzo che possa salvare capra e cavoli, cioè non fare del male a chi si ha vicino e contemporaneamente non … (a parte che non ci si riesce, almeno per chi è abituato ad esprimersi) …
Mi scappa da ridere, perché non posso che rispondere ancora una volta: ecco un altro argomento da trattare; perché quello di cui tu stai parlando non è altro che fare il parallelo tra quello che dicono, che suggeriscono, che rintoccano gli Archetipi Permanenti e l’espressione delle proprie emozioni; quindi è un’altra cosa da tenere presente e che dovrebbe essere esaminata se riuscirete a reggere a tutti questi esami che nel tempo vi prego di ricordarmi, … anche se non sono sicuro che ve ne ricorderete tutti!

D - Un individuo poi, a lungo andare viene logorato nel fisico dalla rabbia, ci sono degli effetti a lungo termine, è previsto nel funzionamento biologico questa attività però … non so … c’è un punto oltre il quale il fisico non regge più; … non lo so.
Io direi una cosa: intanto la rabbia, come dicevamo, è un picco (giusto?) e può accadere qualche volta, qualche raro caso, che la rabbia di una persona duri per molto tempo però, solitamente, con il passare del tempo, il picco esaurisce le sue energie e la rabbia un po’ alla volta si stempera; la rabbia, due anni dopo, non è più la stessa rabbia di quando la rabbia è nata. D’accordo?

D - Scusa, Scifo, tu sei una persona che ha questo tipo di reazione, però ti viene poi per qualcos’altro; quindi si stempera su un argomento ma si riaccende su altri, se proprio … cioè, io parlo per me, eh.
Ma sono due rabbie diverse, non è più la stessa rabbia.

D - Sì, va be’, però sempre rabbia è, e sempre male ti fa, e sempre ti autolesioni, magari per non lesionare il prossimo.
Sei un po’ maniaca in questo argomento!

D - No, sono abbastanza coinvolta.
Comunque tu stai parlando di più rabbie in successione, non è una rabbia; noi qui stiamo parlando di un momento di rabbia che viene all’individuo. Certamente il momento di rabbia – come stavo cercando di dire – essendo un picco, non ha una durata così lunga da poter veramente creare delle evidenti reazioni a livello fisiologico, avvertibili quanto meno. Tutto ‘sto rigiro per arrivare a questo.

D - E invece quando può succedere che ci sia un’alterazione di qualche tipo?
L’alterazione succede quando la rabbia … come si può dire? …

D - Se tu soffri d’ipertensione …
Può succedere quello che dici tu quando la rabbia non viene espressa. Sono due casi molto diversi. Se la rabbia viene espressa, certamente ti può provocare … che ne so? … tremore, sudorazione, o salivazione, o reazioni di questo tipo; però, con lo scemare del picco della rabbia, scemano anche i sintomi psicosomatici che l’accompagnano; ma nel momento in cui la rabbia non viene espressa provoca una condizione di alterazione vibrazionale interna per cui – come diceva la nostra amica dottoressa – certe urgenze, certi comportamenti fisiologici interiori dell’individuo, vengono accelerati e restano accelerati, per cui alla fine possono diventare patologici. Prendete questo individuo qua: questo individuo ha passato gran parte della sua vita a cosa fare? A cercare di non manifestare quali erano i suoi momenti di difficoltà per paura di apparire debole, per non sentirsi debole, per cercare sempre di portare avanti la sua idea dell’essere forti per poter aiutare gli altri. Questo, cosa ha portato un po’ alla volta? A una specie di cronicizzazione di quella che è poi diventata la sua ipertensione, sfociata in sintomo cardiaco. Questo non sarebbe accaduto se questa persona qua avesse lasciato uscire la sua rabbia tutte le volte che la rabbia tendeva a manifestarsi.

D - Però, a questo punto, quando il fisico ormai è compromesso, non gli conviene più manifestarla troppo, però.
Beh, che sia proprio compromesso non direi, è stato in parte compromesso però non è più uno sbarbatello! Diciamo che certamente forse la cosa doveva insegnargli ad esprimere la rabbia nella maniera migliore, quindi esprimerla; se capitava un’occasione non doveva arrabbiarsi a tutti i costi, tanto per rendere contenti gli altri, ma riuscire a esprimere la sua rabbia nella maniera migliore, in maniera tale che provocasse soltanto fastidi temporanei e non finisse con cronicizzarsi, come è capitato in passato. (..?..)

D - Certamente. E qual è questa modalità più soft per esprimere la rabbia senza farsi tanto male a sé e agli altri? Nelle prossime puntate?
Il modo migliore sarebbe quello di affrontare la rabbia, di affrontarla magari con la situazione che provoca la rabbia, affrontare la situazione invece di fuggirla e di continuare a nascondersi, cercare di essere chiari e sinceri nel rapportarsi con la situazione che suscita la rabbia; di non finire, alla fine, per aggiungere alla rabbia anche i sensi di colpa per tutti i danni che si sono provocati per non aver saputo governare in maniera giusta questa rabbia.
Quindi ritorniamo un po’ al «se vuoi cambiare la tua vita cambiala»: se vuoi cambiare la tua rabbia affrontala!
Avete notato che, chissà perché, quando qualche cosa vi riguarda da vicino e comporta uno sforzo da parte vostra, voi non capite mai?

D - Ma dopo il picco della rabbia, non ti viene in mente di capire perché ti fa rabbia?D - Certo, certo, mi do delle risposte e poi arrivo a un punto morto oltre al quale non riesco più ad andare. È come quando si fa il «gioco dei perché», che diceva Scifo: «chiedetevi il perché, il perché, il perché» e poi arrivo a un punto in cui non vado oltre; perché probabilmente avrò dei blocchi interiori che mi si mettono; infatti, in effetti, il «mea culpa» che io posso fare è di non scrivere più sulla ML2 perché a me tante volte, pur dietro delle schermaglie che ci possono essere, ma altre persone mi hanno dato degli spunti che a me non sarebbero mai passati neanche per l’anticamera del cervello! Ma onestamente non mi venivano in mente! Mi succede lo stesso anche quando mi interrogo sulla rabbia, ad esempio.
Ma, vedi, più che il discorso del «perché del perché, del perché» … Certamente può essere un modo per cercare di andare un po’ più a fondo in quello che si sta cercando di esaminare su se stessi, però stiamo attenti perché, arrivati a un certo punto, diventa soltanto un gioco mentale!

D - Eh, un po’ sì, mi sembra quello!
E quando diventa un gioco mentale, poi fa il gioco dell’Io; non serve più a niente! Allora cos’è che bisogna fare? Bisogna – come dicevo prima – affrontare la propria rabbia. E come si affronta la propria rabbia? Affrontando la situazione che provoca la rabbia! Fatelo, non c’è nessun altro modo! Non è che ci sia chissà quale tecnica particolare o difficile da fare! Quando c’è qualcosa che non va, bisogna affrontarla, invece di nascondere la testa sotto terra! Vi sembra così difficile da fare, creature?
È qui, forse, che dovete cambiare mentalità; perché, altrimenti, continuerete fino alla prossima vita a portarvi avanti questo tipo di comportamento, pur sapendo che è sbagliato!

D - «Affronta la rabbia» mi immagino, dal punto di vista pratico, significhi andare ad indagare che cosa muove la mia rabbia …
No! no; ti immagini male. Significa «affronta la situazione che ti provoca la rabbia». Non è un ridurre la rabbia soltanto a un rapporto tra la rabbia e te, ma pensare che la rabbia è un rapporto tra te e quello che l’ha suscitata, o quelli, o la situazione che l’ha suscitata; allora la puoi risolvere nel modo più facile osservando il tuo rapporto con te e la situazione o le persone che hanno suscitato la tua rabbia; e questo lo puoi fare se ti rapporti direttamente con la fonte esterna della tua rabbia.

D - Infatti, volevo chiedere questo, … perché ci sono due casi (i più banali): una persona che mi fa arrabbiare, e quindi … oppure una situazione che mi fa arrabbiare. Nel momento in cui una persona mi fa arrabbiare, effettivamente la mia rabbia scaturisce dallo specchio che questa persona mi … mi … perché, oggettivamente, ci sono delle persone che sono stronze, c’è poco da fare! Allora uno si arrabbia! E questo è un caso. L’altro caso, …
E qua, è già una corbelleria che hai detto! Anche perché tu non puoi sapere perché l’altra persona si è comportata così e, quindi, il tuo giudizio è completamente privo di senso!

D - Son 20 anni che mi arrabbio!
Non è dopo 20 anni che devi affrontare la situazione della rabbia, la devi affrontare subito.
Non so se capite quello che voglio dire. Quello che vi capita, che vi suscita (cerco di essere più chiaro per chi non avesse capito) quello che vi capita e che vi suscita la reazione rabbiosa è inutile che lo andiate ad affrontare dopo che è diventata tutta una serie di rancori, di altre situazioni, di dissapori, di rivalse e via dicendo col protrarsi nel tempo degli stessi episodi di rabbia. Diventa difficile, a quel punto, uscire da quella situazione; diventa una specie di circolo, di fantasma vibratorio in cui continuate a rivoltolarvi senza uscirne più! Questo non accade se, invece, fin dalla prima volta che la rabbia si manifesta, la rabbia e la situazione che la provoca viene affrontata direttamente.

D - Però io trovo che, veramente, … Non lo so, … mi sembra un po’ una fantascienza, sinceramente! Perché una che in certi ambiti la rabbia proprio non puoi affrontarla, proprio un piffero di nulla, per mille motivi di sopravvivenza; d’altra parte uno lo sa anche che non l’affronta perché a un certo punto mette sulla bilancia il fatto «affronto oppure sopravvivo» e dice: «va be’, sopravvivo ……
Mia cara, tu stai sbagliando tutto il concetto che stiamo dicendo questa sera; perché non è detto che, se uno si arrabbia, debba reagire aggressivamente! Io sto parlando di affrontare la situazione, non di reagire aggressivamente alla situazione; è ben diversa la cosa.

D - Però quando tu arrivi a cozzare con una persona, cioè a non avere la stessa idea con una persona, è ovvio che se tu esprimi la tua idea la puoi anche esprimere senza rabbia, però c’è poco da fare! Anche se tu la esprimi senza rabbia, ma questa idea non coincide con quella dell’altra persona, dalla mia esperienza …
Se la esprimi senza rabbia, la rabbia non tornerà più!

D - Mah, non so … E poi ti deve essere permesso di esprimerla, che anche questo, a volte … a volte ti viene detto: «Non esprimerla, non ne voglio sapere» …
C’è modo e modo di esprimere un’emozione, di lasciare che si manifesti sul piano fisico. Ripeto: voi continuate ad associare «necessariamente» l’aggressività alla rabbia e non è detto che sia così, prima di tutto secondariamente, quando io parlo di affrontare la situazione non dico che dovete partire lancia in resta per cercare di prevalere sull’altro, ma dico che dovete cercare di rendervi conto di quali possono essere i vostri motivi ma anche i motivi degli altri.

D - No, ma questo, … guarda … Il discorso è che, comunque, uno può rendersi conto del motivo e cercare un dialogo con l’altra persona e dire: «io capisco i miei motivi, cerco di spiegare agli altri quali sono le mie esigenze; capisco anche quali sono le sue, cerchiamo di trovare un accordo, un accomodamento» o, per lo meno, a me basterebbe anche soltanto riuscire a esprimere le mie esigenze, o comunque la cosa che mi ha magari fatto star male, però a volte non è possibile neanche questo; per cui non … non lo so.
E le volte che non è possibile (per quello che tu dicevi) vuol dire che ha compreso che non era il caso al momento di esprimerle; e questo già provoca un mutamento del picco della rabbia, perché si riconosce che non è possibile dialogare o esprimere con l’altro la propria rabbia.
Voi dimenticate che la rabbia non è dell’altro ma è vostra, e rientra proprio nella seconda fase, di cercare di capire cos’è che sta al vostro interno e muove la vostra rabbia.
E se non capite qual è il vostro motivo, la rabbia sull’altro si scatenerà sempre, comunque.

D - Sì, che poi più che rabbia è un cercare un confronto… non lo so. È dopo il fatto che l’altro rifiuti il confronto che ingenera tuttalpiù la rabbia; perché, alla fine, io all’inizio dico: «C’è qualcosa che mi ha fatto star male, proviamo a parlarne, vediamo un attimo» … E’ la non possibilità della relazione che …
La reazione dell’Io dice: «Come? Io mi sto mettendo umilmente a tua disposizione per poter dialogare e tu …

D - No, umilmente no; ci sto provando, per lo meno.
Ok, …

D - Si potrebbe stare meglio se …
Ok, togliamo «umilmente»: «io mi sono messa a disposizione per trovare un dialogo con te, tu stai rifiutando questo dialogo e questo mi fai arrabbiare».

D - Esatto!
E perché ti fa arrabbiare?

D - Perché mi fa prima star male …
Perché ti fa star male?

D - Perché mi piacerebbe riuscire a dialogare; soprattutto con le persone con cui uno, comunque, in qualche modo, …
No, ti fa star male perché ti senti sminuita, senti che non ti è stata data importanza.
E da qui nasce la rabbia, che ricordo ancora a tutti quanti – che la rabbia è tua e non è dell’altro!

D - Scusa, e come ci si difende dalla rabbia dell’altro? Perché spesso una rabbia che si esprime in maniera aggressiva (non è che voglia cambiar discorso, però) genera una risposta altrettanto … vibratoria (diciamo così) … Come ci si difende dalla rabbia dell’altro?
Ma lì dipende … Non si può generalizzare, dipende da caso a caso, Ci sono i casi in cui c’è un certo rapporto con l’altra persona e puoi rispondere alla sua rabbia con la tua rabbia, per esempio. In questo modo poi starete tutte due meglio, e potrete poi rimettervi in contatto, cioè senza aver bisogno di ricorrere di nuovo alla rabbia per cercare di attirare l’uno l’attenzione dell’altro, per esempio. Poi si può rispondere facendo finta di niente, lasciando che l’altro esprima la sua rabbia, nella speranza che il suo picco emozionale un po’ alla volta si trasformi e diventi poi possibile avere un punto di contatto. Certamente non si ottengono buoni risultati se ci si gira dicendo: «Ma, tanto, a me non me ne frega niente!» o «Sì sì, arrabbiati pure, è un problema tuo.» e via e via e via e via.

D - Ma il nostro Io rimane ferito dalla rabbia dell’altro.
Certo, perché – come dicevo all’altra figlia, prima – l’Io si sente che non gli è stata data abbastanza importanza; e voi sapete che l’Io è la cosa più importante di tutto il mondo, per se stesso. Anzi, la sua rabbia è più rabbia di quella degli altri!
Il problema è che l’Io non vuole riconoscere di avere questi problemi, questi difetti, e tende a spostare l’accento della nascita della sua rabbia sull’altra persona o sulla situazione che ha fatto nascere la sua rabbia: ォIo mi sono arrabbiato perch驟サ
La soluzione definitiva che sparisca l棚o su questo posso essere d誕ccordo quando si arriva al momento dell’abbandono della ruota delle nascite e delle morti, ciò non toglie che è necessario e indispensabile – e d’altra parte sarà così, perché non può che essere così – che, con l’avanzare della comprensione, l’Io diventi sempre meno forte; e, quindi, la rabbia e tutte le dinamiche interiori, e le espressioni delle emozioni diventino sempre più governabili, sempre più questioni di un momento e più facilmente risolvibili col passare del tempo.

D - Quindi, scusa, il meccanismo a cui tendere è quello di acquistare una rapida consapevolezza della vera risposta che sta avendo il nostro Io allo stimolo che riceve e concentrarci, più che sullo stimolo, sulla risposta; e quindi in qualche modo spostare di nuovo la nostra attenzione e di evitare tutta una serie di effetti che invece avvengono nel momento in cui ci rivolgiamo verso l’esterno? Io sto cercando una strada!
Quale strada? Anche tu, ma anche tu, figlia mia! Ma la strada è abbastanza semplice, il percorso è evidentissimo, è lampante! Voi ricordate quel bello 'schemone' che avevamo dato, con tutto quel circolo che andava avanti e indietro, è la stessa cosa veramente di tutti i giorni! Nel cercare le risposte alle vostre domande, non dovete far altro che spostare l’attenzione tra ciò che provoca in voi la situazione e ciò che la situazione provoca dentro di voi; all’esterno, all’interno, all’esterno, all’interno, in un circolo che un po’ alla volta vi porta ad arrivare a comprendere le vostre meccaniche e i vostri veri bisogni, le vostre vere necessità. Cioè, il metodo è quello, non se ne esce! È semplicissimo, oltretutto! Non può che essere così. Ogni volta che questo circolo voi lo interrompete perché non affrontate una situazione o perché non volete essere sinceri con voi stessi, o perché quando lo portate dentro di voi lo trasformate per renderlo diverso da quello che è in partenza, in quel momento il circolo si spezza ed ecco che il problema non è risolto minimamente. Mi sembra talmente chiaro! O a voi non sembra chiaro?

D - No no, non è che non sia chiaro; … cioè la ricerca nostra – dell’Io, diciamo pure – è che vorrebbe una soluzione totale e (tra virgolette) «immediata»; soluzione che di fatto non esiste. Il problema non è di non capire, ma ci si rende conto che in realtà il percorso è non dico infinito ma … quasi, per cui, a un certo punto, dici: «Va be’, d’accordo», però …
D - Più che altro, noi siamo sempre uguali nel percorso.
Ma non è vero!
Siete sempre uguali quando cristallizzate in certe cose interiori, e allora sì tendete a reiterare gli errori che avete fatto in passato ma, anche quando cristallizzate, una parte di voi si trasforma comunque; non siete mai uguali da un momento all’altro, comunque sia. Se no, non avrebbe più senso tutto il discorso che noi finora abbiamo portato!

D - A me viene da pensare … perché io ho riflettuto tantissimo su ‘sta storia della rabbia, e io penso di essere già nata arrabbiata da bestia, perché mi ricordo che quando ero piccola, ma piccola piccola, mi picchiavo con tutti; e quindi queste … Adesso non so tu, nelle prossime lezioni, volevi far l’abbinamento tra aggressività e rabbia ma a me sa che quando picchiavo tutti ero abbastanza arrabbiata, adesso io non mi posso ricordare esattamente cosa la muovesse a 5-6-7-8 e 10 anni, però mi ricordo che una costante della mia infanzia era di fare a botte. E lì che cos’è? Cioè, ci nasci già? Te lo puoi portare come retaggio di altre vite o …
L’abbiamo detto, mi sembra, proprio ultimamente (no?), fa parte di quella base caratteriale che ha l’individuo allorché nasce e che, quindi, fa parte – come diceva il nostro amico – del Dna. Certamente, poi, la manifestazione dovrebbe cambiare col tempo a seconda delle esperienze fatte. Difatti, certamente la tua rabbia di allora non è la rabbia di adesso; non mi sembra che vai in giro a picchiare le persone!

D - Posso? Allora, io volevo chiedere: la manifestazione fisiologica della rabbia è uguale già da quando uno è neonato, in un bambino, ecc. ecc., è già così?
Oh, meno male che ritorniamo al punto di partenza! Se vogliamo parlare di questa rabbia in rapporto alla fisicità dell’individuo, la cosa più semplice è trovare quei momenti in cui l’espressione della rabbia avviene con minori influenze possibili. Giusto? E, certamente, uno dei momenti in cui non ci sono le influenze, è il momento in cui l’individuo è appena nato. Il neonato non ha ancora l’influenza degli archetipi transitori, sente gli Archetipi Permanenti ma soltanto molto lontani perché non ha ancora allacciato il corpo akasico, non ha un Io ancora strutturato, il suo pensiero è limitato a: «ho fame, ho freddo, devo fare la pipì» (o la popò, come preferite) quindi non ha ancora una grossa quantità di elementi che possono condizionare la manifestazione della sua aggressività. Mi sembra giusto, no cara? Quindi, se vogliamo cercare di capire quali sono le reazioni fisiologiche della rabbia, il modo migliore è giusto osservare la rabbia come si esprime in un neonato.
Allora, poiché siete stati a contatto – chi più chi meno – con dei neonati, tiratemi fuori, fra tutti, quali sono i comportamenti con cui il neonato esprime la rabbia.

D - Fragorosi.
<i>D - Pianto.

Pianto.

D - Sono gli stessi con cui esprime qualsiasi altra cosa, probabilmente.
No, non è detto; quando è contento non mi sembra che pianga!

D - Si irrigidisce, irrigidisce il corpo …
Si irrigidisce, stringe i pugni, compie uno sforzo fisico: agita le mani, diventa paonazzo, se avesse i denti li digrignerebbe, ma non ce li ha,
… e urla. Quindi, questi qua sono gli elementi essenziali di manifestazione della rabbia. Col passare del tempo, poi, chiaramente, tutti voi vi vergognereste a mettere in atto questi sintomi (no?); ciò non toglie che gran parte di queste manifestazioni, ancora adesso, che siete fisicamente (se non mentalmente) adulti, tendete a manifestarli. Pensate un attimo a quando siete arrabbiati, … cosa fate?
Solitamente alzate la voce (come il neonato), vi irrigidite (come il neonato), l’espressione facciale (come il neonato), se non ottenete quello che volete ricorrete al pianto per ottenerlo, tendete ad aumentare il movimento delle vostre mani o, al limite, il movimento di tutto il vostro corpo muovendovi nervosamente avanti e indietro, qualche volta andate di corsa in bagno per evitare di fare brutte figure; e quindi in realtà manifestate – anche se in maniera moderata dal vostro Io – la stessa reazione fisiologica che presenta il neonato. Anche il rossore del vostro viso, o in altri casi, il pallore del vostro viso è un sintomo della vostra rabbia; la sudorazione è un sintomo della vostra rabbia. Questo, quindi, a livello fisiologico.
Se vogliamo andare ancora un po’ più giù, chiaramente poi c’è tutta una concatenazione di altri elementi biochimici, o fisiochimici, come preferite, che entrano in gioco, che vengono messi in atto nel momento in cui la rabbia si presenta; per esempio, l’aumento del tasso di adrenalina nel sangue, il sangue che scorre più velocemente, e via e via e via; qua, qualsiasi dottore presente tra di voi può farvi un elenco abbastanza completo di questi elementi che fanno parte della fisicità della vostra razza.

D - Quindi tutto quello che ci aggiungiamo dopo, o che togliamo, è per l’esterno? Cioè per paura o per la convenzione con l’esterno?
Tutto quello che non manifestate o che manifestate in maniera diversa all’esterno, accade in quella maniera o non accade perché ci sono gli altri elementi che il neonato non ha che influiscono sulla vostra reazione verso l’esterno.

D - Sì, questi meccanismi di inibizione possono essere positivi – per quanto riguarda, magari, il non danneggiare gli altri – o possono essere magari negativi quando si vuole magari salvaguardare la propria immagine?
Certo, certamente.

D - Ma nel caso ci sia una disabilità fisica, cioè la manifestazione … le attivazioni, diciamo, sono le stesse?
Sono le stesse, è evidente che sono le stesse. Il più delle volte, quando c’è la disabilità fisica e ancora di più se è psichica le reazioni sono proprio quelle molto più vicine a quelle del neonato, per esempio; anche perché le altre influenze sono molto meno forti.

D - Ma perché di solito sono di più i bambini a piangere, rispetto agli adulti?
D - Perché è l’unico mezzo che hanno per comunicare.
Anche quello, certamente.

D - Oltretutto, chi ha un po’ di pratica, capisce benissimo qual è il pianto della fame, o il pianto del sonno, … è un linguaggio... o il pianto perché ha male …, è chiedere aiuto.
È un modo per attirare l’attenzione e quando l’Io incomincia ad essere un po’ più formato, è un modo per cercare di ottenere quello che si vuole; facendo quello che fate voi abitualmente: stimolando il senso di colpa nell’altro per ottenere le cose che desiderate avere dall’altro!

D - Scusa, qual è il rapporto fra rabbia e senso di colpa che si cerca di … Se c’è una connessione …
Certamente che c’è una connessione.
È evidente che il senso di colpa – e mi sembra che stia stato anche detto abbondantemente – scaturisce nel momento in cui l’individuo fa qualche cosa per ottenere qualche cosa, e questo comportamento si scontra con quelli che sono gli archetipi a volte Permanenti, a volte transitori – e la comprensione dell’individuo stesso. Tanto è vero che, se ci pensate – ritornando al nostro neonato – pensate forse che il neonato, nel momento in cui esprime la rabbia, con tutte quelle movenze, tutte quelle particolarità di cui abbiamo parlato prima, questo faccia nascere in lui dei sensi di colpa?
Penso proprio di no; giusto? Questo, perché? Perché non c’è ancora uniformato e quindi non può nascere il senso di colpa.

D - Posso chiedere una cosa? Parecchi anni fa, saranno almeno una quindicina, nel tentativo di curare un disturbo del sistema nervoso ho assunto dei farmaci in quantità, in dosaggi sempre maggiori, che poi non hanno portato al risultato sperato. A un certo punto, il tentativo di abbassare, appunto, il tono del sistema nervoso, mi sono accorto di non avere più il controllo su una serie di reazioni diciamo … (come dire?) … primordiali, non so, come appunto reazioni di violenza … come se la coscienza in un certo qual modo fosse stata assopita, …
Si liberasse l’Hyde che è in te.

D - Sì, ma mi chiedo: la rabbia porta a delle reazioni in cui sembra che ci sia un collegamento fisico diretto tra questa parte – l’Hyde, come dicevamo prima – per cui ci si trova a reagire e a fare delle cose che non si penserebbe mai di fare.
In maniera anche spropositata e sproporzionata allo stimolo; certamente.

D - Più di recente mi è successo, per una frazione di secondo, di trovarmi a pensare a dei gesti (..?..) che non avrei mai pensato di essere possibile pensare! (scusa il gioco di parole) Io cercavo di vedere se c’era un collegamento tra queste due cose; cioè tra questa situazione in cui l’attenuazione diciamo della coscienza porta a dei gesti diciamo violenti, primordiali, e la reazione – magari anche di una frazione di secondo – tale da portarti a subire …
Vedi, io non parlerei di attenuazione della coscienza, perché così si potrebbe intendere che la tua coscienza ad un certo punto si assopisce,…
D - Ecco, un farmaco può provocare …?
… cosa che in realtà non accade.


D - Non è possibile.
Assolutamente non accade. Per aver una parziale risposta a quello che tu chiedevi, io direi di ricordarci che cos’è la rabbia: è un picco; giusto? Cosa significa che è un picco? Significa che investe con un picco vibrazionale molto forte tutta la parte incarnata dell’individuo. Giusto? Ora questo cosa significa ancora? Significa che questa forte vibrazione attraversa tutti e tre i corpi inferiori dell’individuo e, attraversandoli con una certa forza, una certa potenza, è come se quello che incontra fossero dei birilli che vengono buttati da una parte perché questo picco di vibrazione ha bisogno di esprimersi. Ecco che questi birilli che vengono di volta in volta abbattuti sono le varie barriere che vengono poste dalla coscienza, o dall’Io, o dalle vibrazioni degli archetipi, e che vengono soppresse temporaneamente dalla violenza del picco. Ti sembra chiaro?

D - Sì sì sì sì. Ma questo picco può arrivare al punto da andare a smuovere, diciamo, questa «parte oscura» dell’individuo?
Sì, certamente, può arrivare al punto … Più che andare a smuovere, può arrivare al punto di lasciare che trapeli in qualche maniera, però ricordati che il picco un po’ alla volta svanisce e, quindi, tutti i birilli ritornano a posto e la parte oscura ritorna nella posizione che le compete.

D - Ecco, ma questa parte oscura c’è sempre e comunque, indipendentemente dall’evoluzione dell’individuo? Cioè, può essere sollecitata anche una persona che è all’ultima incarnazione?
Teoricamente sì. Ricordate che nella catena genetica – come avevamo detto in passato – ci sono tutti i geni, tutte le possibilità; e quindi l’individuo, in realtà, ha tutte le possibilità, sia di essere buono che di essere cattivo, di essere dolce come di essere duro, e via e via e via e via.

D - Scusa un attimo, tornando al discorso del farmaco, ma è possibile che un farmaco possa portare in superficie questa parte, attenuando il controllo della coscienza?
Direi di no. Direi di no o, quanto meno, può forse aiutare al venire a galla di determinate pulsioni, ma non riesce a mantenerle stabili; e quindi può esserci un affacciamento temporaneo di queste pulsioni, che però presto ritorna indietro.

D - Scusa, potrebbe essere una giustificazione il fatto di avere – proprio per ragioni farmacologiche – un’attenuazione dello stato fisico, dell’energia fisica e, quindi, il picco delle energie passa in modo più violento?
Sì, questo sì, questo può essere.

D - La nonna, che sembra non interagire più, si arrabbia? Come manifesta la sua rabbia sul piano fisico?
Tormentando la camicia da notte, o il vestito, o le mani, o la coperta della poltrona. Quindi diventa un’espressione della rabbia semplicemente a livello tattile, non come reazione delle altre componenti, come può essere il corpo astrale o il corpo mentale, che sono in grande parte ormai già scollegati da quello che è l’insieme della persona nota (diciamo così).

<i>D - Tipo mangiarsi le unghie? Una persona che esprime la sua rabbia mangiandosi le unghie.

Ah, anche quello è un sintomo di rabbia e rientra nell’autolesionismo, così caro alla nostra amica L.!

D - Ma anche il nervosismo è dovuto alla rabbia?
Può essere dovuto anche alla rabbia, sì: può essere una conseguenza; poi, chiaramente, ognuno di voi – come dicevo prima – la rabbia la esprime a seconda delle proprie necessità, delle proprie comprensioni o incomprensioni; quindi chi lo esprime diventando freddo, chi lo esprime diventando nervoso.

D - Ma la rabbia è per forza essere un’emozione negativa? Non ci può essere, non so, la rabbia verso un problema, in merito alla forza di ’affrontarlo, una rabbia buona, diciamo? Ci può stare?
Diciamo che ci può essere la rabbia … meno arrabbiata (non saprei come definirla!); la rabbia, per esempio, che prova l’individuo verso qualche ingiustizia che vede, di fronte alla quale si trova impotente a reagire, a fare qualche cosa per modificarla. Questo è un tipo di rabbia, diciamo, «più evoluto», però è sempre e comunque un picco che si manifesta perché l’individuo non ha compreso qualche cosa, perché altrimenti questa rabbia non uscirebbe.

D - Come quella rispetto a mio padre?
Beh, quella forse è una rabbia più complessa di quella di cui stiamo parlando.

D - In che senso, scusa?
Coinvolge tanti altri motivi in più.
Però se tu vedi un’ingiustizia nel mondo, supponiamo le migliaia, i milioni di bambini che muoiono in Africa e, se ci pensi, hai una certa coscienza, ti viene un momento di rabbia perché pensi: «Queste multinazionali, queste case farmaceutiche, queste grandi nazioni sanno quello che sta succedendo, potrebbero fare qualcosa e non fanno niente» (giusto?); è una cosa giusta e, sotto un certo punto di vista, anche apprezzabile che possa venire questa rabbia.
Ciò non toglie che se si manifesta, si presenta come rabbia, questo significa che c’è qualche cosa che tu devi ancora capire, perché altrimenti non ti arrabbieresti; ti renderesti conto che quello che capita, capita prima di tutto perché è scritto e giusto che deva succedere, secondariamente perché queste persone, questi bambini, purtroppo devono vivere del tutto l’esperienza; e ancora che, per esempio, tutte le altre persone sono sollecitate da questo stesso pensiero per arrivare a modificare un pochino il loro comportamento e, tutti assieme, un po’ alla volta cambieranno la loro evoluzione.
Quindi ha tutto un perché, tutto rientra nella logica e la rabbia non è una cosa alla fin fine poi tanto giusta neanche in questi confronti; è molto più giusto allora fare una piccola cosa per cambiare una piccola situazione, magari partendo da vicino, senza guardare i bambini dell’Africa.

D - Però, scusami, è l’emozione che è positiva o negativa, o è «l’uso» che ne facciamo poi noi?
È l’uso che ne facciamo.

D - Perché l’emozione è quello che è; punto. Poi siamo noi che ci facciamo travolgere o meno da …
Certamente, certamente.

D - Quindi, si può dire che la reazione di rabbia è una reazione, alla fin fine, dell’Io, perché non riesce ad accettare o non riesce ad affrontare, o non vuole, o non può, quello che la vita gli mette davanti?
E questo – come dicevo all’inizio – verrà affrontato quando parleremo dei rapporti tra la rabbia e l’Io. Cerchiamo di non mettere troppa carne al fuoco, perché già stiamo facendo confusione così.
Penso che siate tutti un po’ stanchi, quindi direi che per questa sera, come assaggio, come inizio, possa bastare. Quindi, creature, per questa sera, serenità a voi. (Scifo)

La pace sia con tutti voi, figli.
Prima di salutarvi, volevo portare a tutti quanti il mio saluto e la mia benedizione, ricordandovi che noi vi siamo e vi saremo comunque sempre accanto. So che molti di voi hanno sofferto per l’apparente sensazione che noi li avessimo abbandonati, e questo era largamente prevedibile, ma siate consapevoli che così non è.
È stato, molto più spesso, vero il fatto che siete stati voi ad abbandonarci, piuttosto che noi ad abbandonare voi. Ogni volta che sapevate quello che dovevate fare, perché noi ve lo avevamo detto, e non avete avuto la forza di farlo; ogni volta che avreste potuto donare un sorriso e invece avete preferito girare il volto dall’altra parte per manifestare la vostra rabbia; tutte le volte che fate malvolentieri quello che la vostra società magari vi chiede di fare per poter condurre la vostra vita; tutte le volte che vi guardate intorno e non scorgete quelli che sono veramente i bisogni degli altri ma soltanto i vostri, che chiamano, che premono, che chiedono urgenza, attenzione e rispetto, quando voi urgenza, attenzione e rispetto verso gli altri così difficilmente siete capaci a tenerli nelle vostre mani.
Noi, figli, siamo accanto a voi e aspettiamo che voi arriviate a comprendere veramente quello che in tutti questi anni vi abbiamo detto; sappiamo che la strada è difficile, sappiamo che vivrete ancora momenti di difficoltà, di dolore, di sofferenza, ma sappiamo anche che, prima o poi, noi vi vedremo accanto a noi sorridere felici.
Noi siamo contenti di ritrovarci, ancora una volta, assieme a voi per rinnovare questo incontro tra mondo invisibile e mondo visibile come abbiamo detto spesso negli anni – eppure, ogni volta, in qualche maniera, pur mantenendo la sua coerenza, risulta alla fin fine essere diverso da una volta all’altra: diversi i partecipanti, diversi i nostri interventi, diverso l’ambiente in cui interveniamo. Questa diversità a noi fa piacere, fa molto piacere, perché vi dà la possibilità di non ristagnare in quelli che sono i vostri rapporti con noi; perché vedete, creature, noi non vorremmo che voi che siete presenti, qui, questa sera, commetteste gli stessi identici errori che sono stati commessi per anni dagli altri componenti del Cerchio, che ci hanno alla fine costretti a chiudere gli incontri con quelle persone.
Una delle cose a cui più facilmente, quando si è incarnati, si finisce per andare incontro, è quella dell’abitudine. Noi non vorremmo che questi incontri diventassero per voi un’abitudine, un essere presenti tanto per essere presenti, una sensazione che tutto ciò che viene detto o fatto, tutto ciò che noi vi possiamo dare o al limite togliere, sia qualche cosa che comunque vi è dovuto e comunque sarebbe successo. Non è così; nulla di quanto accade in queste riunioni è un atto dovuto nei vostri confronti; è semplicemente un nostro porgervi la possibilità di cercare di addentrarvi un po’ più profondamente in quello che voi siete e di cui voi non vi rendete conto.
È per questo motivo che, negli anni, più volte abbiamo rivolto l’esortazione a chiedervi: «Perché siamo qua?». Le risposte sono sempre molte, una diversa per ognuno di voi: c’è chi è qua per curiosità, c’è chi è qua perché cerca di comprendere qualcosa, c’è chi è qua per fuggire la normalità della propria vita, c’è chi è qua per cercare di trovare un angolo in cui allontanare le sofferenze o le difficoltà che la vita ogni giorno gli propone.
Per carità, sono tutti motivi giusti, belli e validi, che ognuno di voi deve sentire dentro di sé perché deve avere la spinta verso la ricerca di qualche cosa di migliore e di diverso; però noi vorremmo che, sopra a tutti questi perché, ci fosse principalmente il desiderio di trovare una verità interiore che non conoscete, di fare lo sforzo di andare oltre a quello che la vostra conduzione della vita sembra non riuscire a insegnarvi; vorremmo, insomma, che voi, poco alla volta, riusciste a trovare quei pezzettini di verità di voi stessi che, soli, rendono la vostra vita degna di essere vissuta.
Essere qua, quindi, non per fare atto di presenza, o per in qualche modo gratificare o calmare o soddisfare il vostro Io, ma essere qua per cercare di ottenere da voi stessi qualcosa per voi stessi e, di conseguenza, anche per chi vi sta accanto.
Ora, quando in queste riunioni noi vi veniamo a parlare ultimamente, vi poniamo degli argomenti in qualche maniera diversi, posti in maniera diversa da come facevamo in passato; questo perché vorremmo che – visto che gli incontri sono più rari del passato – voi, nel tempo che passa tra un incontro e l’altro, cercaste di approfondire un po’ di più, di capire un po’ di più di quello che vi è stato detto, in modo tale da poter riflettere su voi stessi; perché quando vi diciamo: «Per alcuni incontri parleremo della rabbia» non parliamo della rabbia di chi vi sta accanto, ma parliamo della vostra, e lo facciamo perché arriviate a guardarla direttamente e riusciate, quindi, a comprendere qualche cosa di più di voi stessi, dei vostri movimenti, delle vostre necessità.
Ultimamente, il primo argomento che è stato affrontato è stato la rabbia riguardante l’espressione fisica, il corpo fisico, e quasi tutti avete lasciato poi alla fine cadere l’argomento, non trovando nessuna curiosità nella cosa; e, anzi, quando qualcuno ha proposto qualche cosa di un po’ più approfondito, il discorso è caduto nel silenzio. Noi vorremmo che vi domandaste il perché di questo.
Evidentemente non vi interessa comprendere, evidentemente non volete veramente capire perché reagite in un determinato modo, evidentemente fate fatica a ignorare quello che altri possono pensare.
Queste sono solo ipotesi che sto facendo, non è che si tratti di verità; anche perché la verità non è la stessa per tutti voi; ognuno di voi ha la sua verità, così come certamente ognuno di voi avrà mille giustificazioni per quello che ho appena detto: i problemi della vita, l’impegno, la famiglia, le malattie, e via dicendo, però voi sapete benissimo – lo abbiamo sempre detto e da tempo ne siete consapevoli – che se veramente si vuole qualche cosa, il tempo, la volontà, la voglia per farla si deve saper trovare; altrimenti è inutile venire qua a scaldare una seggiola, portando magari via il posto a qualcuno che ne avrebbe più bisogno o avrebbe più volontà, più buona volontà per mettere in atto questo processo di apprendimento che va dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno, verso la comprensione di se stessi e della Realtà.
Con tutto il mio amore vi saluto, che la pace sia con tutti voi, figli. (Moti)

Creature, serenità a voi!
Non vi abbacchiate troppo, creature, mi raccomando! Il nostro discorso non è per buttarvi giù il morale, ma per darvi la spinta a cambiare; altrimenti, se lasciamo le cose in mano vostra, sapete benissimo come poi va a finire; quindi è molto meglio dare una piccola scossina all’inizio, prima che le cose diventino poco simpatiche o poco utili, come è accaduto in passato.

D - Allora, se si poteva continuare con quello che in qualche maniera era stato sospeso sull’altra seduta, eventualmente sulla rabbia; come mai che l’aggressività è legata alla rabbia, come mai non sempre si manifesta sul piano fisico, … se è inerente all’argomento che volevi portare questa sera.
D’accordo che la rabbia è un’emozione, e l’aggressività è un’emozione, però vorrei prima restare ancora un po’ sulla parte fisica; che – chissà perché – sembra non vi interessi! È una cosa che non riusciamo a comprendere: ma perché non vi deve interessare come manifestate la vostra rabbia?! Vi rendete conto che molte volte siete arrabbiati, la manifestate e non vi rendete neanche conto di manifestare la vostra rabbia? Questo vuol dire che non vi conoscete! Non conoscete non soltanto quello che avete all’interno, ma neanche quello che portate all’esterno!
Non vi rendete conto che, magari, manifestate delle emozioni, senza rendervene conto, e queste influiscono sugli altri e gli altri non capiscono cosa sta succedendo! Se non riuscite a capire quello che manifestate e quando lo manifestate, come fate poi a decodificare i segnali che vi arrivano da parte degli altri? Ah, ma siete più interessati a decodificare quello che sta facendo l’altro. Dimenticavo!

D - Eheh, non sarei così pessimista adesso, secondo il mio punto di vista! Dicevi della manifestazione che noi abbiamo nei confronti della rabbia e che manifestiamo nel piano fisico, magari anche il silenzio, magari ostentare il silenzio; oppure, che ne so, … cambiare discorso, magari, per non dare soddisfazione all’altra persona … Ci sono diversi aspetti …
Impallidire, diventare come un peperone, sudare, balbettare, …

D - Però, scusami, ma questi sono sintomi sempre di rabbia o sono altri aspetti che possono dare gli stessi sintomi? Perché non sempre – per quanto mi conosco io … (e quindi, va be’, abbastanza … così) – non sempre è legata alla rabbia questa manifestazione, ci sono altri aspetti che a volte hanno le stesse caratteristiche.
Diciamo che, chiaramente, qualsiasi emozione non si manifesta mai da sola, ma è sempre accompagnata da un corollario di altre emozioni che, sulla spinta delle vibrazioni di quelle emozioni, tendono a manifestarsi. Quindi – che so io? – giusto il balbettare (mettiamo) può certamente essere sintomo del fatto che uno è talmente teso, è talmente arrabbiato che non riesce a esprimere coerentemente delle parole, ma può anche contenere altre spinte di altri elementi; ad esempio l’imbarazzo, per esempio la paura, e via dicendo; però, principalmente, diciamo che potrebbe essere aggressività. Visto che si sta parlando di aggressività, parliamo dell’aggressività.

D - Sì, aggressività e rabbia … Un metodo per scaricare la mia rabbia è quello di fare movimento fisico; cioè ho bisogno immediato di fare del movimento fisico; anche solo muovere le gambe, però staccare. Ecco, questa è una mia reazione di fronte sia alla paura, sia alla rabbia. Poi, legato a questo, …
Aspetta, fermati un attimo su questo. Ricordati quello che è legato a questo, che lo riprendiamo subito dopo. Questo può essere un tentativo da fare, cioè capire perché, per Marisa, il movimento fisico l’aiuta a scaricare la rabbia; qual è la motivazione psico-fisiologica – diciamo così – per cui riuscire a essere in attività finisce per attenuare il picco della rabbia.
Vedi che ci sono due componenti fondamentali: intanto la componente fisiologica, pura e semplice. Quando nasce la vostra rabbia nel vostro corpo fisico, e si manifesta poi all’esterno di voi stessi, questo porta con sé anche dei sommovimenti a livelli fisici, fisiologici, con la corruzione o l’inibizione di determinate sostanze (è inutile entrare nel merito, perché diventerebbe troppo tecnico, e non è poi così importante la cosa) che favoriscono la possibilità all’individuo di esprimere nel mondo fisico questa condizione di rabbia.
Sono sostanze, però, che non hanno una lunga vita, ed ecco che il movimento messo in atto dalla figlia Marisa permette – attraverso il contrasto provocato nel movimento tra l’azione (che provoca per esempio scariche di adrenalina aggiuntive) provoca il decadimento più veloce di tutte quelle, chiamiamole «tossine» della rabbia che sono nate al vostro interno per permettere il manifestarsi della rabbia.
Questo a livello fisiologico. A livello, invece, vibrazionale, ricordate che fare del movimento è in realtà mettere in moto tutta una serie di vibrazioni all’interno del corpo; giusto? Questo cosa comporta, secondo voi? La rabbia – noi sappiamo che la vibrazione è un’emozione che arriva vibratoriamente abbastanza forte, con un picco improvviso che non ha una lunghissima durata però una certa durata, e che attraversa l’individuo cercando di sfociare poi all’esterno, nel mondo esterno, nel mondo fisico. Ora, la presenza – attraverso il movimento – di queste ulteriori vibrazioni aggiuntive, cosa fa? Pensateci un attimo; vediamo se trovate la soluzione voi. Secondo me è lampante, evidente, che cosa faccia.

D - Fa come un … Riequilibra completamente.
Sì, … diciamo in qualche modo sì; ma, per essere più precisi, più che riequilibrare va ad influire sul picco vibratorio e lo colpisce modificandolo in qualche maniera; e, quindi, fa sì che il picco vibratorio ritorni a livelli normali e, quindi, la rabbia perda gran parte della sua nocività per l’individuo e per chi sta accanto a quell’individuo. Vedete quante cose ci sono da pensare, se uno ragiona un po’ su una cosa semplice come quella che ha detto l’amica? Vai avanti.

D - La domanda che mi son posta è: perché cambiando l’ambiente, cambiando la situazione, questi canali che si aprono (che si aprono, presumo, per l’idea che mi son fatta, fin da bambina) poi rimangono attivi in qualche maniera, perché il fisico, di fronte a determinate azioni esterne (o parole, o quello che è esterno) di primo impatto ha la stessa reazione. Cioè, penso che non sia il fisico, comunque il picco di rabbia si alza nella stessa maniera, è sempre perché è legato a qualcosa che non si ha ancora compreso, oppure anche se si è compreso si riesce a riequilibrare prima questo picco? … È perché il fisico è abituato anche a …, subentra un’abitudine ad agire nella stessa maniera?
Cerchiamo di ricordare un attimo quanto è stato detto qualche tempo fa a proposito del carattere e della personalità. È chiaro che la persona facilmente irosa, che si arrabbia facilmente (perché, se ci pensate, ognuno di voi ha una diversa facilità, possibilità, capacità di arrabbiarsi; no?
C’è chi si arrabbia di più, chi si arrabbia di meno, chi prova indifferenza, chi riesce a tenere a freno; ognuno di voi reagisce in maniera diversa) questo significa che c’è qualche cosa di diverso per ognuno di voi, e questo cos’è? È il carattere che avete alla base.
A seconda di come le caratteristiche della vostra rabbia sono scritte nel vostro genoma, la rabbia tenderà a manifestarsi e questa sarà una costante per tutta la vostra vita. Ecco perché di fronte a determinati stimoli, voi comunque reagirete sempre e comunque arrabbiandovi.

D - E questo è consolatorio, perché … Non per dire «Oh, allora va bene così», ma perché a volte mi arrabbio e poi magari riesco ad osservarmi e rido di me stessa; perché anche se mi cade un bicchiere ho la stessa reazione; quindi rido di me stessa, riesco a ridere! Però dico: «Ma perché, per una sciocchezza del genere, ho una reazione analoga a qualcosa di più concreto?», ecco.
Vedi, la risposta c’è in quello che ti sei appena detta, perché il fatto che la tua rabbia sia presente e tende a manifestarsi sotto determinati stimoli, ti spinge a chiederti il perché! Ricordate che tutto è funzionale alla vostra comprensione, alla vostra acquisizione di comprensione, di evoluzione.
Ecco, quindi, che la persona che esprime in maniera accentuata la rabbia, lo fa perché nel suo carattere è scritto che deve possedere questa qualità perché deve comprendere cose che sono legate a questa qualità. E fin qua, penso che possiate tutti comprendere; che siate tutti d’accordo; giusto?

D - Nel momento in cui, posto che ci sia il carattere che, in qualche modo, convoglia la nostra rabbia in maniera quasi automatica in certe manifestazioni piuttosto che in altre, nel momento in cui interviene questa comprensione, presa questa coscienza, questa consapevolezza innanzi tutto di quello che sta accadendo e poi magari la comprensione di quali sono i meccanismi per cui si arriva a riuscire a ridere del fatto che, guarda caso, mi viene da arrabbiarmi sia se mi cade il bicchiere, piuttosto che se mi capita qualcosa di un pochino più serio, questo porta in qualche modo a far sì che non ci si arrabbi più, o comunque a modificare – per rimanere sul fisico – la manifestazione fisica della rabbia o ad attenuare il picco? Mi sono spiegata?
Sì, certamente. Ma diciamo che, con l’acquisizione di elementi di comprensione, certamente le vostre possibilità poi di moderare, mediare la fuoriuscita della vostra rabbia aumentano, chiaramente. Questo, perché? Perché le comprensioni che avete nel frattempo raggiunto, grazie all’esperienza della rabbia manifestata, fanno sì che la vostra rabbia, quella reazione emotiva che è scritta nel vostro carattere, non abbia più la stessa influenza, la stessa importanza di prima, perda un po’ di spinta; ed ecco, quindi, che verrà manifestata più raramente e in maniera diversa. E interverrà quindi, a quel punto, una modifica anche della personalità, cioè del modo in cui voi esprimerete la vostra rabbia.
Se voi guardate l’esempio più semplice che ci sia, l’esempio del bambino di pochi mesi: si arrabbia, eccome se si arrabbia, al di là dell’idea dell’angelo biondo con gli occhi azzurri che hanno tutti dei neonati, ma non è così. Il bambino di pochi mesi s’arrabbia furiosamente e, se ci fate caso, quando si arrabbiano, i bambini così piccoli esprimono la rabbia tutti allo stesso identico modo.
Avete presente come reagiscono i bambini? Reagiscono tutti allo stesso identico modo. Questo, perché? Perché non vi sono ancora altre influenze di nessun tipo; il carattere esce fuori spontaneamente, la personalità non è ancora formata ed è quindi la manifestazione della rabbia pura e semplice, diciamo più elementare, più animalesca che si possa trovare.
Quando invece le cose cambieranno, e il bambino diventerà adulto, vi saranno le comprensioni che modificheranno un pochino questa spinta della rabbia ed ecco che la rabbia allora si manifesterà in maniera diversa, un po’ alla volta, a seconda di quanta comprensione c’è stata nel frattempo; fino a quando quello che noi abbiamo definito «un dono», la vostra capacità di arrabbiarvi, resterà all’interno del vostro carattere ma non sarà più una cosa attiva, che esploderà all’improvviso, ma sarà qualche cosa che verrà usato per comprendere che cosa? Per comprendere la rabbia degli altri.

D - Quindi, in sostanza, possiamo arrivare a modulare la nostra rabbia comprendendola; cioè mentre prima uno lasciandosi andare diciamo a quello che sente dentro, eventualmente se è iscritto nel proprio carattere, sarebbe sempre a mille, può imparare a modularlo … per cui se ti cade il bicchiere magari ti arrabbi a 10, se ti capita invece qualcosa di grave ti arrabbi a 1000. Ecco, impari a modularla perché impari a vederla.
Certamente, certamente.

D - Però una delle caratteristiche proprio fisiche della rabbia è che, quando avviene il picco, è come se la parte fisica, o istintiva, o comunque quella meno razionale che si può controllare prendesse il sopravvento sulla nostra capacità di modulare, di frenarci, anche solo.
Questo accade per brevi attimi se, intanto, il cammino verso la comprensione è andato avanti; invece accade per attimi più lunghi – e può anche diventare violenta, a quel punto; e si spiegano, ad esempio, gli omicidi sotto la spinta della rabbia (no?) cosa che, altrimenti, una persona magari non avrebbe mai fatto se la rabbia fuoriesce senza nessuna mediazione, senza che vi sia stato nessun elemento che abbia attenuato questa manifestazione del picco.

D - Ma se quando uno sente il picco che sale, fisicamente si sente il «montare la rabbia» (d’altra parte, si dice) e quindi si diventa come spettatori di ciò che sta accadendo, perdendo man mano la possibilità di gestire, di controllare, e può prendere il sopravvento quest’onda!
D - Beh, però se tu ti rendi conto che ti stai arrabbiando tantissimo perché ti è caduto un bicchiere, tu puoi dire: «Ma no, è caduto solo un bicchiere!» e, quindi, razionalmente, dire: «è una stupidaggine» e metterti invece a ridere!
Ma, al di là di questo, non dimenticate che le cose non sono così semplici ma ci sono anche altre emozioni, assieme, e poi dimenticate sempre l’importante funzione degli altri! Certamente che c’è la rabbia che vi fa salire il sangue alla testa, e poi non capire più niente e tendere a fare cose spropositate, però ci sono tutti i limiti imposti anche soltanto dalla presenza di una persona che ti è accanto, che magari subirebbe la tua rabbia e a cui tu vuoi bene. O che la fomenta.
Molte volte, istigare una persona arrabbiata può essere utile, non è detto che sia sempre dannoso. Pericoloso, questo senza dubbio; però, molte volte, per il fatto di sentirsi istigata, la persona arrabbiata si rende conto di quello che può succedere più improvvisamente e, allora, il picco improvvisamente si blocca e scema dolcemente.
Volevo sottolineare che, probabilmente, avete perso quello che ho detto poco fa; e che, secondo me, è una cosa grandiosa e che dimostra quanto Colui che tutto ha creato ha tenuto conto dell’economicità di qualsiasi elemento che vi ha fornito per comprendere. Io avevo detto che, nel momento in cui la vostra rabbia nel vostro carattere viene compresa, diventa «un dono»; e voi direte: «Ma come può essere considerato un dono il fatto di avere nel proprio carattere scritta la capacità di arrabbiarsi?!» … Diventa un dono perché voi, conoscendo la vostra rabbia, a quel punto potete comprendere e aiutare nel modo migliore quelli che esprimono rabbia. Ecco, così, che quello che appartiene a voi, a quel punto, diventa un aiuto per quelli che sono all’esterno di voi; e tutto ritorna al tentativo di riequilibro che tutto l’universo cerca sempre di mettere in atto.

D - Ricapitolando (per mio consumo, diciamo così; per mia immagine mentale): una persona ha un carattere iroso, attraverso questo tipo di caratteristica la esprime sul piano fisico, acquisisce brandelli di comprensione finché ha capito la sua rabbia e questa rabbia viene iscritta sempre nel suo carattere come un dono che magari – appunto come dicevi – gli permette di conoscere la rabbia degli altri.
C’è solo un’imprecisione: non viene inscritta nel suo carattere perché nel suo carattere è già inscritta; semplicemente perde la spinta a manifestarsi, pur restando all’interno; però il fatto che resti all’interno, a quel punto, è qualche cosa di conosciuto, quindi qualcosa che tu puoi usare a favore degli altri, nel tuo rapporto con gli altri.

D - Io non riesco a capire il passaggio!
D - Praticamente non sei più in balia della tua rabbia, ma la sai gestire come qualsiasi altra cosa, del resto. Una volta che si riesce a comprendere un qualcosa di noi stessi, si diventa in qualche maniera padrone di questa cosa. Potrebbe essere legato a questo; no?
D - Posso? Perché quello che secondo me si fa fatica a capire … Tu prima hai detto che, comunque, se nel tuo genoma sono scritte determinate cose, queste cose ti fanno sempre arrabbiare (no?) Ok, quindi è la manifestazione della rabbia che cambia?
Sempre a meno che tu non abbia compreso, chiaramente, eh: nel momento in cui c’è la comprensione, si trasformano in «doni», invece che in spinte.

D - Ecco, e questo … Faccio fatica a collegare questa … Non so … Forse perché noi abbiamo una concezione della rabbia che la etichettiamo come negativa, e quindi faccio fatica a fare questo passaggio del farla diventare un dono. Cioè, nel senso … Quello che prima mi faceva arrabbiare, nel momento in cui …
Nel momento in cui tu hai compreso, non ti fa arrabbiare più!

D - Potrebbe essere che, a un certo punto, invece di farti arrabbiare, magari ti fa ancora innervosire però, avendo compreso la maggior parte, riesci a controllarti e magari manifestare non la rabbia ma qualcos’altro di diverso, che può essere utile alla persona che hai davanti.
Diciamo che, senza dubbio, nel momento in cui si è compresa la rabbia, la rabbia è impossibilitata a manifestarsi con dei picchi.

D - Però può esserci sempre del nervosismo, comunque.
Certamente può esserci di sottofondo una caratteristica tipica dell’individuo che si manifesta poi attraverso la personalità, nel suo modo di esprimersi, che può essere tendenzialmente «ombroso» (tanto per dire) però non avrà più i picchi tali per cui la sua rabbia si manifesterà in maniera violenta, compulsiva e via dicendo. Non soltanto, ma – ripeto – poiché la rabbia, da un individuo in queste condizioni, è stata compresa, egli avrà una maggiore possibilità e capacità di comprendere la rabbia altrui. E poi, comprendendo la propria rabbia e facendo un parallelo tra la propria e quella altrui, avrà anche una maggiore possibilità di aiutare l’altra persona a comprendere la «sua» rabbia.

D - Scifo, faccio un’altra domanda: tu hai parlato della rabbia come vibrazione principale che si porta dietro, però, nel momento in cui arriva a manifestarsi, anche tutto un altro corollario di vibrazioni e quindi di emozioni. Per ciascuno di noi ci sarà una causa scatenante principale, e poi tutta una serie di altre. Nel momento in cui noi ci osserviamo, cosa dobbiamo fare? Lavorare sulla rabbia principale, cercare di distinguere, … cioè qual è un meccanismo che possiamo utilizzare per riuscire a, in qualche modo, disinnescare la bomba?
Direi che la cosa primaria da farsi è proprio quella di disinnescare la bomba, ovvero lavorare sul picco che state per manifestare. Tutte le altre vibrazioni comprimarie, diciamo, che accompagnano la vibrazione principale che sta per manifestarsi attraverso il picco sono soltanto degli addentellati, quindi son vibrazioni molto inferiori al picco.

D - Che, però, possono rappresentare la differenza; come si diceva prima, quando dicevi «c’è un ambiente diverso»; se hai accanto una persona che tende ad avere un effetto calmante, contenente sulla tua rabbia, o una persona che ti provoca, la stessa situazione può evolvere in modo diverso …
Come sarebbe diversa se tu ti arrabbiassi quando sei da sola! Sarebbe importante, per esempio, che voi incominciaste a cercare di notare come reagite diversamente quando siete da soli o quando siete con altre persone, e vi arrabbiate in entrambi i casi.

D - ANoi parliamo di rabbia come il picco in cui uno si arrabbia, sì; però se parliamo poi di rabbia che si trascina, quindi che non è la rabbia del picco momentaneo, che non so cos’è: frustrazione, rabbia non espressa, oppure rabbia che uno ha con se stesso che non riesce a risolvere …
Ecco, questa qua è una cosa interessante, perché poi potreste dire: «questa è un …. Nel momento in cui vi viene la rabbia, la rabbia vera e propria e reagisce in qualche maniera, in maniera abbastanza forte, però ci sono tutte quelle rabbie che si protraggono nel tempo; alla fin fine non hanno mai dei grossi picchi, però restano sotto-sotto come qualcosa che continua a rosicchiare l’anima (che ne so?) un figlio che si allontana, e via e via e via …
È che, a quel punto, non è più la rabbia l’emozione principale, la rabbia è soltanto un’emozione che accompagna tutto l’insieme delle altre emozioni che accompagnano la situazione. Questa è la differenza. Mentre per la rabbia di cui parlavamo prima il picco è la rabbia, e la rabbia è certamente l’interprete principale di quello che sta succedendo, nei casi in cui la rabbia sembra che si protragga nel tempo, nei giorni, o magari anche a lungo, anche per degli anni, questo accade perché la rabbia non è l’elemento portante di quello che interiormente si sta smuovendo, ma è un insieme di cose, nessuna delle quali riesce a prendere il predominio e che si vivono, alla fine, con una reazione di rabbia anche come meccanismo di difesa; perché ricordate che la rabbia è anche un meccanismo di difesa, in taluni casi.

D - Però, in questi casi in cui la rabbia è prolungata nel tempo, il ciclo di queste sostanze legate alla rabbia, … cioè si sciolgono normalmente ma non hanno effetto sul fisico oppure sì?
Ma diciamo che in questo caso di rabbia prolungata nel tempo le sostanze che si creano sono molto poche, sono quelle che si creano all’inizio ma poi, col passare del tempo, la sensazione di rabbia continua a persistere ma è più che altro un’abitudine ormai che si è creata. Si pensa a quella determinata cosa e sorge la rabbia perché si rivive la situazione, ma non è che si crei veramente una risposta rabbiosa a quello che si sta vivendo, perché non si sta vivendo in quel momento la situazione. La situazione che provoca la rabbia non è un qualcosa che hai davanti e con cui tu puoi reagire; è qualche cosa che ti porti avanti come ricordo. Capisci? Quindi, la cosa è diversa dalla manifestazione di rabbia come reazione a qualche cosa che sta succedendo.

D - Quindi la rabbia del picco è più legata a un evento singolo?
La rabbia del picco è più legata a qualcosa di immediato.

D - Esatto; mentre quella che si protrae nel tempo è ben più complicata quindi da analizzare.
Sì, a volte può complicare, perché può essere (giusto come diceva l’amica) vendetta, potrebbe essere rancore, potrebbe essere delusione, potrebbe essere paura, potrebbe essere tante altre cose …

D - Anche odio?
Potrebbe essere anche odio; … tante altre cose che si accompagnano a questa condizione che l’individuo preferisce definire rabbia perché, tutto sommato, gli fa meno paura che vedere tutte le altre emozioni che l’accompagnano.

D - Ma in un caso del genere, uno come fa a … Se non ricordo male, ci avete sempre detto che quando si hanno dei problemi, è meglio cercare di non affrontare tutta la matassa insieme, ma di prendere un pezzetto alla volta. Se io mi trovo di fronte a una situazione del genere, io come faccio a fare ordine nel cercare di capire tutto quello che c’è dietro a quella che io chiamo rabbia e che in realtà è una cosa che si protrae nel tempo?
Eh, diventa una cosa complicata, veramente complicata! Anche perché, essendoci tutto questo insieme di emozioni diverse che si uniscono tra di loro e non essendoci la situazione presente che scatena la rabbia, ma essendo basata su un ricordo – che, al limite, può essere anche un falso ricordo, perché voi non sapete in realtà se il motivo per cui siete arrabbiati è basato su qualcosa di reale, che veramente meritava la vostra rabbia, o se è stata una vostra reazione per il vostro Io ferito allora, non avendo tutti questi elementi qua, l’unica cosa che potete fare è cercare di tenere sotto controllo la situazione; e in che modo? Attraverso la mediazione del vostro mentale; però questo non risolverà certamente la rabbia. Per essere risolta, bisogna che la situazione che ha provocato la rabbia – teoricamente, o che non l’ha provocata ma voi pensate che l’abbia provocata – venga poi vissuta direttamente in qualche altro modo.
Nel senso che quando noi vi diciamo «affrontate le cose subito, direttamente» voi le affrontiate subito e direttamente. Se rimandate le cose, vi ritrovate poi nella situazione che non avete più la possibilità di affrontarle direttamente, ed allora ecco che la vostra rabbia si protrarrà nel tempo senza poter essere sciolta, perché mancano gli elementi su cui basarsi. Ecco perché affrontare e vivere nel «qui e ora».

D - Le frecciatine che si danno alle volte alle persone, può essere una componente di questa rabbia lasciata lì?
Sì, sì sì, senza dubbio.
Senza dubbio; perché poi non c’è niente di più nocivo, nei rapporti tra le persone, che lasciare lì le cose che intanto lavorino sotto-sotto formando poi una specie di cristallizzazione interiore. Perché poi il risultato è quello: qualcosa che continua a girare, senza trovare uno sbocco di nessun tipo, al vostro interno.

D - Però, proprio per capire, per rimettersi nella situazione, rendere reale una situazione che magari è solo basata sul ricordo, su una percezione; non lo sai, … però quello che succede quando vai – anche in maniera cosciente – a rimetterti in una situazione per vedere cosa succede, per affrontarla, per guardarti, … non dico per risolverla, ma per avere altri elementi, … è come se partissi già con una soglia un po’ più alta di nervosismo; già parti prevenuto, già quando ti dici: “Sarò calmissimo” non è vero! E, quindi, è più facile arrabbiarsi; non è detto che poi anche lì i dati che trai dalla situazione siano effettivamente dei dati reali. Allora come fai a scindere la rabbia che può esserci nella realtà di quel momento da quel substrato di cui parlava Luca, che è un qualcosa che è più grosso, più complesso, più ramificato, più composto di varie cose, e che però ti porti dietro anche quando vai ad affrontare qui e ora la persona, la situazione che ti genera …
Ma vedi, cara, un conto è affrontare la situazione perché l’ha detto Moti o l’ha detto Scifo, e un conto è affrontarla perché lo senti di affrontare! Tu stessa hai detto che parti già prevenuta; se parti prevenuta vuol dire che l’affronti perché senti di affrontarla.

D - Sì ma ho anche detto meglio di niente!
E «meglio di niente» vuol dire che non l’affronti perché senti di affrontarla; la affronti «perché è meglio di niente»!

D - Sì, però, qualcosa bisogna pur fare!
È sempre il tuo Io che ti sta spingendo; non è il desiderio di affrontare! O, forse, il desiderio del tuo Io è di far vedere a te stessa e agli altri che, tutto sommato, se le cose stanno così, è colpa dell’altro e non è colpa tua! O, per lo meno, è principalmente colpa dell’altro e non tua.

D - Se un bambino fa una cosa sbagliata, è giusto che io manifesti la rabbia in quel caso è controllata perché capisca che ha fatto una cosa sbagliata.
Certamente.

D - E, quindi, deve avere un rimprovero.
Certamente. Questo è un errore che tutti voi fate con i vostri figli, perché cercate di non fargli vedere la vostra rabbia, invece dovreste metterli di fronte alle vostre reazioni rabbiose perché, in quel modo, capiscono e si rendono consapevoli di dove possono essere i loro errori: invece voi avete paura: «Poverini, poi restano traumatizzati e poi se lo ricordano» … Certo che se lo ricordano, sarà bene se lo ricordino!

D - Ma anche di fronte a una discussione fra coppia, cioè se io ritengo che lui mi abbia fatto un … cioè mi sento non capita, o che lui non mi ascolti, è giusto che tiri fuori la mia rabbia per farmi ascoltare, per farmi capire, per chiarire la situazione del momento.
Non si può fare di tutta l’erba un fascio. Ricordiamoci che, essendoci due persone coinvolte, la cosa diventa doppiamente complicata per non dire quintuplicamente duplicata – perché chiaramente i fattori aumentano in maniera esponenziale essendo due persone, eh; e quindi da un caso all’altro, il modo di reagire giusto, … è difficile poi definirlo giusto … Giusto per te? Giusto per lui? Giusto per la società? Giusto per la famiglia? Giusto per i figli? Sarebbe troppo lungo poter fare una cosa del genere.
Diciamo che, certamente, se c’è una rabbia nei confronti di un’altra persona, sia un compagno o una compagna, o un amico, o chiunque vogliate, sarebbe giusto, comunque sia, riuscire a esprimerla; a esprimerla magari nella maniera migliore, ma questo riuscirete a farlo soltanto quando avrete incominciato a capire una parte della vostra rabbia; altrimenti la vostra rabbia – all’inizio, se voi vedete le vostre prime incarnazioni – usciva semplicemente come picco reattivo, e ne son sempre successe di tutti i colori! Quello che fate adesso, che magari vi spaventa, è niente in confronto a quello che avete fatto in passato di fronte alle vostre esplosioni di rabbia!

D - Gli esempi fatti finora sono rapporti tra singoli; ma quando invece il rapporto è con molti, nel mio caso è la classe, l’uso della rabbia per dimostrare dissenso del comportamento (ovviamente dei ragazzi, in questo caso) quando in certe situazioni spesso c’è la ricerca di provocare la reazione rabbiosa per conoscere quelli che sono un po’ i limiti che la situazione permette, a questo punto la questione diventa complessa, cioè nel senso che la manifestazione del mio dissenso nei confronti dei ragazzi perde lo scopo pedagogico; o no?
Sì sì, ma certamente. Diciamo che, in questo caso particolare, la rabbia deve avere la funzione – come dicevi tu – pedagogica, dimostrare ai ragazzi quello che stanno facendo, attraverso la tua reazione. L’importante è che si tratti di una rabbia «consapevole e governata» secondo le proprie finalità, non un’esplosione di rabbia fine a se stessa; perché allora si rivolge soltanto agli studenti, che cosa? Che «facendo un certo comportamento quelli si arrabbiano, e guarda che ridere, come si sta arrabbiando quello!».

D - Esatto, ma il problema è qual è allora la manifestazione di questa rabbia? Cioè, la nota sul registro (per fare l’esempio classico) …
Purtroppo la manifestazione in un ambito scolastico non può essere che quella di usare le regole che permettono di esprimere la rabbia, quindi le punizioni, purtroppo.

D - È sbagliato?
Non è sbagliato.

D - Il problema è che, appunto, i ragazzi sono arrabbiati perché devono venire a scuola. Ecco, chiaramente questo, a seconda degli anni, perché più son piccoli e più questa manifestazione verso l’esterno è palese, più son grandi e più viene dissimulata ovviamente in altre modalità.
Forse la cosa migliore sarebbe fargli vedere che anche tu sei arrabbiato perché devi andare a scuola, che se potessi faresti cose che ti piacciono di più!
Però, capisci, caro, in fase adolescenziale, qual è l’adolescente che non è arrabbiato? Chiedetelo al nostro amico A., qua, quante … lui sembra sempre così sereno, pacifico e sorridente, ma dentro, quante volte sei arrabbiato e non lo manifesti?
Appunto! È proprio una condizione «di crociera» di quell’età!

D - Questo l’ho già capito, indubbiamente, comunque c’è il problema che questa cosa deve essere in qualche modo disciplinata; cioè nel senso che, voglio dire, sì, va bene, ma fino a un certo punto …
Certo, bisogna riuscire a mostrargli delle regole, dei limiti, dei paletti oltre ai quali è giusto non andare prima di fare qualche cosa di cui poi ci si pentirebbe magari per tutta la vita!

D - Sì, lo so che è no, però voglio dire in effetti … che sia … è quello di indurre nell’individuo un calo di questo famoso picco; perché, probabilmente, l'incontrarsi di due emozioni forti (una la rabbia e d’altra parte la paura) provoca probabilmente l’annullamento di entrambi, però sul momento; poi è chiaro che queste cose è come un po’ un vulcano (no?) si rimescolano all’interno e …
Teoricamente può essere vero il discorso delle due emozioni che si contrastano, ma il più delle volte non è che le due emozioni si contrastano ma si uniscono e, in qualche maniera, pur abbassando il tenore di una poi aumenta il tenore dell’altra. E allora cosa accade? Che la paura limita certamente la rabbia che stava per esplodere, però più che limitarla la inibisce. E la inibisce quando? Quando c’è la persona che ha provocato la paura. Nel momento in cui la persona non è più presente, ecco che succede che la rabbia viene di nuovo fuori e si manifesta in quei comportamenti che mi sembra che ultimamente stiano succedendo molto spesso, di bambini picchiati, o ricattati e via dicendo; ma quelle sono tutte reazioni di rabbia a quello che questi ragazzi stanno vivendo e che manifestano attraverso il bullismo con comportamenti di questo tipo, quando le persone che incutono paura non sono presenti.

D - Sì, indubbiamente; tant’è che cambia a seconda dell’insegnante; nel senso che l’insegnante che fa più paura perché la materia comunque è più importante, rispetto all’insegnante che fa meno paura perché magari la sua materia ha meno peso; no?
Certo che, teoricamente, l’insegnante – mettendo in moto questi meccanismi di paura – ha la classe più sotto controllo e ha meno problemi; però forse non è quella la funzione dell’insegnante, quella di avere meno problemi lui, la funzione è quella di cercare di aiutare i ragazzi a capire, a conoscere, a studiare e avere loro meno problemi; perché sono loro quelli che hanno bisogno di aiuto.

D - Sì sì, no, il problema appunto è che comunque loro una valvola di sfogo la cercano e chiaramente la utilizzano dove sanno che possono in qualche modo poterlo fare. Capisco che uno possa svolgere la funzione sociale anche in questo senso, però nella dinamica complessiva, se le valvole di sfogo son troppo poche, lo sfogo diventa eccessivamente violento e a quel punto lì poi diventa un problema per tutti, anche per loro stessi, perché poi si fanno male anche fra di loro, voglio dire.
Certo, sarebbe bene che si facesse, ad esempio nelle scuole più attività fisica, in modo tale che le energie, i picchi, siano più facilmente (come si può dire?) … spandibili all’interno della propria vita, dai ragazzi; invece l’attività fisica è molto poco presa in considerazione nel vostro sistema scolastico attuale.
E non si rendono conto che molta parte dei problemi è perché questi adolescenti che hanno questi picchi di energia che comportano tantissimi elementi: la sessualità, l’affettività, il desiderio di staccarsi dalla famiglia, la voglia di fare cose diverse, la curiosità, e via e via e via e via, probabilmente sarebbero molto più facilmente governabili se le energie dei ragazzi venissero in qualche maniera incanalate anche in altre direzioni se fosse loro permesso di uscire, di essere espresse anche in altre direzioni e, quindi, diminuendo un po’ alla volta tutti i picchi interiori delle loro scelte

D - Sì sì, ci affiancano gli psicologi, ma quello …
Sì, va be’, ma poi ci vorrebbe qualche cosa di diverso di uno psicologo che viene una volta ogni tanto, a cui non gliene frega niente, fra l’altro, di quel tipo di lavoro, ma lo fa soltanto per arrotondare le entrate, gli introiti.

D - Sì, il problema è che ci vorrebbe un insegnante per ogni allievo, in una situazione di questo tipo qua (no?). e lì diventa una roba, anche economicamente, che non so se è anche sostenibile.
Questa, purtroppo, è la culturizzazione di massa. Se voi pensate agli antichi romani e agli antichi greci, questo l’avevano capito e tendevano più ad avere giusto un insegnante per ogni studente o per un piccolo gruppetto di studenti.
E difatti fiorivano i filosofi, fiorivano i matematici, e via e via e via. Adesso fioriscono i «punk», che non sono proprio la stessa cosa; perdonatemi!

D - Sul discorso del movimento fisico, io l’ho voluto sperimentare anche su di me ed effettivamente può essere un nuovo modo per gestire, secondo me, la tensione, o rabbia che si vuol chiamare, ma credo …
È valido per tutti i tipi di picchi, eh!

D - Certo; ma credo che dietro ci sia anche un altro aspetto, al movimento fisico; è il fatto che uno sposta l’attenzione da un’altra parte.
Va bene. Certo.

D - Io ho l’impressione che – almeno, sempre sperimentando sulla mia persona – questo sia un punto cruciale; cioè l’innesco di questo processo, l’aumentare di questa produzione anche a livello fisico di queste sostanze che in qualche modo fanno montare la rabbia, nasce proprio dal fatto che io mi concentro su quel punto e diventa un circolo vizioso. L’esercizio fisico, ma può anche essere qualcos’altro, fa sì che sposto l’attenzione da un’altra parte e inevitabilmente alla fonte io chiudo il rubinetto, per cui è chiaro che il processo in qualche modo si interrompe.
Certamente riuscire a focalizzare l’attenzione su qualche cosa che distoglie dall’esplosione del picco, permette al picco di sciogliersi senza provocare danni; per esempio, bene fa il nostro amico Fabio ad usare le carte per aiutare i bambini problematici, perché distogliere la loro attenzione, fargliela porre sulle carte che lui, con tanto amore, gli presenta, li aiuta non soltanto dal punto di vista cognitivo, di apprendimento o affettivo e via dicendo, ma anche li aiuta proprio a spostare l’attenzione da queste cose che non riescono a esprimere e che restano dentro e quindi provocano delle tensioni interiori, verso l’esterno; quindi aiutandoli a scioglierle, anche se inconsapevolmente, ovviamente, vista l’età e magari i problemi che hanno.

D - Ma scusa, Scifo, in base a quello che si diceva prima: «una volta compresa la mia rabbia diventa un dono», a quel punto se uno la manifesta non è più negativa, diventa il lato positivo della rabbia, perché aiuta gli altri; e quindi non c’è un’incomprensione ma c’è una comprensione alla base!
Diciamo che, finché non l’avete compresa, si manifesta con un lato apparentemente negativo, ma può anche manifestarsi positivamente allorché questa conoscenza della rabbia viene usata.

D - Legandomi al discorso dei bambini, volevo dire che quando un bambino che non ha problemi di nessun … è normale (diciamo così per semplificare) e manifesta la sua rabbia buttandosi per terra e delle volte sbattendosi la testa sul muro (anche se sembra anormale) basterebbe riuscire a far sì che la sua attenzione … fargli spostare l’attenzione perché questa reazione diminuisca, senza sforzarlo invece di dire: «Stai fermo, guarda che ti fai male».
Ma, le possibilità sono diverse. Una è quella che dici tu, di spostare l’attenzione; una è quella di sederglisi a fianco e dirgli: «Dai, va bene, va avanti, vediamo fino a che punto resisti al dolore, fino a che punto vuoi farti male»; vedrai che, quando sente male davvero, si ferma comunque; ma direi che principalmente per buona parte dei nonni, che non potrebbero mai arrivare a vedere se davvero si fa male – forse la cosa migliore, come sempre in questi casi, è quella di cercare di distrarre l’attenzione; anche se: distrai l’attenzione, fermi la situazione, ma non risolvi il problema.

D - Io avrei una domanda: perché è stata scelta proprio la rabbia come esempio di emozione?
Perché è qualche cosa che conoscete chiaramente, direttamente tutti voi, è qualche cosa che può provocare grossi danni nella sua manifestazione; danni immediati, danni fisici, che veramente possono poi rovinare l’intera esistenza; quindi, tutto sommato, forse ci è sembrato che potesse essere un argomento, un esempio abbastanza ad ampio raggio, che permettesse di fare un’analisi su qualche cosa di completo con cui, bene o male, tutti voi vi siete trovati faccia a faccia qualche volta nella vostra vita.

D - Faccio fatica a trovare a livello astrale qualcosa che mi colleghi alla rabbia; cioè non ho le idee chiare, non riesco …
Allora, la prossima volta, la prossima riunione, vedremo se avrete delle domande su quanto è stato detto fino adesso e poi incominceremo a parlare appunto della rabbia e dei suoi rapporti con quello che è il corpo astrale dell’individuo. Ad esempio quali sono le altre emozioni che eventualmente si accompagnano alla rabbia, ad esempio il rapporto tra la rabbia e la vibrazione astrale, come la vibrazione astrale interferisca con quella fisica (questo punto è abbastanza importante), come vengono ricodificate queste emozioni all’interno dei due corpi che stiamo esaminando, e via e via e via e via; quindi ce n’avete da pensare, creature! Lo so che per voi tutto questo risulterà difficile, perché se era difficile esaminare la rabbia sul piano fisico, mi immagino cosa sarà – che disastro sarà – esaminarla sul piano astrale, ma vedrete che con la pazienza …

D - Nel momento in cui noi abbiamo dei sogni rabbiosi, questi ci forniscono (…?...) degli elementi rispetto … cioè dobbiamo considerare una rabbia che si manifesta sul piano fisico o in qualche modo ci possono dare degli elementi per capire qualcosa sulla rabbia nel piano astrale?
Potrebbero essere valide tutte e due le ipotesi …… se però tu potessi vedere te stessa, mentre stai sognando, con tutte le tue componenti; quindi avresti degli elementi che potrebbero essere utili se tu vedessi fisicamente come reagisci nel fare quel sogno, ad esempio; cosa che non puoi assolutamente fare.

D - Però prima del risveglio posso sognare …
No no, nel momento stesso in cui ti svegli, quello che hai sognato è già completamente travisato dal tuo Io.

D - Quindi tutti quelli che si mettono a interpretare i sogni colloquiano col proprio Io, fondamentalmente?
Certamente. Dicono delle grandi baggianate, solitamente, riflettendo la propria interiorità sui sogni degli altri.

D - E quindi uno interpreta solo i propri sogni, in realtà, allora?
Solitamente sì; tanto è vero che se andate anche a leggere l’interpretazione dei sogni di quello che è stato il maestro di questo tipo di interpretazione, ovvero Sigmund Freud, vedreste che nei sogni che interpretava, poi, alla fine, proiettava principalmente quello che voleva vedere lui, dimenticandosi magari altri elementi che erano altrettanto o più importanti. Certamente, interpretare i sogni di un altro è difficile farlo restando obiettivi, restandone al di fuori; che, d’altra parte, poi è lo stesso problema che hanno gli psicologi, gli psicanalisti intendiamoci eh! Non è che interpretare il sogno, interpretare l’inconscio o le azioni, o i problemi interiori di una persona sia meno facilmente proiettabile dall’analista dei propri desideri, dei propri impulsi, dei propri bisogni. Certamente voi direte: «Ma gli psicanalisti fanno lunghi anni di psicoterapia», ecc., imparano come lo psicanalista proietta se stesso sugli altri; non è che cambi poi molto.

D - Forse possono interpretare correttamente solo ciò che hanno compreso; è il discorso che si faceva prima.
Il discorso dei «doni». Se per combinazione fortuita – ma qua bisogna essere proprio fortunati – hanno capito qualche cosa che voi non avete ancora capito, allora possono – attraverso la loro comprensione, il dono che è rimasto interno nel loro carattere – possono aiutare la persona che sta davanti a comprendere quel qualche cosa nella maniera migliore, nella maniera meno dolorosa, quanto meno.

D - Però se sono particolarmente attenti, dovrebbero riuscire a capire quando non sono in grado di aiutare l’altro.
Certamente, certamente, però purtroppo devono vivere usando le persone … Purtroppo la situazione è quella, non dimentichiamoci che c’è una vita da condurre e non tutti si accontentano di (che ne so?) andare al mare su una nostra spiaggia, ma vogliono andare alle Bahamas! E, allora, l’importante è che siano tanti i pazienti e che si possa fare il viaggio alle Bahamas!
D’altra parte, per ora la vostra società ha ancora questo tipo di coscienza, ma le cose stan cambiando; vedrete che cambieranno anche abbastanza velocemente. Non so se la maggior parte di voi vedrà i cambiamenti perché, per quanto velocemente, non saranno così veloci, ma alla prossima vita troverete tutto diverso. … quei pochi di voi che ancora si incarneranno!
Creature, dopo questa «battuta» vi saluto, serenità a voi! (Scifo)

La pace sia con tutti voi, figli.
Eccoci qui, ancora un anno assieme, inaspettato un po’ per tutti, in fondo. Mi piacerebbe sapere se voi vi siete chiesti il perché di queste riunioni e dell’andamento di queste riunioni. Conoscendovi, penso di no; e, allora, vorrei ricordarvelo un attimo io.
Abbiamo deciso di continuare a intervenire per, questa volta, non portare nuovi concetti, nuove teorie, ma per cercare di fornire a tutti voi, a tutti coloro che leggeranno le nostre parole in qualche maniera, il modo di osservare come quanto noi abbiamo speso in discorsi in questi più di 30 anni non è soltanto fatto di teorie, ma è possibile applicarlo anche in pratica, nella vita di tutti i giorni; perché vedete, figli nostri, la filosofia è bella, è importante, interessante, è coinvolgente, però, per quello che riguarda la vostra vita, ha un’importanza soltanto relativa.
Certamente, può aiutarvi a conoscere alcune meccaniche, puoi fornirvi i mezzi per comprendere di più voi stessi, ma quello che è veramente importante - l’abbiamo sempre detto e lo ripetiamo anche questa sera - è riuscire a vivere la vostra vita, le esperienze che vi arrivano, nel modo giusto, nel modo migliore a mano a mano che vi avvicinate ad esse.
Ecco che queste riunioni, per questo ciclo - chiamiamolo ancora così; mi ricorda i bei tempi - basato sulla “rabbia” servono proprio a cercare di farvi comprendere come, con tanta buona volontà e tanto coraggio, è possibile avvicinarsi a comprendere qualche cosa di più di voi stessi, non applicando soltanto i concetti filosofici ma anche applicando la più semplice delle osservazioni.
Per questo motivo, il fratello Scifo è partito dall’esame della rabbia rispetto al corpo fisico: perché è la cosa più vicina a voi. Tutto il resto, poi, sarà una conseguenza.
Io mi auguro che voi questo lo teniate sempre presente e ricordiate che, se partecipate, se avete - come voi pensate spesso - “la fortuna” di poter essere presenti con costanza a queste riunioni, questo significa che dovete mettere tutto l’impegno che riuscite a mettere per cercare di rendere utile il nostro venire fra di voi; anche perché ricordate che costa fatica a tutti, non soltanto a voi; e quindi perché sprecare le energie, le fatiche di tutti quanti quando è possibile, queste energie, farle servire a qualcosa di utile prima di tutto per voi stessi e poi per chi vi sta accanto? Certo, potete uscire da questi incontri e dimenticare tutto quello che è stato detto, oppure potete accontentarvi di farvi raccontare da chi vi sta accanto magari le sue considerazioni, ma non è la stessa cosa che se le considerazioni le fate voi. Questo fa parte della vostra crescita, dovrebbe essere uno stimolo in più per aiutarvi a vivere meglio la vostra vita, quella vita che così spesso sembra opprimervi, essere difficile e pesante; eppure dovreste arrivare prima o poi a comprendere che se la vostra vita vi appare, vi sembra, la sentite così pesante, così opprimente, è perché non avete capito ancora qualcosa. E, allora, quando vi viene offerto il modo per capire, non evitatelo, cercate di farlo vostro, in modo da rendere utile tutto quello che l’esistenza vi propone.
Che la pace sia con tutti voi, figli. (Moti)

Creature, serenità a voi!
Mi sembra che non abbiate riflettuto abbastanza su quello che riguarda la rabbia e il corpo fisico; siete arrivati a parlare di “rabbia e archetipi” chiedendovi se la rabbia è un archetipo; cosa decisamente fuor di luogo nonché completamente assurda e improponibile. Per troncare sul nascere una discussione di quel genere, posso dire che la rabbia non è un archetipo. “Ma perché?”, direte voi. Io intanto direi che non avete ancora ben compreso cos’è un’emozione. La rabbia è un’emozione, creature, cos’è un’emozione?

D - Potrebbe essere che la rabbia è una reazione ad una emozione.
Quelle che voi definite emozioni - solitamente e comunemente - in realtà non sono le emozioni, ma sono le reazioni che voi avete all’interno del piano fisico; che avete definito emozioni nel vostro linguaggio perché non volevate altro modo migliore per definirle, ma le emozioni non appartengono al piano fisico, le reazioni appartengono al piano fisico. Le emozioni, in realtà, appartengono a qualche altro piano di esistenza, a un altro corpo, appartengono al corpo astrale che è proprio quello preposto a gestire e a permettere di esprimere le emozioni, le sensazioni, i desideri.
Ora, se ci pensate bene, nella definizione di “corpo astrale” ho detto che il corpo astrale non è quello che provoca le emozioni, è quello che permette di gestire, di esprimere le emozioni; e mi sembra che son due cose abbastanza diverse! Allora, a questo punto, forse è meglio ri-ragionare un attimo su tutto: com’è il cammino dell’evoluzione all’interno dell’individuo? L’emozione, creature, come può essere definita nella maniera più semplice?

D - È una vibrazione.
Bravissimo. Da dove parte questa vibrazione?

D - Dall’akasico.
Parte dall’akasico sotto forma di cosa?

D - Di desiderio?
D - Di richiesta di comprensione.
Quindi di vibrazione, ancora una volta; no? Dunque, l’akasico ha bisogno di comprendere qualche cosa,… diciamo che desidera, anche se dire che l’akasico desidera non è veramente giusto, però dire “desidera” può rendere l’idea di questo akasico che ha, diciamo, il bisogno di arrivare a comprendere se stesso e quindi invia questa vibrazione verso il resto delle sue componenti per cercare di avere dei dati per comprendere se stesso. Ora, questa vibrazione, ovviamente, per arrivare ad esprimersi sulla palestra che serve al corpo akasico per comprendere le sue reazioni, ovvero il piano fisico, attraversa i vari piani di esistenza quindi ecco che questa vibrazione attraversa il corpo mentale, e quindi si ricopre di una certa struttura di materia mentale, attraversa il corpo astrale, e quindi reagisce secondo i dettami della materia astrale, ricoprendosi anche di materia astrale, arriva al corpo fisico.
Fermiamoci un attimo qua. Noi abbiamo detto, all’inizio di questi incontri, che il carattere di una persona è stabilito all’interno della sua catena genetica (ricordate?) quindi, in qualche modo, c’entra con come l’individuo poi, alla fine, riuscirà ad esprimersi all’interno del piano fisico; è evidente.
Ora, questo passaggio della vibrazione, questa richiesta dell’akasico che arriva al piano fisico passerà anche attraverso la catena genetica. La catena genetica, voi ricordate che, diciamo, queste richieste formano un circolo (no?) dall’akasico al fisico, dal fisico all’akasico. Ora, questa vibrazione - rivestita di materia mentale, quindi che mette insieme una serie di pensieri che accompagnano la richiesta e rivestita di materia astrale, che quindi mette insieme un insieme di emozioni e reazioni emotive che accompagnano questa richiesta - arriva alla catena genetica, la quale ha al suo interno queste caratteristiche tipiche del carattere di ogni persona.
Ora, chiaramente - considerato l’esempio della rabbia che abbiamo fatto - ogni persona, ognuno di voi, avrà all’interno della sua catena genetica una certa possibilità di reagire a un certo tipo di vibrazioni che hanno a che fare in qualche maniera con la rabbia. Ognuno di voi reagirà in maniera diversa, ovviamente. E con queste reazioni in maniera diversa cosa accadrà? Accadrà che nel momento del ritorno dal piano fisico al piano astrale, poi al piano mentale e poi al piano akasico, subirà l’influenza dell’ambiente in cui l’individuo vive, quindi subirà l’influenza della personalità che è modellata dall’ambiente dell’individuo, quindi subirà l’influenza degli archetipi transitori, per esempio. Giusto?
A questo punto ci sarà la reazione di tutti questi elementi concomitanti all’interno del piano fisico ed ecco che la rabbia si esprimerà secondo le modalità personali tipiche di ogni individuo, con una parte di caratteristiche fisiologiche che saranno uguali da individuo a individuo, e con diverse sfumature, diverse emozioni aggregate, che dipenderanno dal tipo di personalità che l’individuo ha messo in atto per esprimere le componenti del suo carattere; quindi ci sarà chi si arrabbierà per l’invidia, ci sarà chi si arrabbierà per un’ingiustizia, ci sarà chi si arrabbierà perché non viene ascoltato, o perché si sente inferiore, e via e via e via e via.
Ognuno di voi avrà tante componenti collaterali collegate all’elemento rabbia che caratterizzano la sua reazione all’interno del piano fisico.

D - Non riesco a capire. La vibrazione che parte dall’akasico, la necessità di comprensione, può essere intitolata “rabbia” oppure semplicemente… quindi il mio corpo akasico ha la necessità di chiarire qualcosa rispetto a quella che è la rabbia e in qualche modo incanala questa vibrazione che arriva e poi si esprime, come dicevi adesso, a seconda del… del… non importa poi esattamente dove, ma per invidia, per… per diversi motivi possibili.
Questa è una possibilità. L’altra possibilità è: l’akasico ha una necessità di comprensione neutra, non necessariamente sulla rabbia. Nel momento in cui… poiché io l’ avevo immaginata così la risposta… Nel momento in cui la necessità di comprensione incontra una serie di ostacoli o si va… non riesce a fluire liberamente, genera una risposta a questo punto effettivamente determinata dall’interazione fra ambiente e personalità e carattere che ha, come caratteristica distintiva, quella di essere rabbiosa. Mi sono spiegata?

D - E non so qual è di queste due!
Mah, diciamo che è una via di mezzo fra le due; ovvero la richiesta di dati che proviene dall’akasico è la più neutra possibile, però l’akasico la fa partire da delle zone di se stesso in cui ci sono delle vibrazioni ancora in subbuglio per mancanza di comprensione che, quindi, in qualche modo, condizionano e indirizzano il tipo di richiesta che inviano; quindi non è che l’akasico mandi una richiesta di sperimentazione della rabbia.
L’akasico invia le sue richieste di esperienza e, poiché queste richieste di esperienza provengono dalle zone dell’akasico che non sono ancora sistemate, che non sono ancora tranquille (diciamo così), esse portano in sé un tipo di vibrazione particolare che ha il germe di quelle che sono le cose ancora da comprendere. Capisci quello che voglio dire?

D - Fin qui sì. Però poi non riesco a...
Nel momento in cui attraversa gli altri piani per arrivare al piano fisico, questo tipo di vibrazioni attiverà la materia mentale, di conseguenza a queste vibrazioni che sono in partenza, quella astrale, in conseguenza sempre di queste vibrazioni di partenza, e poi si scontrerà con il carattere, e con l’espressione del carattere della persona; andando a mettere in moto quel tipo di vibrazione “simile” a quella che era la richiesta di partenza dell’akasico in maniera tale che l’individuo reagisca tenendo conto interiormente di quelle vibrazioni. E, quindi, ci sarà l’esperienza, che potrà portare alla rabbia e a tutte le sfumature collegate alla rabbia.

D - Posso chiedere? Tu hai detto all’inizio che la rabbia non è l’emozione ma è come questa si manifesta sul piano fisico; no?
Sì.

D - Però a me verrebbe più da pensare il contrario; per dire: io mi arrabbio, quindi ho l’emozione della rabbia, strozzerei quello che ho di fronte, vedo che è un marcantonio di due metri e, invece di strozzarlo, gli faccio un bel sorriso; quindi io ho la rabbia all’interno, però all’esterno invece reagisco in modo diverso. Non so se mi sono spiegata. Cioè reagisco in modo non rabbioso, diciamo così come noi intendiamo il modo rabbioso, però in realtà la rabbia rimane all’interno; quindi sembrerebbe proprio che la rabbia sia più l’emozione che provo e poi dopo io però, a seconda della situazione, delle convenzioni sociali, reagisco all’esterno in modo differente.
Certamente. Non dimentichiamoci che c’è l’Io poi a modulare tutto quanto, eh! Quindi l’Io ha la facoltà, se vuole, se non è travolto dal picco della rabbia perché il punto importante, ricordate, è il picco della vibrazione della rabbia - se non è travolto da questo picco e riesce a mantenere il controllo della situazione, modulerà la sua reazione a seconda di quelli che sono i suoi interessi.

D - Quindi, a questo punto, la rabbia come vibrazione che viene dall’akasico ha una connotazione molto sfumata rispetto alla rabbia che intendiamo noi, sostanzialmente?
Certamente. È tutta un’altra cosa! Non è più soltanto una reazione, ma qualcosa di ben più complesso che investe tutta la vostra costituzione.

D - Sì, e non è neanche così ben caratterizzata; cioè è difficile caratterizzarla, a questo punto.
Ma, infatti, abbiamo detto che tutte quelle che voi definite emozioni: rabbia, gioia, persino amore, dolore e via dicendo, in realtà non sono emozioni singole, ma sono una costellazione di emozioni che, in qualche modo e in misura diversa da persona a persona, si sorreggono, si alimentano l’una con l’altra.

D - Però, comunque, l’abbozzo di connotazione di partenza serve poi ad avere una risposta che sia utile, altrimenti sarebbe come sparare nel mucchio.
Certamente; ma anche con l’esempio che faceva la nostra amica prima, ovvero della persona che dice: “Quello è troppo grosso, sarà meglio che non faccia l’arrabbiato ma che faccia un sorriso”, anche questa è una reazione alla rabbia che, tutto sommato, insegna qualche cosa, se uno sa guardarla.

Certo, la rabbia è l’espressione dell’akasico; non c’è da capire qualche cosa sulla rabbia, c’è da capire che cos’è che fa nascere la rabbia.
D - Quindi, se la rabbia è un qualcosa che deve essere risolto, è una turbolenza di partenza che viene messa in atto?
Sì.

D - Cioè a me non me ne deve fregare niente se è positiva o negativa o che cosa, io devo solo cercare di capire questa mia reazione da che cosa nasce. Può nascere da una ferita, da una cosa che non ho compreso, che mi fa scatenare in certi momenti effetti emotivi intendo…
Ma senza dubbio; io direi che sarebbe bene che consideraste che il 90% delle volte, quando avete picchi emotivi così forti - picchi di reazione emotiva, adesso sarà meglio dire, d’ora in poi, così ve lo ricordate - chiaramente questi picchi di vibrazione così forti, la maggior parte delle volte si tratta di meccanismi di difesa; quindi bisogna che riusciate ad arrivare a comprendere da che cosa vi difendete.
Potreste difendervi da quello che vi sembra che gli altri vi stiano facendo, potreste difendervi… che so io?… dalla paura di osservare voi stessi, potreste difendervi dall’incapacità di interagire in maniera tranquilla con gli altri; ci sono mille, mille, e mille modi diversi per ognuno di voi, per cui scattano questi meccanismi di difesa. Ecco, se voi attraverso questi picchi, queste reazioni, riusciste un attimo a focalizzare la vostra attenzione su quali sono i meccanismi di difesa che hanno messo in atto, alimentato questi picchi vibratori, riuscireste già a trovare un filo conduttore per arrivare a comprendere meglio le vostre meccaniche e quindi voi stessi.

D - Quindi anche la paura, la paura di non riuscire a interagire?
Certamente; la paura di non essere capiti, la paura di non essere accettati.

D - Quindi si può dire che principalmente dietro a un picco di rabbia c’è la paura; paura legata a qualcosa di più profondo però c’è una paura, alla fin fine.
In linea di massima direi di sì e, quindi, di conseguenza, proprio per il fatto che si tratta di una paura, è naturale che ci sia immediatamente un meccanismo di difesa da parte dell’Io.

D - E il fatto di reagire con un picco di rabbia può essere legato al fatto che l’Io è subito destabilizzato e quindi avrebbe la possibilità di osservarsi, o forse è una reazione per nascondere questa cosa?
Questa è una domanda interessante. Nei momenti in cui ci sono i picchi di rabbia, cosa succede all’Io?

D - Destabilizzazione totale.
Giusto. Destabilizzazione totale, ovvero resta completamente spodestato, preso anch’esso di sorpresa da quella che è la reazione.

D - Resta sorpreso da una vibrazione che viene dall’akasico però. E che non conosce, in sostanza. Che, quindi, non riesce a modulare, non riesce a gestire.
Su cui ha perso il controllo, sa di non poterla controllare e, quindi, gli fa paura.

D - E non riesce a controllarla perché? E’ troppo violenta? E’ troppo…
Perché arriva improvvisa, è come una scarica, una scarica improvvisa…

D - Ma se la rabbia è una risposta a una paura, la paura arriva da su, incontra bla bla bla, arriva all’ambiente e la reazione, quindi la risposta è la rabbia, che ha un picco. E, quindi, stiamo dall’altra parte, quando stiamo tornando indietro… E’ la vibrazione di rimando mia che sto rimandando all’akasico quella della rabbia che provo!
Ma la rabbia è la punta del picco, è l’espressione del picco sul piano fisico.
Però il picco non è fatto soltanto dall’espressione, è fatto di tutto quello che si porta dietro. Considerate che il picco sia come una specie di uragano, una turbolenza interiore, che in qualche modo spazzola tutta l’interiorità e porta con sé, porta a galla tutto quello che sta fluttuando all’interno (che so io?)… i fantasmi, le paure, le reazioni, i meccanismi di difesa, le cristallizzazioni; scombussola tutto e permette a tutto di uscire fuori in maniera esplosiva.

D - Che poi fa nascere i sensi di colpa se la cosa va oltre i limiti.
Certamente. Poi c’è la reazione di ritorno, a completamento del ciclo, quando la reazione di rabbia si è espressa, allora i dati ritorneranno attraverso corpo astrale, corpo mentale al corpo akasico e porteranno tutte le reazioni che ci sono state, e man mano che attraverseranno i vari corpi lascerà qua e là una parte di quelle vibrazioni che appartenevano al picco e che faranno nascere all’interno dell’individuo giusto come dicevi tu - i sensi di colpa o altri elementi collaterali che si metteranno in circolo e poi alimenteranno, ritorneranno quando ci sarà un altro picco, eventualmente, successivamente.

D - E quando riesci a esplodere proprio completamente (qui non stiamo parlando di rabbia che ammazzo uno, eh!)…Che poi ci deva essere un assestamento, dopo aver avuto una turbolenza così forte ci vuole un po’ di tempo per riprendere l’assestamento giusto, però può anche essere… C’è la connotazione negativa ma anche quella positiva.
Certamente, senza ombra di dubbio! Quando c’è la rabbia che esplode incontrollata accade molte volte che, subito dopo l’esplosione di rabbia (o poco dopo) cosa accade? Accade che l’individuo si mette a piangere, a singhiozzare.
Questo, perché? Perché ormai il picco vibratorio si è dimezzato, è diminuito, quindi la tensione si va allentando, i meccanismi interiori del corpo stanno producendo meno di quelle sostanze che stavano producendo ed ecco che vi è come una specie di tracollo fisico.
Ma è un tracollo che però non riguarda soltanto il fisico, riguarda anche gli altri corpi; perché il picco vibrazionale voi lo vedete esplodere all’interno del piano fisico, ma in realtà è esploso prima all’interno del piano astrale e all’interno del piano mentale, quindi ha messo in subbuglio la vostra materia mentale e anche quella astrale.

D - Scusa, sull’esempio che facevi prima, appunto, come un’ondata che porta a galla completamente quello di sommerso che non volevamo vedere, poi c’è la ricostruzione dell’Io: l’Io deve riprendere un suo equilibrio e quindi cerca di ripristinare o attraverso dei fantasmi come una cristallizzazione che automaticamente ripristina quello che c’era prima oppure, come immagine, cerca di ripristinare la situazione precedente, in sostanza?
Ma l’Io, diciamo, quasi automaticamente - voi sapete che l’Io in realtà è soltanto una concezione per spiegarvi quello che succede, l’Io cerca immediatamente di vedere se riesce a ripristinare la situazione com’era prima ma, dopo l’esplosione di un picco, non può più ripristinarla!
Perché, chiaramente, qualche cosa è cambiato. È come un caleidoscopio: se lo muovete un attimo, l’immagine che vedete nel caleidoscopio non è più la stessa. La stessa cosa accade all’insieme dell’individuo allorché c’è stata l’esplosione di un picco; allora cosa fa? La cosa più ovvia e più veloce che l’Io può fare è quella di cercare rapidamente di ricostruirsi un’immagine che tenga, in piccola parte almeno, conto di quello che è successo; e, quindi, di cercare di giustificare quello che è successo cambiando la propria immagine.
È un adeguamento che fatte tutti voi in continuazione, d’altra parte. Se volete pensare a un esempio, pensate ai bambini, che sono sempre degli esempi importantissimi da osservare; guardate quando i bambini hanno esplosioni di rabbia, i loro picchi di rabbia, cosa succede subito dopo. Il bambino, il più delle volte, dopo essersi arrabbiato, scoppia a piangere, come può fare un adulto e allora cosa fa il suo Io? Interviene immediatamente per cercare di rendere il picco di rabbia utile al fine di ottenere quello che cercava. Lì, perché non c’è ancora un insieme della coscienza costituito, non tutti i corpi sono completamente collegati, ma quando si tratta di un individuo adulto, non può più scopertamente agire in questa maniera furbetta, per cercare di ottenere attraverso la sua rabbia quello che non riusciva ad avere, e allora cosa fa? Adegua la sua immagine, cercando di includere nell’immagine anche il perché di questo scoppio di rabbia; ma questo provoca, ovviamente, un’alterazione dell’immagine che l’Io ha, quindi un avanzamento, un cambiamento dell’Io.

D - Quindi nei momenti di scoppio di rabbia, di questo picco, cioè potenzialmente sarebbe uno dei momenti migliori per osservarsi?
Certamente.

D - Però, in un momento in cui si è così coinvolti, fare l’osservazione…
Diciamo che l’osservazione, in realtà, poi, alla fin fine, il corpo akasico ovviamente continua a farla quando succede tutto questo, proprio perché parte da lui la cosa, è lui che ha bisogno dei dati che ha provocato questo tzunami interiore all’individuo però voi, come consapevolezza all’interno del piano fisico, certamente non potete mettervi con l’intenzione di osservare quello che vi sta succedendo; non ci riuscireste.
Siete troppo sotto-sopra in quel momento per poterlo fare. Quello che potete fare, però, è subito dopo o nel momento in cui il picco è finito e le energie tornano a essere un pochino più stabili, cercare di osservare quello che vi è successo e quindi di andare un po’ più in profondità nel comprendere quali sono le motivazioni che vi hanno spinto.
Questo lo potete fare. Certamente resterete in superficie perché, osservando dal piano fisico, non è mai possibile andare veramente alla radice dei problemi, ma permetterà alle energie comunque di fluire e di riprendere la loro circolazione normale, di rifluire più facilmente verso il corpo akasico.

D - Però si può riuscire ad avvicinarsi… perché succede spesso su situazioni ripetitive e, quindi, si può cominciare a isolare un pochino la situazione; non tanto, ma qualcosa si può fare, perché ci son sempre degli elementi ripetitivi. Anche se cambia la situazione, però ci sono degli elementi ripetitivi; almeno, per quello che ho osservato su di me.
Naturalmente, ma per forza di cose; perché, se come abbiamo visto, questo discorso passa attraverso il carattere della persona - il carattere e poi la personalità, quindi l’espressione del carattere all’interno del piano fisico - il modo di esprimersi dell’individuo è abbastanza costante nel tempo; quindi sotto lo stesso tipo di stimolo, c’è la possibilità - anzi la quasi certezza - che l’individuo reagisca nella stessa maniera nell’espressione nel piano fisico.

D - Cioè, io per esempio urlo, sbraito, dico parolacce; all’infinito questa cosa, però arriva un momento di stop. Io mi son resa conto che, nelle grosse discussioni, cioè diluivano nel tempo. Quello che io non riesco a capire è però se ho la possibilità, osservando le mie reazioni, le mie motivazioni, eccetera, di finirla ‘sta storia, come se fosse una malattia che guarisce. Può avvenire che uno riesca a comprendere nel corso della vita ciò che gli fa scatenare la rabbia?
Può avvenire, certamente; può avvenire non che lo comprenda l’individuo all’interno del piano fisico, ma che lo comprenda la sua coscienza, il suo corpo akasico; e allora questo immediatamente farà finire quel tipo di comportamento; ma può invece avvenire, all’interno del piano fisico, che l’individuo un po’ alla volta porti alla consapevolezza alcuni elementi di quello che gli succede e, quindi, stemperi le sue reazioni; quello che, d’altra parte, ti sta succedendo.

D - Perché, in fondo, sono tante reazioni scatenate da vari motivi che fan nascere ‘sta rabbia; che hai detto che poi, comunque, è scritta nel carattere; giusto? E diventa un’espressione… cioè, quand’è che scatta? La rabbia è un insieme, un groviglio di emozioni, poi.
Sì, perché porta con sé tanti elementi che si mettono assieme e, alla fine, c’è una tale massa di vibrazioni che sono anche in urto, in contrasto tra di loro, che alla fine esplode, deve uscire in qualche maniera, deve sfogarsi in qualche maniera, altrimenti l’individuo esploderebbe emotivamente!
È quello che accade, d’altra parte, in certi episodi piuttosto forti, piuttosto importanti di pazzia, in cui l’individuo, aggrovigliato da tutti questi elementi interiori, finisce per avere una situazione vibrazionale tale per cui i suoi vari corpi restano destabilizzati e quindi si ha quella che voi potreste definire una forma di schizofrenia, o di paranoia e via dicendo. Però qua andiamo molto più nel dettaglio, diventerebbe troppo tecnica la cosa. (Scifo)
view post Posted: 7/2/2024, 07:56 Relazione: Qui e ora, vivere il presente (2006) - Do Ut Des - Do affinché tu dia
“Agisci nell’oggi, figlio e fratello, per evitare la sofferenza di domani.” (Baba)

Cari amici,
la necessità e la volontà di essere aderente allo spirito di questo incontro, che è quello di farvi percepire, se non condividere, non tanto e non solo quello che credo di aver capito, ma anche e soprattutto quello che penso di aver introiettato dell’insegnamento (non dico come comprensione, ma almeno come consapevolezza), mi ha spinto in questi ultimi mesi a tentare di fare ciò che avrei dovuto incominciare a fare sedici anni fa, quando è iniziato il mio rapporto col Cerchio: osservare la mia vita alla luce dell’insegnamento etico-filosofico che, negli anni, mi veniva via via donato e che continuo ancora a ricevere.
In tutti questi anni, ho inanellato una serie di perle che, anche alla luce dell’analisi che cerco di fare ultimamente su me stesso, formano una bellissima collana; una collana che, però, non sento ancora veramente e totalmente mia. A volte sono orgoglioso di possederla, a volte faccio fatica a indossarla e, spesso, mi dimentico di averla, un po’ come l’apporto che tengo appeso al collo.
Nell’agosto 2004, ho ricevuto il titolo della mia relazione, “Qui e ora (vivere il presente)” e, la prima cosa che ho pensato è stata: “E ora cosa dirò su questo argomento? Qui si rischia di dire troppo o troppo poco, oltre che cadere nell’ovvio e nel banale”.
Allora ho incominciato a raccogliere il materiale dell’Insegnamento che trattava di questo argomento. Ne ho raccolto molto, me lo sono letto e riletto, ho evidenziato le frasi che mi sembravano più utili per “capire” il “qui e ora” e ho anche, ogni tanto, inserito tra queste frasi, alcune delle considerazioni che mi venivano in quel momento e che ritenevo importanti ai fini di questa relazione.
Ben presto mi resi conto di quanto poco avessi riflettuto, negli anni, su questo. importante principio etico, che non veniva proposto, solo come semplice esortazione (“vivi nel qui e ora”, “vivi il presente”, ecc.), ma anche in tutte le interrelazioni che ha con tutti gli altri grandi principi dell’insegnamento.
Solo negli ultimi mesi ho capito che, il motivo per cui vi ho poco riflettuto, è perché l’ho poco praticato, in modo consapevole quanto meno, così come, di conseguenza, ho poco praticato gli altri principi etico-filosofici fondamentali ad esso collegati.
Infatti, è evidente che, non si può praticare il “qui e ora”, senza vivere, al tempo stesso, il “sii te stesso”, il “comincia da poco e da vicino”, il “vivi il tuo karma” e altri ancora, tutti principi che, se li avessi vissuti un po’ più a fondo e in modo più consapevole, mi avrebbero dato una migliore comprensione di me stesso, risparmiandomi, così, anche un po’ di sofferenza.
Quando, qualche mese fa, ho incominciato a chiedermi se, io, in prima persona, stessi vivendo il presente, nel qui e ora, così come mi veniva insegnato, mi sono trovato in difficoltà e, subito, mi sono posto un’altra domanda che mi ha sconvolto ulteriormente: “Perché non me lo sono mai chiesto, nonostante fossi immerso nell’insegnamento?”
Si trattava, evidentemente, di un impegno quasi esclusivamente mentale, finalizzato ad un tipo di conoscenza che mi attraeva molto, che mi dava molte risposte, ma che non sentivo l’esigenza di verificare sulla mia vita attuale.
Ora, invece, messo di fronte alla richiesta (giustissima, per altro) di “dare” a voi, non tanto la mia conoscenza, così come l’ho ricevuta in tanti anni, ma piuttosto i frutti che, in termini di consapevolezza e di comprensione, ne sono scaturiti o ne sarebbero dovuti/potuti scaturire, incomincio a sentire il peso delle mie responsabilità, in parte disattese, anche come componente del Cerchio.
Ma, in cosa consiste questo “presente”, che faccio così fatica a vivere? Da un punto di vista filosofico, ho realizzato che è un “non tempo”, nel senso che il presente, appunto - inteso come una realtà che sto sperimentando nel qui e ora - solo nell’illusione dovuta ai miei limiti percettivi, posso immaginare che derivi da una realtà che non esiste ancora (il futuro) e che diventi un passato inesistente, nell’istante stesso in cui incomincia ad esistere.
Infatti, se fosse vero che c’è una realtà in movimento (questa, in effetti, è l’essenza del concetto di tempo, così come lo vivo quotidianamente), una realtà, quindi, che si trasforma ed evolve veramente (al di là della mia percezione soggettiva), dovrei, per logica, negare l’esistenza stessa della realtà e immaginare il nulla.
Personalmente, trovo la seconda tesi, quella dell’esistenza del nulla, oltre che contraddittoria nei termini, anche angosciante, se cerco di immaginarla.
L’Eterno Presente, invece - a cui faccio riferimento sostenendo che il presente è un non tempo anche se è difficile da immaginare, in quanto per farlo devo cancellare l’idea del movimento e, dell’evoluzione - mi permette di farmi una idea di quello che è il presente, anzi, dovrei dire, di quello che è il “mio presente”, nel mio “qui e ora”.
Se, nell’Eterno Presente, ogni mio istante di vita, ogni mio “qui e ora”, esiste già, in tutte le sue sfumature e possibilità, su tutti i piani di esistenza, in una relazione logica con tutti gli altri (qui e ora), non solo miei ma anche di tutti gli altri individui, il mio problema esistenziale (da incarnato), non è quello di stare nel qui e ora - stare nel qui e ora, infatti, è una condizione strutturale, connaturata alla mia esistenza, che non ha alternative, non è una scelta; anche la cosa più strampalata e sicuramente irrealizzabile, non posso far altro che immaginaria nel mio “qui e ora” - ma quello di capire e mettere in atto il modo più giusto, per me, di starci, di viverci; quel modo che, quanto meno, dovrebbe permettermi di vivere meglio la attuale sofferenza e di prevenire quella futura, anche se so che non è questo lo scopo del ciclo delle mie incarnazioni, ma la comprensione di me stesso.
Il mio qui e ora, all’interno dell’Eterno Presente, io lo immagino come il punto del Cosmo in cui io prendo consapevolezza della mia esistenza, un microambiente centrato sul mio corpo, con una struttura vibratoria molto complessa, distribuita su vari piani di esistenza e di cui ho una percezione molto limitata e, quindi, illusoria.
L’illusione, fondamentalmente, è quella di avere un corpo fisico, delle emozioni e dei pensieri, che si muovono e si trasformano, secondo una logica di causa-effetto, in un ambiente dove altre forme, altri individui, con tanto di emozioni e di pensieri, si muovono, si trasformano, nascono e scompaiono. Da questa illusione di movimento e di trasformazione, poi, ricavo necessariamente l’illusione del tempo che scorre.
Inoltre, il mio movimento all’interno di questo microambiente, sembra seguire la mia volontà, le mie pulsioni, i miei desideri, dandomi così la sensazione di avere anche una certa libertà di movimento e di scelta.
L’illusione, però, so che non è un fenomeno casuale, caotico, fine a se stesso, ma uno strumento che mi serve per comprendere la realtà.
L’illusione, comunque io la viva, lascia delle tracce indelebili sulla mia coscienza.
La cosa che, ancora oggi (e probabilmente fino a che sarò incarnato, e forse anche oltre) sconvolge la mia mente, è proprio il fatto che devo gestire la mia realtà akasica, lo sviluppo del mio sentire, della mia coscienza, con la consapevolezza immersa nel mondo dell’illusione (i piani inferiori).
Io so che, il mio qui e ora, è principalmente un situazione che vivo realmente sul piano akasico, dove so quali sono le mie attuali esigenze di comprensione; ma so anche che, quando queste mie istanze arrivano ai miei corpi inferiori, alla mia consapevolezza fisica quindi, il risultato che scaturisce da questo impatto è un’illusione, il mio Io, che non sempre mi permette di vivere l’esperienza fisica in sintonia con le richieste della mia coscienza.
Il mio Io, pur essendo una illusione, sembra avere, infatti, il potere di farmi andare dove vuole lui, anche molto lontano dai richiami della mia interiorità.
In pratica, nel mio qui e ora, a condizionare le mie esperienze, ci sono due spinte: da una parte c’è il mio corpo akasico che, pur nei limiti del suo sentire incompleto, sa quali sono le sue esigenze e quali dovrebbero essere le esperienze da fare sul piano fisico per ottenere la risposta più completa (in termini di sentire) a quanto sta chiedendo; dall’altra c’è il mio Io, che, filtrando e interpretando queste richieste secondo i suoi desideri, le sue paure e le sue gioie, spesso e volentieri mi fa vivere esperienze che danno risposte molto povere. E trovo molto difficile identificare le spinte che vengono dalla mia coscienza, perché sono sempre e comunque veicolate dal mio Io.
La continua esortazione delle Guide a vivere il presente nel qui e ora, quindi, più che un invito a rientrare da un futuro o da un passato inesistenti, la leggo come un invito a trovare, in ogni attimo della mia vita, in ogni mio “qui e ora”, il significato più pieno (più completo) del risultato dell’incontro-scontro (perché è questo quello che avviene nel qui e ora) tra il mio sentire (vale a dire l’insieme dinamico di ciò che ho compreso e di ciò che devo ancora comprendere della Realtà) e la realtà, così come mi si presenta, nell’insieme dei miei corpi inferiori e in rapporto con l’ambiente in cui essi sono inseriti.
Ora, siccome da questo scontro nasce, in ogni attimo (in ogni qui ed ora) un mio Io e, di conseguenza, una immagine di me stesso, mi trovo a dover cercare (se lo voglio) questo significato più completo, proprio attraverso questa mia immagine, che, nonostante tanti anni di insegnamento, ho ancora difficoltà a descrivere e, soprattutto, a interpretare.
E questa mia difficoltà interpretativa nasce dal significato che per me, ora, ha questo approccio con la mia interiorità.
Interpretare i segnali che mi trasmette la mia immagine, infatti, significa che devo chiedermi perché appaio o cerco di apparire “in quel modo”, a volte senza nemmeno rendermene conto - lo capisco, infatti, dalle reazioni degli altri -, significa chiedermi perché ho certe reazioni, certe caratteristiche, perché sono arrivato a farmi una immagine dell’ambiente e degli eventi che spesso contrasta con quella degli altri; e, tutto questo, alla fine, per far emergere, alla mia consapevolezza, non solo la “vera motivazione”, quella che, in quel momento, in quel punto del mio “qui e ora”, mi fa essere in quel modo, ma anche la natura di questa motivazione, cioè se origina da un mio sentire acquisito, da ciò che io sento essere vero e giusto, per me e per gli altri, oppure se è dovuta a condizionamenti culturali esterni, quindi più legata al mio lo.
Osservandomi in questa ottica, devo dire che, spesso, vivo ai margini del mio qui e ora, intento a congetturare, progettare e fantasticare su un mio presunto e spesso improbabile futuro lontano, oppure semplicemente intento a immaginare quello che accadrà nell’immediato futuro, dove proietto timori, paure, aspettative e desideri, oppure intento a rimuginare su eventi passati o a illudermi che certe situazioni non sono cambiate (magari contro ogni evidenza), perdendo un po’ di vista (anche se, ritengo, non sempre in modo irrecuperabile) la parte centrale del mio qui e ora, il mio presente appunto, dove ci sono e premono le vere novità della mia vita, i miei veri cambiamenti, le mie responsabilità, i miei ruoli e i miei legami karmici.
Mi rendo conto, ora, che i miei affannosi tentativi di recupero della scena centrale della mia vita, anche se sembrano rimettere a posto alcune situazioni, in realtà poi, il più delle volte, non sono accompagnati o seguiti da una seria, approfondita e sistematica ricerca delle motivazioni che causano la mia deriva ai margini del mio qui e ora. Le ricadute, infatti, sono piuttosto frequenti.
Questi tentativi, spesso, avvengono sotto la spinta della sofferenza, della paura, dei sensi di colpa o dell’euforia, che sono poi le stesse forze emotive che mi spingono anche ai margini.
Attualmente, è su queste emozioni forti che cerco di lavorare, al fine di motivarle profondamente dentro di me, collegandole a quegli aspetti della mia immagine che, presumibilmente, ne sono all’origine, in quanto ormai superati.
Questo lavoro su me stesso, attualmente, è molto faticoso, perché è ancora molto controllato dalla mia mente (dal mio lo) che, con i suoi calcoli e i suoi ragionamenti, anche se lascia che io affronti le situazioni che temo e che potrei evitare, ma che in coscienza so che devo vivere, e anche se non mi impedisce di interrompere quelle esperienze piacevoli che io desidererei continuare solo per puro piacere personale, ma che sento di dover interrompere, se non fisicamente, almeno come vissuto interiore; nonostante tutto questo, a volte, riesce ancora a giustificarmi e a salvare alcuni aspetti della mia immagine che andrebbero cambiati.
Probabilmente, molte volte, questa opera di salvataggio avviene inconsapevolmente e mi è molto difficile trovare i segnali che dovrebbero aiutarmi a smascherare questo sottile e sotterraneo lavoro del mio lo, fatto in barba alle continue e pressanti richieste della mia coscienza.
lo so che, alla fine, qualunque cosa io faccia, nel mio illusorio “qui e ora”, sarà la mia coscienza a spuntarla e questo mi è di conforto, però siccome voglio smettere di soffrire, penso che insisterò nei miei tentativi di diventare sempre più consapevole di cosa sta dietro le mie emozioni e i miei desideri attuali.

Ero, sono, sarò.
Quale di queste tre parole, per me, è la più importante? Se capissi questo, non avrei più altre domande.
(Vito )
view post Posted: 1/1/2024, 08:12 Auguri di Buone Feste - Comunicazioni e condivisioni
Anche noi auguriamo a tutti un anno migliore di quello precedente, con meno guerre, omicidi e cose drammatiche... anhe se è un po' difficile essere ottimisti!
Gian e Tullia
view post Posted: 15/11/2023, 14:32 Carattere, personalità e osservazione passiva - 2 - Piccoli corsi
La pace sia con tutti voi, figli.
Eccoci, ancora una volta, a rinnovare questo miracolo dell’incontro tra due mondi. Quante persone in questi anni abbiamo visto intervenire a queste riunioni – anzi, a quelle riunioni – ognuna portando il suo fardello di pene, di dolori, di attese, di domande, e tutte che aspettavano da noi qualche cosa; tutte che, prima o poi, ci chiedevano una soluzione ai loro problemi, o una seduta personale per vedere di essere aiutati, e via e via e via, direbbe Fratello Scifo.
E noi, nel tempo, quando abbiamo potuto senza contravvenire a quelle leggi del karma che guidano sia il vostro fare esperienza che il nostro intervenire presso di voi, abbiamo sempre cercato di fare il possibile e di darvi tutto l’aiuto che potevamo; eppure, figli nostri, pensateci bene un attimo: ogni volta che vi abbiamo detto qualche cosa, che vi abbiamo dato qualche consiglio su cosa era meglio fare o come era meglio agire per addolcire (quanto meno) i vostri problemi, voi non l’avete quasi mai fatto.
Perché, figli? Forse perché quello che volevate in realtà non era una vera risposta, forse perché vi aspettavate che noi vi dicessimo quello che voi avreste voluto sentire, forse perché avreste voluto che noi magari potessimo dirvi che avevate ragione e gli altri torto? Forse perché le vostre domande, le vostre richieste, non erano delle domande o delle richieste, ma soltanto un bisogno di attenzione per sentirvi meno soli, meno tristi, meno abbandonati; per ritrovare quell’affetto paterno o materno che magari vi mancava, per costruire quei rapporti che con tanta fatica cercavate di tessere, senza magari riuscire a venirne a capo. Certamente non posso pensare che voi le vostre domande ce le rivolgiate soltanto per dire qualche cosa; senza dubbio al vostro interno la spinta di comprendere voi stessi c’è, eppure non riuscite a comprendere!
E tutti, prima o poi, portate a vostro favore o per la vostra mancanza di comprensione, di apparente incomprensione nel corso della vostra vita il fatto che, sì, ciò noi diciamo è vero, è bello, è giusto, ma è così difficile da capire, è così difficile da applicare, da mettere in pratica!
Figli nostri, non continuate a mentire a voi stessi, guardatevi sinceramente negli occhi e rendetevi conto che, se voi voleste comprendere, potreste farlo semplicemente e facilmente; ricordate che le nostre parole non sono astruse, quello che vi serve nell’immediatezza della vostra vita è semplicissimo da fare, da mettere in atto: basta riuscire a incominciare ad essere sinceri con voi stessi.
Allora, se voi riusciste a esserlo veramente, le vostre difficoltà sarebbero senza dubbio minori perché riuscireste a comprendere ciò che davvero volete, e comprendere ciò che davvero volete toglie la confusione, non permette al vostro Io di aggiungere maschere a quelle che già comunemente mette in modo tale da non ledere la sua maestà!
Ricordate nel tempo, figli nostri, le parole che vi abbiamo detto, nel passato e anche nel passato più recente, ricordatele tra di voi e chiedetevi: «Perché sono scivolate su di me senza che io le mettessi in atto quando il metterle in atto in realtà era una cosa così semplice?», e non usate questo per cercare delle scusanti al vostro comportamento, non usate questo per far sì che il vostro modo di essere sia fatto nel futuro di sensi di colpa, ma usatelo per rendervi consapevoli che, se voi siete ciò che siete, la responsabilità è sempre e comunque soltanto vostra, non è mai all’esterno perché nessuno dall’esterno vi può veramente far fare quello che davvero non volete fare.
Spero che queste mie parole raggiungano l’intimo di ognuno di voi e che nel vostro intimo voi le conserviate per riportarle alla vostra memoria quando vi sembra di annaspare nel corso delle vostre giornate, nelle situazioni che vi si presentano, in ciò che la vostra evoluzione vi suggerisce, affinché possiate comprendere ciò che veramente siete.
La pace sia con tutti voi, figli. (Moti)

Abbiamo portato ultimamente un argomento apparentemente leggero ma che si è rivelato, con il passare del tempo e delle disquisizioni tra chi ha letto le nostre parole, una confusione veramente non da poco, ovvero il discorso del carattere e della personalità.
Penso che sarà meglio fare un riassunto e cercare di inquadrare in maniera leggermente diversa – come siamo soliti fare noi, da un altro punto di vista o seguendo un altro processo -quello che ho esposto negli incontri precedenti.
Allora, vediamo – seguendo in qualche modo la falsariga di quel famoso schema enciclopedico che vi ho fatto avere parecchio tempo fa com’è che si arriva alla costituzione del carattere e della personalità dell’individuo.
Tutto incomincia nel momento in cui l’individualità si muove verso il piano fisico per avere una nuova incarnazione.
Perché l’individualità si muova voi lo sapete è necessario che vi sia il supporto, ovviamente, prima di tutto, della Vibrazione Prima, che tutta la Realtà costituisce. Giusto?
Una volta che questa Vibrazione Prima riesce a costituire tutta la Realtà, ecco che ogni piccola particella della Realtà incomincia il suo percorso evolutivo: regno minerale, regno vegetale, regno animale e uomo. Allorché incomincia a incarnarsi come essere umano, voi sapete che c’è la costituzione, un poco alla volta, del Sentire e della coscienza, ovvero del corpo akasico.
Questo corpo akasico potete considerarlo una specie di memoria in cui vengono memorizzate tutte le esperienze che l’individuo compie nel corso delle sue varie vite, ma questo potrebbe trarvi in inganno: più che l’esperienza in se stessa, nel corpo akasico vengono memorizzate – voi lo sapete – le comprensioni, ovvero il frutto dell’esperienza compiuta con la vita all’interno del piano fisico.
È da questa esperienza che il corpo akasico dà la spinta alla discesa nella materia del piano fisico fino a ricoprirsi di materia astrale, mentale e fisica, al fine di costituire un individuo all’interno del piano fisico, per poter fare nuove esperienze e acquisire nuova comprensione attraverso questa esperienza e far sì che questa esperienza nuova che andrà a vivere possa ritornargli delle risposte per quello che ancora non ritiene soddisfacentemente compreso e inserito in quella che è la sua realtà. Ci siamo fin qua?
Allora, noi avevamo detto ultimamente che, per poter esperire, per poter fare esperienza, l’individuo ha necessità di manifestarsi all’interno del piano fisico, ovviamente; e manifestarsi significa poter interagire con le esperienze e con la realtà che affronta attraverso gli strumenti materiali che possiede per poter entrare in contatto, interagire, con ciò che l’esistenza via via gli propone, ovvero ha bisogno di un corpo astrale, un corpo mentale e un corpo fisico. Ci siamo fin qua?
«Banale», direte voi. Certamente: banale, però voi sapete anche (perché l’avevamo detto, e l’ha detto anche la scienza, d’altra parte; non vorremmo prenderci dei meriti che non sono solo nostri) che il corpo fisico è strutturato in una determinata maniera perché la sua struttura è predeterminata da che cosa? Da quello che è il Dna, dalla sua catena genetica e ultimamente si sta scoprendo, un po’ alla volta, che non soltanto la struttura fisiologica, fisica dell’individuo è determinata dal Dna, ma anche quelle che sono le sue qualità emozionali, emotive e quindi – per trasposizione – che so io? … i pregi o i difetti di una certa persona.
Attualmente si sta magari un po’ esagerando, da quel punto di vista, perché si pensa che, potendo intervenire sulla catena genetica, si possa modificare, cambiare qualsiasi componente caratteriale di personalità dell’individuo, mentre in realtà non è proprio così; ma lasciamo perdere questo argomento, che ci porterebbe troppo lontano.
Fatto sta che la catena genetica – come ormai sa anche la scienza – aiuta il formarsi di un determinato corpo fisico. Fin qua, niente di nuovo. Quello di nuovo che noi avevamo aggiunto è che la catena genetica non è costituita soltanto da elementi di materia fisica. Come potrebbe essere altrimenti? Tutta la materia che voi conoscete, in realtà è costituita, compenetrata dalle altre materie, è compenetrata dalla materia astrale, dalla materia mentale, dalla materia akasica e dalla materia addirittura dei piani più alti, fino a comprendere tutta la materia più sottile, addirittura il Tutto, perché il Tutto in realtà sotto un certo punto di vista può essere considerata la materia più fine che voi conoscete, quella che permea, quella che racchiude, comprende, penetra tutta la materia dell’esistente.
Questo significa che anche la catena genetica, anche il Dna, ha una sua componente fisica, una sua componente mentale e una sua componente astrale, quindi si può considerare l’esistenza di un Dna fisico, un Dna astrale, un Dna mentale, i quali sono quelli che attivano le caratteristiche tipiche del corpo astrale, del corpo mentale e del corpo fisico di ogni individuo.
Ora, noi avevamo detto che il carattere dell’individuo può essere considerato quella sorta di base del Dna che proviene dalle comprensioni precedenti o anche, eventualmente, dalle esperienze fatte in altri regni della natura che non sono quello animale e che, quindi, variano a seconda di come l’individuo ha compiuto il suo cammino ed, essendo strettamente collegato al bisogno di comprensione dell’individuo, sono attivate quelle particolarità della catena genetica che gli permettono di avere il corpo più adatto a interagire con l’esperienza che deve vivere. E con questo intendo dire che deve avere necessariamente il corpo più adatto non soltanto fisico, ma anche quello astrale e anche quello mentale, ovviamente.
Quindi, considerate – cosa che non fate mai – che, quando voi interagite con la realtà, interagite nel miglior modo possibile, o per lo meno nel modo più utile in cui potreste interagire per ricevere comprensione, per avere possibilità di comprensione, e questo a tutti i livelli, da quello fisico, a quello emotivo, a quello mentale.
È chiaro fino a questo punto? Dunque, sul Dna ci sono queste caratteristiche che costituiscono la base che abbiamo chiamato «carattere» – e che sono praticamente fisse, come se vi fosse stato donato un pacchetto di opzioni che potete o non potete usare ma che comunque sono lì, a vostra disposizione nel momento in cui avete bisogno, o sentite la necessità di usarle.
Alcune sono automatiche e si attivano automaticamente, altre esistono perché provengono da vostre comprensioni quindi fanno parte del vostro patrimonio, delle vostre capacità. Questa è dunque la base di come voi siete. Ovviamente, per poter interagire con la realtà cosa è necessario? È necessario che i vostri corpi si esprimano, in qualche modo (giusto?), ecco quindi che queste opzioni, queste caratteristiche di base che avete come carattere è necessario che si manifestino all’interno dell’esperienza che vivete a seconda di quelle che sono le vostre necessità, le vostre comprensioni sotto l’influsso di tutti gli elementi che vi portano a costituire quella che è la vostra reazione all’esperienza.
Ecco, questa vostra reazione all’esperienza, questo vostro costituire voi stessi al di là di quella che è la vostra comprensione, questo vostro strutturare il vostro modo di rappresentarvi, di rapportarvi con la realtà che vi circonda, questa è la vostra personalità.

D - Vorrei chiederti una cosa io, Scifo. Da quello che dici, io credo di capire – e ti prego di dirmi se è sbagliato – che le caratteristiche, gli aspetti del carattere comprendono anche (non so se dire principalmente, ma «anche») quelle cose che ci dovranno «portare» alla comprensione, quindi un dato del corpo fisico, astrale o mentale sarà quel dato frutto di una incomprensione.

Non è detto che il carattere sia quella cosa innata e meravigliosa che è il nostro Sentire che ci spinge a fare, ma è anche il contrario: quelle cose che non abbiamo capito assolutamente e che dobbiamo viverle per «arrivare» alla comprensione. Questa è la mia domanda.
Non direi, direi che il vostro carattere è costituito principalmente da una dotazione positiva, ovvero da tutte le cose che il vostro corpo akasico pensa di aver compreso, crede di aver compreso – ovviamente, non può essere sicuro di aver compreso, perché non sa ancora tutta la sua realtà – e quindi vi dota di questi doni che, come tutti i doni, poi possono essere usati bene o male, per comprendere o per evitare di comprendere.
È lì che entra in gioco la vostra personalità, il vostro interagire con l’esistenza, col vostro Io, con gli archetipi e con tutti gli elementi che influiscono sul vostro comportamento; ed è non dal carattere, non dalla costituzione del vostro carattere che voi potete comprendere, ma dall’interazione.

D - Quindi dalla personalità.

Ma neanche dalla personalità: da come la vostra personalità reagisce all’esperienza; però in partenza – ripeto – il carattere non è giudicabile o qualificabile come positivo o negativo, il carattere è una dotazione di elementi che vengono offerti come base, dai quale costruire; sono i mattoni che poi però devono essere messi a posto, possono essere messi a posto, usati o tirati o accatastati in maniera positiva, e via e via e via.

D - Sì, forse non riesco a esprimere quello che vorrei dire… se una persona nasce con la spinta caratteriale di fare l’infermiera (ad esempio) ecco, questo non significa che un qualche destino superiore «le ordina» di fare l’infermiera ma che probabilmente, dietro questo suo desiderio di fare l’infermiera, c’è un qualche cosa che deve ancora capire, c’è la famosa «incomprensione», che dovrà farla arrivare alla comprensione. Non so se mi sono espressa meglio ma, comunque, questo è ciò che volevo dire.

Certo; diciamo che l’esempio non è dei più felici, mettiamola su un livello leggermente più realistico, perché così non va bene … Prendiamo un esempio comunque sul genere di quello che hai detto tu: una persona che sente la spinta a cercare di aiutare le persone malate. Questa cos’è? È una spinta altruistica, ovviamente, quindi significa che nel carattere c’è qualche mattone, qualche gene, qualche dono risalente a una parte di comprensione che l’individuo ha raggiunto, che lo spinge a cercare di poter aiutare gli altri dal punto di vista della malattia (supponiamo, per il nostro esempio).
Questo, però, non significa che quella persona deva fare l’infermiere, ad esempio; significa che questa spinta diventerà – nel momento che si manifesta sul piano fisico – il bisogno di fare l’infermiere, il bisogno di fare del volontariato, il bisogno di stare attenti alle necessità degli altri, il bisogno di cercare di essere sempre buoni con le altre persone, e via e via e via. Quindi si potrà manifestare in tanti modi diversi, a seconda di come la parte esterna e interna dell’individuo reagiscono a questa spinta interiore proveniente dal carattere.

D - Sì, quindi anche secondo quello che l’ambiente le permette di fare.

Ricordiamoci anche una cosa: non dimentichiamo che, comunque sia, c’è un Io che entra in gioco. Questo cosa significa? Significa che questo desiderio altruistico che c’è nel carattere potrebbe in realtà poi manifestarsi in maniera non veramente altruistica, potrebbe non essere un aiutare gli altri perché si sente che gli altri hanno veramente bisogno di aiuto, ma un bisogno di sentirsi importanti, un bisogno di gratificazione.
La famosa «osservazione passiva» che vi ha dato così tanto filo da torcere nelle vostre discussioni vi permette di osservare non soltanto come vi comportate ma anche come reagite, quindi vi dà tutta la possibilità di osservare ciò che siete veramente e, quindi, di scoprire sia quello che il vostro Io tende a coprire, a nascondere, a modificare, ma anche quello che dal vostro carattere in realtà arriva come spinta reale.

D - Sì; quindi tutto gira intorno a scoprire il proprio Io, le reazioni dell’Io che cosa comportano e in fondo anche che cosa scatenano però, perché ci sono le reazioni del mio Io che, a loro volta, scatenano altre reazioni; no? Devo tener presenti anche quelle.

Certamente: tener presente anche quelle, nel proprio comportamento, però ricordarsi sempre che quello che importa a se stessi sono le proprie reazioni; quelle gli altri si possono osservare, cercare di comprendere, ma difficilmente si possono comprendere veramente, anche perché non si sa che dotazione caratteriale hanno gli altri. Ricordatevi che dovete guardare «le vostre» reazioni, prima di tutto. Quelle degli altri, sì, potete cercare di comprenderle, di fare qualche cosa, di interagire, però non le comprenderete mai veramente, perché non sono le vostre!

D - Mi sembra che venga naturale dire: «Sì, io l’ho fatto per questo motivo. È normale, sono stato bravo, l’ho fatto perché andava fatto!» … e come scopro che, invece, è un male agire dell’Io, una brutta reazione dell’Io, invece che dirmi: «Beh, avevo ragione di farlo!»?

Beh, a parte il fatto che qui entrerebbe in gioco quello che ha detto prima il mio collega, ovvero la sincerità con se stessi, voi tendere – proprio sempre – a non essere sinceri con voi stessi, questo come tendenza generale del vostro periodo incarnativo, però viene il momento in cui non potete più nascondervi la verità; succederà sempre qualche cosa, alla fine, che vi dimostrerà, che vi metterà davanti la vostra verità.
Voi potrete ancora cercare di nasconderla, però – anche se coscientemente non lo riconoscerete, non vorrete riconoscerlo – ciò non toglie che la comprensione delle vostre vere motivazioni al vostro corpo akasico arriverà, quindi in voi qualcosa cambierà. Quindi, non disperate mai perché, per quanto in malo modo vi comportiate, ricordate che comunque sia, quello che avete fatto a qualcosa vi è servito! Questa è già una consolazione, mi sembra!
Ancora una cosa volevo dire: a questo punto, a chiunque, con un minimo di buonsenso, verrebbe da dire: «Sì, d’accordo, noi sappiamo di queste meccaniche, il Dna, astrale, fisico, mentale, carattere, e via dicendo; sono tutte belle cose, possono essere interessanti, ci fan capire le dinamiche e così via, e allora siamo più fortunati degli altri!»; no? E io non potrei che rispondere, a questo punto:«Non è assolutamente vero; perché, anche se voi non conosceste tutte queste cose, comunque sia voi avreste la possibilità di comprendere e di andare avanti»; questo con quei meccanismi che vi ho spiegato e che voi adesso conoscete ma che, comunque, interverrebbero comunque anche se voi non li conosceste!
Sono indipendenti dalla vostra volontà, in realtà, questi meccanismi; quindi la spinta, il calcio nel sedere per andare avanti lo ricevereste sempre e comunque anche se a vostra insaputa.

D - Esiste un qualche rapporto tra il carattere di una persona e il destino di una persona? O, diciamo, il karma di una persona, in qualche modo.

Il rapporto c’è evidentemente; il rapporto tra carattere e karma è evidente che esista; anche perché cos’è il karma? Il karma è legato alle cose che non si son comprese, agli errori che son stati fatti, e la costituzione del carattere a cosa è dovuta? È dovuta alle comprensioni che avete avuto; quindi certamente, nella costruzione del carattere ci sono le comprensioni ma c’è anche traccia di quello che non è stato compreso; quindi senza dubbio il vostro karma in qualche maniera viene riflesso dal vostro carattere.
D’altra parte, se non fosse così, non si potrebbe neanche parlare di karma. Il vostro carattere stesso è strutturato in maniera tale che voi vi troverete davanti alle esperienze grazie alle quali potrete, se riuscirete a comprendere o se riuscirete ad accettare quello che vi succede, risolvere o adempiere il karma che avete accumulato in passato.
Le ultime incarnazioni di un individuo, sono nelle aspettative di ognuno di voi incarnazioni dove uno è più felice, dove uno più sta bene, dove uno è sereno, ha compreso tutto, è in pace con se stesso, è in pace col mondo, è in pace con l’Assoluto; il realtà, il più delle volte – o quasi sempre, se non sempre – sono le incarnazioni che, guardandole dal punto di vista umano, sono le più tormentate che possano esistere.
Questo, perché? Perché c’è la necessità, nel corso dell’ultima vita di eliminare, assolvere tutto il karma negativo che era stato accumulato fino a quel momento e che, altrimenti, non si potrebbe più assolvere.

D - Ancora non ho capito… Faccio un altro esempio: la timidezza, o anche l’aggressività; comunque quelle espressioni della personalità negative. Mi veniva da dire che anche queste risiedono nel carattere, però tu hai detto adesso che nel carattere, essenzialmente, gli elementi sono positivi; quindi come può una spinta positiva diventare poi timidezza piuttosto che aggressività?

Ma timidezza e aggressività sono «manifestazioni» di quello che c’è all’interno del carattere; per cui sono attributi della personalità più che del carattere. All’interno del carattere ci sarà invece la spinta a rapportarti con gli altri.

D - E com’è che si trasforma nella spinta opposta, essenzialmente? La timidezza è la spinta a non rapportarti con gli altri, sostanzialmente. E, quindi, come può avvenire questa inversione completa?

Avviene perché entrano in gioco gli altri elementi, ovvero l’Io e gli archetipi. Diciamo che – per restare in questo esempio – nel carattere c’è questa spinta, questo dono, a cercare di rapportarti con le altre persone, e rapportarti con le altre persone cosa significa? Significa in qualche modo trovare dei collegamenti, riuscire a trovare dei punti di contatto con le persone che ti stanno intorno.
Ora, questi punti di contatto sono espletati all’interno del piano fisico, ovviamente; all’interno del piano fisico però ci sono diversi elementi che contribuiscono a gestire il tipo di contatto che l’individuo può avere con le altre persone; ci sono le tensioni sociali, ci sono … che so io? … questioni razziali, ci sono queste idee archetipali di un certo tipo, c’è la cultura, l’ignoranza, c’è la manifestazione della propria parte femminile o della propria parte maschile, e via e via e via e via e via; tutti elementi che, a seconda delle situazioni sociali che l’individuo sta vivendo, fanno sì che la base caratteriale si esprima in un determinato modo invece che in un altro.

D - Posso? Dove vado a collocare, in questo discorso, il libero arbitrio?

Il libero arbitrio è una di quelle domande che, si ripetono nel tempo: il valore della preghiera, lo spirito-guida, e ahimè il libero arbitrio! Come dire: incominciamo dal fondo, invece che partire dall’inizio!
Come puoi, cara, pretendere di comprendere il libero arbitrio se non hai ancora capito quello precedente? Lo so che l’Io è infastidito dal fatto di pensare che potrebbe non avere un libero arbitrio e che, certamente, avere il libero arbitrio – magari lui solo in tutta la razza umana sarebbe un elemento non da poco, che lo metterebbe talmente al di sopra degli altri per sentirsi davvero unico, irripetibile e imprescindibile.
In realtà il discorso del libero arbitrio è un discorso filosoficamente molto difficile e molto complesso; io non posso fare altro che riassumerlo così come ho detto in precedenza – detto, ripetuto e poco compreso, sempre – che l’assurdo della situazione è che il libero arbitrio certamente esiste, e questo malgrado sia tutto predestinato, sia già tutto scritto nell’Eterno Presente, sia fisso e immutabile.
E tu, a questo punto, chiaramente non puoi capire come sia possibile questo, perché non sai tutto il precedente! Ma poi la risposta è talmente semplice, talmente ovvia – anche dal punto di vista filosofico – che io la ripeto sempre però, chissà perché, o non viene creduta o non viene capita! Il discorso è molto semplice: nel momento in cui la Realtà viene costituita, tiene conto e sa già – tiene conto perché sa già, perché fa parte dell’Assoluto, quindi sa già tutto quello che potrà succedere – quelle che sono le scelte che ognuno di voi, nel corso delle sue incarnazioni, farà; quindi tiene già conto del vostro libero arbitrio. Sono già scritte le scelte che farete, ma le scelte le farete comunque voi!

D - Invece esistono degli elementi del carattere che accomunano persone diverse?

Senza ombra di dubbio! Certamente.
Prendiamo una cosa semplice, quell’esempio che abbiamo fatto prima: rapportarsi con gli altri. Questo è un elemento caratteriale che penso che accomuni tutti gli individui che si incarnano; perché rientra nelle necessità dell’esperienza avere rapporti con le altre persone. Quindi, senza dubbio, è un elemento del carattere che accomuna tutti gli individui che si incarnano.

D - Tu prima hai detto che ci sono degli elementi del carattere che si attivano automaticamente ed altri che, invece, restano (passami il termine) latenti, un po’ come le cellule terroristiche dormienti, insomma; ma perché alcuni si attivano automaticamente ed altri restano … Cioè cosa stabilisce …

Diciamo che ci sono di quelle che sono automatiche perché è necessario che comunque si attivino. Prendiamo giusto l’esempio che abbiamo fatto, quello dei rapporti con gli altri: è necessario che l’individuo abbia dei rapporti con gli altri, quindi non è una componente caratteriale che possa non essere attivata, deve essere comunque attivata; quindi è viva, attiva, e agisce per formare la personalità dell’individuo.
Questo è necessario e indispensabile che ci sia; d’accordo? Poi ci sono, invece, altre caratteristiche che non sono così necessarie per poter avere l’esperienza; possono essere utili per definire maggiormente l’esperienza o per orientare, a un certo punto, in una certa maniera il tipo di esperienza che l’individuo fa, e queste si attivano, vengono a influire sulla costituzione della personalità nel momento in cui l’individuo ne fa l’esperienza, si trova davanti alla situazione che risuona in qualche modo, vibra in qualche modo con quel tipo di capacità interiore appartenente al carattere che può essere utile a quel tipo di esperienza. Ecco, quindi, che entrano in gioco queste altre capacità.
Noi avevamo parlato l’altra volta anche di particolari caratteristiche che restano all’interno dell’individuo una volta compreso, e queste caratteristiche – facendo parte del corpo akasico – restano poi all’interno dell’individuo per tutte le incarnazioni che possiede; ad esempio, una vita in cui l’individuo ha amato particolarmente la musica, ha compreso particolarmente la musica, riesce ad inserire la vibrazione musicale in una comprensione molto più profonda, appartiene a questo individuo ogni volta che si incarna, per tutto il corso delle sue incarnazioni.
Questo, cosa significa? Che l’individuo sarà sempre un musicista? No, assolutamente. Significa che l’individuo ha questa caratteristica tra i suoi doni, tra le sue possibilità, e questa possibilità si attiverà o influirà in determinati momenti o in determinate circostanze. Ad esempio (che so io?) … invece di rendere l’individuo un musicista, nel momento di manifestare la sua personalità lo renderà capace di percepire più facilmente le vibrazioni che provengono dalle altre persone, per esempio le vibrazioni emotive. Anche la vibrazione emotiva è qualche cosa di assimilabile ad una musica (no?), è sempre una vibrazione, in realtà; no? Quindi, comprendere la musica può aiutare a comprendere le emozioni, per esempio, e quindi può rendere le persone capaci di interagire e riconoscere le emozioni che provengono dalle altre persone. D’altra parte, voi sapete benissimo che i musicisti – quelli che veramente sentono la musica interiormente – sono persone molto sensibili e sono facilmente influenzabili, facilmente influenzati da quelle che sono le vibrazioni delle emozioni che li circondano. …

D - Quando una vibrazione – in questo caso parlavamo di musica – riesce a coinvolgere tantissime persone, vuol dire che fa riferimento a degli archetipi permanenti? Cosa c’è? Passa un messaggio potente? Com’è possibile che un personaggio (come quello che stiamo vedendo in questi giorni) o comunque una musica riesca a «entrare» comunque, in qualche modo, in così tanta gente?

Intanto, quello che state vedendo in questi giorni – se ti riferisci a quella povera creatura che è morta di recente – non è una questione di musica; è una questione, come hai detto tu, di «personaggio».

D - Sì. Io parlo, però, che il successo ottenuto, indubbiamente, … a parte questi giorni, … Parliamo di vendite, allora; forse ci capiamo. Così tanta gente che ha voglia di ascoltare, così tanta gente che ha comprato, percepito e sentito quella musica, non credo sia solo una questione di moda; avranno sentito qualcosa.

Mah, io direi che, principalmente, hanno sentito invidia!

D - Invidia?

Sì. Certamente non l’amore che dicono; perché, se fosse amore, non ci sarebbe il circo che si sta costituendo, un po’ alla volta, per questa morte.

D - No, ma io non sto parlando della morte, Scifo; io sto parlando di un musicista, un cantante, qualcuno comunque che esprime una vibrazione un’emozione, come l’hai chiamata tu – in musica, in spettacolo, quello che è. Quando questa cosa riesce a coinvolgere così tante persone, poche volte accade, … tanti gruppi musicali nella storia, ma poche volte accade che il messaggio arrivi a così tante persone! Cos’ha? Qual è il quid che quella persona ha in più rispetto agli altri, da avere un successo così planetario?

Ma non è un quid particolare; certamente vi sono molti fattori concomitanti, ad esempio principalmente quelli che sono gli archetipi transitori di quel tipo di società in quel momento. Ad esempio, una Marilyn Monroe che nascesse adesso non otterrebbe più nessun successo ma passerebbe inosservata, anche perché non avrebbe più nessuna attrazione, o ben poca attrazione se non quella che hanno le migliaia di piccole attricette che compaiono nei vostri show televisivi. Allora, gli archetipi transitori, gli archetipi diciamo dal punto di vista sociale erano molto diversi, non c’era quella miriade di personaggi pseudosessuali che attualmente richiamano l’attenzione; allora era una cosa rara e proprio la sessualità – voi lo sapete – è uno degli elementi costituenti della vostra evoluzione; quindi, una persona che riuscisse a canalizzare, a incanalare un ideale sessuale di un archetipo societario, certamente non poteva che diventare un mito, certamente non poteva che attrarre l’imitazione degli altri, certamente non poteva che restare nel cuore delle persone che hanno vissuto quel momento, quell’archetipo che quella persona in qualche maniera manifestava in maniera così evidente, così palese, e anche così trasgressiva rispetto a quello che era l’archetipo morale dell’epoca. Lo stesso si può dire per questo cantante morto in questi giorni: principalmente il suo “mito” (tra virgolette) è stato costituito da quella che era l’apparente trasgressività …
Ma forse significa che, allora, tutte le centinaia di migliaia di persone che attualmente stanno soffrendo, o dicono di soffrire, o piangono, o si lamentano, si contorcono per la morte di questa persona siano così tormentate per come era questa persona? Possibile che queste persone non si rendano conto che questa povera creatura era, in fondo, che cosa? Era in fondo un malato, una persona con dei grossi problemi, con dei grossi problemi psicologici, con problemi di pedofilia e via dicendo?
È possibile che tutte queste migliaia di persone volessero essere dei pedofili come lui?
Non può essere certamente questo; e invece significa che nel momento in cui questa persona ha incominciato a far musica, ad avere una certa popolarità, rappresentava il momento in cui la società americana era collegata al cambiamento, alla forza del tema razziale che dominava in quel periodo quel tipo di società.

D - Scifo, però, esistono … Questo personaggio, per rimanere nell’esempio, è un personaggio attuale … Se noi troviamo certi brani di musica classica che hanno attraversato per 2-3 secoli diversi tipi di archetipi transitori …

Certo.

D - … e rimangono, diciamo, di attualità, nel senso che vengono ascoltati da molte persone e molte persone traggono da questi brani … Si sentono in empatia, non lo so, non lo so descrivere …

Certamente.

D - Credo che la domanda che forse lui voleva fare era che cosa accomuna questa … Che significato ha questo …? Che cos’è che fa vibrare noi tutti, o tutti coloro che vibrano, queste persone, questo gruppo di persone, all’unisono rispetto a un certo tipo di musica? In questo caso ne abbiamo le prove, che dura da tanto…

Ma avevo capito benissimo la domanda; è proprio questo che cercavo di …

D - Però noi non abbiamo capito la risposta.

È quello che cercavo di farvi capire! La situazione è ben diversa, perché in questo caso – come in altri casi – non si tratta della musica, si tratta del personaggio!

D - In questo caso sì; e quando si tratta della musica?

Ci si ricorda principalmente del personaggio, non della musica che ha fatta. La musica che ha fatta son sicuro che, tranne uno o due brani che ha fatto, nessuno di voi se la ricorderebbe! Invece, certi pezzi del passato, certi brani del passato che continuano a ripetersi nel tempo che so? … prendiamo un valzer di Strauss, per dirne uno qualunque – ha attraversato varie epoche, ha convissuto e interagito con vari archetipi transitori, eppure ha conservato la sua freschezza, ha ancora la sua possibilità di indurre delle emozioni nelle persone che lo ascoltano.
Ma quello che io volevo sottolineare è: quante persone che ascoltano il valzer di Strauss sanno o si ricordano, o pensano a chi era Strauss?

D - Nessuna.

Quindi non è il personaggio l’importante, l’importante è quello che la sua musica ha saputo trasmettere attraverso i vari archetipi; e la maggior parte delle volte questa trasmissione avviene perché il tipo di vibrazione che presenta un certo tipo di musica si ricollega a certe vibrazioni tipiche principalmente di quelli che sono gli archetipi permanenti, invece che essere tipica di quelli che sono gli archetipi transitori, come è il caso invece che state vivendo adesso, attualmente.

D - Quindi, scusa Scifo, stai dicendo che, tutto sommato … almeno ho capito che si tratta di un’evoluzione della comunicazione; perché in pratica questa persona è riuscita in qualche maniera a rendere se stesso una parte del messaggio che lui voleva trasmettere, al di là dei contenuti musicali?

Sì, diciamo che può essere; non è precisa ma diciamo che può essere accettata anche così.

D - Quindi, certi tipi di musica possono rappresentare quello che chi l’ha fatta ha compreso, cioè è legato agli archetipi permanenti?

Non è necessario che abbia compreso, può aver percepito per un attimo quel tipo di vibrazione ed essere riuscito a trasporla, attraverso la sua sensibilità, attraverso una musica comprensibile, ascoltabile anche con vibrazioni meno sottili di quelle che lui aveva percepito. Può averla semplicemente ripetuta, non è detto che l’abbia compresa.

D - Sì, però la formula del successo è che in qualche modo ha cercato di trasmettere un richiamo di un archetipo permanente? Questa è la domanda che volevo fare io.

Ma non ha cercato di trasmettere niente! Lui ha trasmesso quello che riusciva a trasmettere.

D - Certo, ma il fatto che tanta gente l’abbia sentita, hanno vibrato ascoltando il valzer di Strauss come dici tu è l’esempio più corretto, perché quello di Michael Jackson è fuorviante, decisamente – in quel caso, cosa vuol dire? Perché, a distanza di generazioni, la gente ancora, sentendo quel valzer, vibra e … Cosa c’è dietro a quel valzer? Perché tutti, quasi tutti, lo sentiamo in quella maniera particolare?

Perché – facciamo l’ipotesi – all’interno di quel valzer c’era l’eco di una percezione di felicità, di allegria, di comunanza, di rapportarsi agli altri in maniera pacifica e felice, che accomuna tutti gli individui, perché fa parte del loro carattere rapportarsi con gli altri, di cui parlavamo prima, no?
E, allora, ecco che questo rapportarsi con gli altri è valido ancora in tutte le epoche e invade tutti gli archetipi sociali che possono essere presenti all’interno del pianeta nel corso delle varie esistenze. Ecco, quindi, che una musica che ha ancora, come sottofondo, quel tipo di vibrazione che ricorda quel tipo di elemento, può ancora essere valida a distanza di molti anni, mentre la musica che in qualche maniera rappresenta, con le sue vibrazioni, determinate caratteristiche di un archetipo transitorio, quindi del momento, allorché l’archetipo transitorio si scioglie non viene più compresa, percepita, o viene ignorata da quelli che seguono gli archetipi transitori che verranno in seguito.
Poi, specialmente al giorno d’oggi, vedete che gli archetipi si trasformano molto facilmente; c’è molto movimento in questa formazione, costruzione e distruzione degli archetipi; no? Quindi cosa succede nella vostra musica? Esattamente la stessa cosa; non riuscite più ad avere una musica che attraversi costantemente tutto il genere umano per molto tempo, ma esistono delle musiche che capitano momentaneamente ma, nel momento in cui nell’archetipo transitorio cambia qualche cosa, cambia anche il tipo di musica. Non so se riesco a farvi vedere l’attinenza fra le cose.
L'umanità, l’abbiamo sempre detto – sta attraversando un momento di grande cambiamento, di destabilizzazione, come sempre prima di ogni cambiamento, e di apparente perdita di valori. Questo porta a uno scompiglio anche all’interno degli archetipi transitori, ovviamente; ma è soltanto una fase. È un po’ come se l’umanità stesse attraversando l’adolescenza, in poche parole.

D - Ma perché «apparente» perdita di valori? Non è vero?

Perché non è vero. In realtà, i valori non si possono perdere, se sono stati acquisiti. Se tu hai compreso che non devi uccidere gli altri, non ucciderai mai gli altri; no? Però, siccome devi vivere nella società, cosa fai? D - evi adeguarti a quelli che sono gli archetipi sociali a cui sei collegato.
Se nella tua società viene propagata come norma sociale che è importante e di interesse per la tua felicità, che gli altri li puoi anche calpestare, finisce che il tuo Io si adegua a questo comportamento e calpesterà gli altri, anche se interiormente non lo sente. Certo, pagherà poi a caro prezzo, con i sensi di colpa, con gli psicosomatismi, con i problemi nei rapporti con le altre persone, tuttavia questo cercare da parte dell棚o di adeguarsi a quelli che sono gli archetipi transitori una cosa automatica, avviene normalmente e, quindi, una dimostrazione da parte dell段ndividuo di valori che sembra non accettare, ma che in realt possiede gi interiormente, altrimenti, se non li possedesse, non avrebbe neanche poi dei sensi di colpa o delle reazioni negative.

D - Ma questo solo se però questo non calpestare gli altri non è ancora compreso completamente, perché sennò non lo faresti comunque, pagandone lo scotto nell’ambito sociale. Giusto?

Beh, sai, è una sfumatura … Noi parliamo per semplificazioni; non calpestare gli altri è una cosa molto variegata, è fatta di molti elementi. Apparentemente si può non calpestare gli altri ma soltanto perché non li si contrasta fisicamente, però si possono calpestare emotivamente, si possono calpestare mentalmente, e via dicendo; non è necessario calpestarli in tutti i modi, basta una sfumatura, in queste cose, per mettere in atto quel comportamento.

D - Anche se prima Moti ha detto che non c’è niente dall’esterno che possa effettivamente farti fare; no?

Certamente.

D - Per cui, questo adeguamento, come è collocato, Scifo?

Questo adeguamento, quale?

D - Dell’Io agli archetipi. Gli archetipi rappresentano l’esterno; no? Un condizionamento esterno.

Sì, ma questo è l’Io, ma Moti parlava invece della tua interiorità. Cioè, non c’è niente di quello che il corpo akasico ha veramente compreso che tu possa essere costretto dall’esterno a non esercitare; se lo fai è perché c’è ancora qualche cosa che non hai compreso, per cui non lo metti in atto. Non soltanto, ma non ti viene neanche in mente di pensarci, ma fai spontaneamente quello che senti; quindi se quello che senti è sentito bene, hai compreso bene qualche cosa, lo fai senza renderti conto.

D - La costruzione che facevi prima, che poi ci siamo un po’ interrotti, sulla costruzione del carattere, di cosa è formato, cosa è contenuto dentro il carattere che condiziona le nostre esistenze, … e un proseguimento, eventualmente, sul discorso che facevi?

Mi sembrava che il proseguimento logico del ragionamento fosse l’inquinamento della personalità … mi rendo conto che in qualche maniera abbiamo anche parlato: l’inquinamento della personalità fa parte dell’Io; pensavo che volessi continuare con qualche aggiunta sul ragionamento.
Ma si può anche continuare, comunque; anche perché vi era il problema «che differenza c’è tra la personalità e l’Io»; giusto? Allora, abbiamo detto: il carattere è la base per poter interagire nel corso delle vostre esperienze, il modo in cui questa base si esprime nelle vostre esperienze è la vostra personalità, e fin qua ci siamo.
Ora, a quel punto, costituita la personalità, cosa succede? Succede che la personalità nel momento in cui viene a interagire con l’esistenza, con l’esperienza, si trova a dover interagire con le altre persone e con gli archetipi transitori. Allora, cosa succede? Succede che, per poter interagire con le altre persone e con gli archetipi transitori, deve interagire emotivamente, fisicamente e mentalmente, ma fisico (fisico un po’ meno, forse) ma emozione e mente sono molto condizionati da quelli che sono gli archetipi. (Giusto?) Certamente, perché gli archetipi sono quelli che dettano le reazioni dell’individuo a livello della società, alla fin fine.
Ecco, queste reazioni, che vengono messe in atto e che sono stimolate dall’esterno dagli archetipi transitori e dai rapporti con le altre persone, sono quelle che danno l’illusione di una creazione dell’Io sulla personalità. Quindi l’Io, in realtà, è formato dalla personalità, ma è la parte che viene influenzata dall’esterno e che, quindi, ricopre in qualche modo la vera personalità dell’individuo. La quale, a sua volta, risale al vero carattere dell’individuo. È un po’ come se personalità e Io fossero le due facciate di una stessa medaglia, diciamo; la personalità è quella che guarda verso l’interno, l’Io è quella che guarda verso l’esterno.
Abbiamo sempre detto che l'Io è l’interfaccia con la vostra realtà; allora forse potete capire ancora meglio che è l’interfaccia nel senso che è come la vostra personalità, il vostro carattere, interagiscono con la realtà esterna. Il problema nasce sempre dal tatto che voi finite con identificarvi con la vostra azione.

D - E in tutto questo, l’immagine dove la mettiamo?

Beh, l’immagine possiamo metterla tranquillamente assieme all’Io; è una conseguenza di quello che l’Io crea di se stesso, cerca di creare in se stesso. Siccome l’Io si rende conto di essere in quel modo, è necessario avere dei punti fermi per poter dimostrare a se stesso di esistere; allora cosa fa? Si crea un’immagine di se stesso: «Io sono così e così e così e così perché quando mi rapporto con la realtà esterna mi comporto così e così e così e così. Io ho i miei desideri, la realtà esterna è lì per esaudire i miei desideri, quindi io sono questo» e si crea un’immagine di com’è; certamente cercando di abbellirla il più possibile, perché è un po’ vanesio il vostro Io. Ecco, la vostra immagine è quella.

D - Quando dici che dobbiamo cambiare la nostra vita (metto anche questo elemento) s’intende più permettere al nostro carattere di esprimersi attraverso la personalità, o si intende cambiare il carattere?

No, non è poi così male come domanda... Mah, direi che non è così semplice come l’hai fatta tu, forse; perché certamente cambiare la vostra vita … (forse è il termine «vita» che porta un po’ fuori strada nella soluzione; forse avrei fatto meglio a dire: «cambiare il vostro modo di vivere la vita»; potrebbe essere più giusto) perché se dico «vita» può essere semplicemente il vostro modo di comportarvi all’interno del piano fisico, quindi il vostro Io, la vostra personalità e la vostra immagine; invece il cambiamento che dovete operare è alla base di voi stessi, è riuscire a lasciar fluire il vostro Sentire, quindi lasciar fluire il vostro carattere, quindi lasciar fluire la vostra personalità, osservare come la vostra personalità fluisce e non cercare di essere la vostra reazione, ovvero il vostro Io. Quindi cambiate punto di osservazione della vostra vita.

D - Sì, però dicevi di non identificarci con le nostre azioni e intendevi di non identificarci col nostro Io?

Certo.

D - Eh, ma la difficoltà è proprio quella lì, di osservare la personalità anziché la reazione, cioè l’Io. Discernere una dall’altra.

Ma se fosse così facile, io non mi sgolerei tutto questo tempo!

D - Sì, siamo sicuri tutti che è difficile; però, tutte le parole che abbiamo detto finora: guardare distaccato, non giudicare, … puoi aggiungere qualcos’altro?

Eh, ma direi di no.

D - Bene. Abbiamo tutti gli elementi!

Ma sì, ma certamente, avete tutti gli elementi; vorrei soltanto pregarvi però di non rendere eccessivo il ragionamento su questi elementi, perché quando voi ragionate su questi elementi, cosa fate? Mettete solitamente in moto il vostro Io; è il vostro Io che ragiona su questi elementi, invece chi deve usare questi elementi è la vostra coscienza; quindi voi prendete atto di questi elementi, cercate, sì, di comprendere per quanto potete sperare di comprendere, ma non fate della vostra vita una giornata fatta di tentativi di comprensione di questi elementi. Prendete atto di questi elementi, le cose stanno così e il vostro corpo akasico penserà comunque a ciò che gli serve. Come dire che, alla fin fine, non siamo poi così utili come potete pensare!


D - Scusa Scifo, quando tu dici di non identificarci con la nostra azione, è pur vero che l’azione che noi compiamo è il frutto di quello che siamo. A me l’unico modo che viene per non identificarmi con la mia azione è cercare di capirne le motivazioni e, quindi, anche un’azione di per sé diciamo altruistica capire che in realtà non lo è, per fare un esempio. È così? Cioè non identificarsi vuol dire capire quali sono stati gli elementi che mi hanno mosso a compiere quell’azione?

Sì. Sì, però certamente «capire» … i livelli di capire sono vari; perché ci potrebbe essere un capire a livello dell’Io, che non è che serva molto, ma ci può essere invece quello che noi ormai diamo come il top della possibilità di capire, ovvero l’osservazione passiva.

D - Sì, ma anche l’osservazione passiva è non emettere un giudizio; … perché è veramente difficile da capire questa cosa dell’osservazione passiva!

Non riesco a comprendere cosa trovate di così difficile comprendere in questa cosa! Mi rendo conto che è il vostro Io che dice: «io esisto, quindi devo in qualche modo interagire e diventare padrone anche di questa tecnica che mi sembra così pericolosa» … Non capisco la difficoltà che possiate trovare! Non mi sembra così difficile!

D - Infatti, secondo me, il concetto è semplicissimo, il problema è stare a metterlo in pratica perché, comunque, senza renderti neanche conto tu, esprimi giudizi ogni qualvolta poni l’attenzione su qualcosa che fai! Cioè, già semplicemente dando un nome a qualcosa, tu esprimi un giudizio, praticamente! Cioè, … io non lo so … io, per esempio, un piercing potrei chiamarlo mutilazione e potrei chiamarlo piercing. Da noi piercing fa molto figo, se lo chiamo mutazione, … che è un esempio stupido, però io comunque sto già dando un giudizio.

Infatti, dando un’attribuzione al piercing, positiva o negativa, stai usando il tuo Io.

D - Esatto! Infatti, infatti! Però il concetto in sé, l’osservazione passiva è semplicissimo, per come è stato spiegato, dal mio punto di vista.

D - Il punto non è che se io, nel momento in cui decido di chiamare quella cosa lì, mi viene da chiamarla piercing o mutilazione prendo semplicemente atto che ho scelto mutilazione piuttosto che piercing e dico: «Boh, ho fatto questa cosa qua». Cioè, cercare di essere …

Quella potrebbe essere già una strada per arrivare a qualche cosa, ad esempio; chiedersi il perché di questa connotazione che si dà a una certa cosa e non si dà invece a un’altra.

D - Quindi, prima di tutto bisogna essere a conoscenza della cosa, rendersi conto, averla vista; dopo c’è la consapevolezza, il fatto cioè di vedere che veramente appartiene a sé e in che modo si applica la cosa, e lì si è avviati verso la comprensione. Allora forse, Scifo, fin che ascoltavo le loro obiezioni mi è venuto in mente che forse si pensa che l’osservazione passiva sia non avere nessuna opinione (ne abbiamo discusso anni fa) cioè io … non so … vedo una macchina che investe una persona e rimango lì impassibile; cioè se viene inteso in questo modo, io penso che sia sbagliato perché è ovvio che quando io vedo un’azione, un evento, ho la mia reazione spontanea (mi metto a urlare, sono disperata…) poi, però, osserverò; e un «poi» osservare passivamente la cosa. Non posso osservare l’evento: il treno che deraglia e osservarlo passivamente. Mi sbaglio?

È un po’ sottile la cosa. Diciamo che l’osservazione passiva potrebbe essere assimilata in qualche modo alla conoscenza, al prendere atto della situazione.
Quindi, per l’esempio che mi sembra abbia fatto tu (della persona che viene messa sotto da un autobus, o qualcosa del genere; no?) tu prendi atto che questa cosa è successa e osservi, ma cosa osservi? Osservi la persona che sta morendo? Osservi l’auto che si sta macchiando di sangue, …

D - Osservo la mia reazione.

Osservi la tua reazione? Anche. E lì, a quel punto, ti rendi conto che, osservando passivamente, guardi che questi elementi esterni o interni in qualche modo fluiscono nel tuo interno, hanno delle reazioni al tuo interno e puoi osservare queste tue reazioni.
E se continui a osservare quello che ti sta succedendo in tutti questi vari elementi, un po’ alla volta arriverai alla comprensione di che cosa ti sta suscitando tutto questo.

D - Sì. Potrebbe essere, allora, che questa che viene intesa come difficoltà di comprendere l’osservazione passiva è perché viene intesa come un diventare neutri nei confronti del mondo: cade un asteroide e noi rimaniamo lì, come ebeti e non facciamo una piega. Forse è per quello?

Eh no, è proprio lì la differenza. Certamente restate con una parte di voi stessi inerti rispetto all’esperienza, ma con le altre parti di voi reagite sempre e comunque. L’importante è che quella parte di voi che resta inerte osservi come voi reagite.

D - Esatto, ci deve essere la reazione, altrimenti non c’è l’oggetto dell’osservazione. Cosa osservo, se non ho avuto una reazione?

La vibrazione deve attraversarvi in circolo, quindi per forza di cose deve essere così!

D - Quindi, in sostanza, se io do un cazzotto a uno allora io subito osservo questa cosa: «Ho dato un cazzotto», dopo di che il discorso è chiedersi: «Perché gliel’ho dato?». Il problema mio è che scatta subito il giudizio: «Ecco, ho sbagliato a dargli un cazzotto» ecc. In realtà può anche partire il giudizio, l’importante è poi osservarlo, perché anche quello è un elemento di conoscenza, poi, alla fin fine.

Quando tu dai un cazzotto a una persona, cosa fai? Osservi che hai dato un cazzotto alla persona. Punto e basta. Sul momento non ti fai nessun elemento di giudizio sulla base di quello che hai compiuto (giusto?); poi però, chiaramente, c’è la reazione di quello che hai fatto e allora cosa succede? Succede che ti rendi conto che c’è un motivo per cui hai dato quel cazzotto; questo motivo è un motivo tuo, principalmente è una reazione tua; allora quale può essere questo motivo?
Può essere qualche cosa dell’altro che si è riflesso in te e ti ha fatto reagire; può essere una mancanza tua e, per scusare il tuo comportamento, hai reagito aggressivamente, può essere che l’archetipo sociale dice che quando uno ti dice quella cosa devi reagire aggressivamente, ad esempio. In tutti questi casi che ho citato, comunque sia, c’è qualcosa di te che si è riflesso all’esterno e che è ritornato in te provocando la reazione del cazzotto.
Osservando passivamente tutto questo sommovimento, tu puoi arrivare a comprendere cos’è che ha mosso il tuo comportamento; cosa c’era … non dico di giusto o di sbagliato, ma cosa c’era alla base che spingeva il tuo comportamento; quindi, è un restare immobili all’interno del proprio movimento.(Scifo)
Creature, serenità a voi.
Cosa resta ancora da dire dopo i fiumi di parole che vi abbiamo fatto pervenire in questi tanti anni di nostri interventi?
Probabilmente ormai possiamo soltanto fare ciò che in questi decenni non avete mai fatto quasi tutti voi – forse per trascuratezza, forse per le problematiche che coinvolgono indubbiamente questo momento della vostra tormentata esistenza all'interno del piano fisico – ovvero ripensare a quanto vi abbiamo detto della costituzione della Realtà e trarre dagli elementi che vi abbiamo messo a disposizione, le conseguenze che un tale castello filosofico, certamente molto complesso, porta con sé.
Alcuni di voi non trovano ancora risposta a delle domande che si pongono, come ad esempio chi siamo noi in realtà e come e per quale motivo è stato possibile che intervenissimo presso di voi per tutti questi anni.
In realtà vi dico che tutte le risposte vi sono ormai state date, magari non in maniera sempre palese e diretta ma, certamente, come ovvio risultato logico di quello che vi abbiamo proposto nel tempo.
Purtroppo, ahimè, sappiamo che la logica non è sempre il vostro forte e che metterla in atto può risultare uno sforzo intellettuale di una certa intensità, e siamo consapevoli (e lo sarete anche voi, immagino!) che sforzarvi non è mai stato il vostro punto di forza ma che tendete ad accontentarvi di avere la pappa pronta, più subendo che partecipando, così come accade troppo spesso anche nella conduzione delle vostre vite.
Per questo motivo - dal momento che, oltretutto, con il prossimo intervento termineremo anche di dare risposta ai vostri ultimi quesiti – abbiamo deciso di dedicare il tempo che ci rimane proprio per farvi toccare con mano quante e quali conseguenze è possibile trarre dalla rappresentazione della Realtà che vi abbiamo descritto in questi anni. (Scifo)

“Il tempo che ci rimane...”.
E già, amati figli nostri, i granelli di sabbia della clessidra che scandisce la possibilità dei nostri interventi stanno per esaurirsi, in concomitanza con i quarantanni di esistenza del nostro rapporto d'amore tra noi e voi, e con il mese di luglio tutti noi ritorneremo nell'ombra da cui siamo momentaneamente usciti.
Questo significherà la fine del Cerchio?
Vedete, miei cari, il Cerchio è un simbolo e, in quanto tale, avrà forza ed esistenza fino a quando qualcuno tra voi lo renderà valido non tanto con i suoi pensieri e il suo ricordo, quanto per ciò che esso ha scritto dentro di voi e, come sempre abbiamo detto, fino dal principio del nostro venire tra di voi, se il Cerchio sarà e continuerà ad essere utile anche solo per uno tra voi, aiutandolo a percorrere più fattivamente il suo percorso evolutivo, questo darà ragione e motivazione della sua creazione.
Vi abbraccio con affetto e che la pace sia con tutti voi. (Moti)
view post Posted: 15/11/2023, 14:27 Relazione: Cominciare da poco e da vicino (2005) - Do Ut Des - Do affinché tu dia
Mentre inizio a scrivere quella che ritengo essere la versione definitiva del “compito in classe” che mi è stato affidato, la mia gattina Briciola mi si è seduta accanto, a contatto con la mia gamba sinistra, ed adesso mi sta guardando con gli occhi socchiusi; anche lei sembra essere venuta a conoscenza del tema che mi sto arrovellando a svolgere, e mi ricorda che pure lei fa parte di quel particolare del Grande Disegno, in cui la mia attuale esistenza è stata chiamata a partecipare con responsabilità.
Mi osserva con sospetto mentre accendo una sigaretta, temendo che le soffi il fumo negli occhi, come talvolta faccio per indispettirla; in tal caso, si allontana con aria di sufficienza, meditando sulla stupidità umana.
In questa occasione preferisco non farlo, per non spezzare questo piccolo momento magico che la sua compagnia mi sta donando.
Ho finito di leggere da poco la relazione del precedente do ut des della nostra cara Giuliana, e mi sono reso conto di come tutti i temi, che alcuni di noi sono stati chiamati a svolgere, siano tra loro legati da un filo logico, per cui questa mia relazione trova le basi in quanto è stato affermato nel precedente incontro, con oggetto di riflessione il tema “è il suo karma”.
Il karma è la realtà, ha ricordato Scifo, tutto è correlato perché è “uno”; in termini di divenire, la realtà appare essere un immenso processo di cause ed effetti.
Chi di noi non si sarà soffermato a contemplare il cielo stellato in una notte limpida, e non avrà avvertito un senso di smarrimento alla constatazione di quanto poco siamo in relazione alla vastità dell’ universo.
Poi segue la reazione dell’Io, che afferma che il solo atto del nostro camminare modifica la velocità di rotazione della Terra, e la Terra coinvolge il sistema solare, e poi la galassia cui il sole appartiene, e la galassia interferisce con il rimanente del cosmo … Ma l’effetto è così irrilevante, che non ha senso guardare così lontano ed illudersi di essere determinanti oltre un raggio di azione ristretto; avere una idea del Grande Disegno può essere utile solo per comprendere come il nostro particolare debba armonizzarsi con tutto il rimanente.
“Il particolare di cui fai parte, non lo disegni solo tu”, sembra ricordarmi la gattina, dopo che improvvisamente si è alzata, ha inarcato la schiena, fatto un giro completo su se stessa, per poi tornare nella posizione iniziale.
“Senza gli altri voi non siete nulla”, ci ha ricordato infatti Scifo.
Quale delusione per il nostro Io, soprattutto se parliamo di un figlio unico, quale io sono, e che sempre si è sentito a suo agio senza la concorrenza di alcun fratello, e con la predisposizione ad isolarsi, in compagnia solo di “elevati” pensieri, a ragionare dei massimi sistemi.
L’insegnamento ci ha ammonito, che a noi non basta dedicare la nostra esistenza per possedere soltanto conoscenza, che appaga la mente, ma che può essere anche di nessuna utilità per l’evoluzione della coscienza. Quante volte non ci accorgiamo di un fatto, di un nostro comportamento sbagliato, di un nostro limite, fino a quando un’altra persona non ce lo indica.
Senza uno specchio, non ti puoi vedere; puoi avere soltanto un concetto di te stesso, ma non puoi sapere quanto questa immagine che ti sei cucita addosso sia aderente alla realtà, fino a quando non osservi le reazioni degli altri al tuo agire.
L’Io cerca, nei rapporti. di individuare quale parte di un altro può catturare e trattenere; anela a circondarsi di maestri elevati, di persone splendide, cerca nel compagno la persona unica che lo può completare; non ha interesse ad utilizzare il rapporto come opportunità per una mutua crescita, tanto più costruttivo quanto più il rapporto è stretto, continuo e duraturo.
L’Io si strugge nel desiderio di essere apprezzato e soprattutto amato dagli altri; se gli altri mi apprezzano e mi amano, l’Io pensa, vuoi dire che sono meritevole, quindi una brava persona e potrò volermi bene.
Un tentativo di amare se stesso tramite gli altri, mentre l’insegnamento ci indica un cammino inverso, nell’accettazione serena dei propri limiti e dei limiti che la realtà impone alla nostra esistenza.
Vorrei adesso analizzare la frase “cominciare da poco e da vicino”.
Ho interpretato la prima parte, “cominciare da poco”, in termini di aspettative personali.
Dal punto di vista del corpo, cioè dall’insieme corpo mentale, astrale e fisico, l’esistenza, questo nostro viaggio limitato nel tempo e nello spazio, non ha senso. La nostra mente riesce ad impossessarsi solo di una parte trascurabile dello scibile umano, le sensazioni piacevoli sono di breve durata, il corpo fisico si ammala e decade rapidamente; infine la morte ci strappa gli affetti e quanto abbiamo accumulato con tanta fatica.
Il corpo cerca di appropriarsi di “molto”, sotto ogni punto di vista, spinto proprio dalla paura di poterne perdere gran parte, con l’illusione che almeno qualcosa di lui rimanga.
Dal punto di vista dell’anima, cioè del corpo akasico, questo nostro viaggio prende un aspetto ben diverso, in quanto ciò che ottiene è duraturo, e non conosce la paura di perdere anche la più piccola parte di quanto ha acquisito.
Se infine consideriamo l’insieme, composto dal corpo akasico e dai cosiddetti corpi inferiori, e ne osserviamo come interagisce con le esperienze che gli offre la realtà, con le scelte che gli propone, vediamo nascere l’Io, un Io mutevole, se asseconda l’amore che unisce, oppure la paura che tiene separato.
Se l’Io è sensibile, e non ostacola il fluire continuo di energia che proviene dal corpo akasico, e lo indirizza a cercare l’unione con la realtà; se l’Io è consapevole, che in ogni più piccolo aspetto dell’esperienza può trovare il dato mancante alla comprensione ricercata dalla propria coscienza, non ha bisogno di ricevere dall’esterno stimoli eclatanti, di agognare grandi gratificazioni.
E’ dalla capacità interiore di reagire con intensità agli stimoli esterni, che nasce l’apprezzamento per quanto si riceve. Allora si può ritrovare ovunque il contatto con Dio, aumentare il proprio sentire, emozionandosi alla constatazione di come il miracolo della vita permei ogni più insignificante recondito della realtà, sia pure rappresentato da un filo d’erba che cresce in un anfratto di un muro, o da questa gattina che adesso mi sta leccando la mano sinistra.
Ho poi interpretato la seconda parte, “cominciare da vicino”, in termini di rapporti personali.
Nella precedente seduta, era stato parlato di come i singoli karma di tutti i nostri compagni di viaggio, anche se diversi da persona a persona, anche se nella consapevolezza che ognuno è impegnato a cercare il proprio Sé ed ad evolvere, per il solo fatto di viverli insieme più o meno intensamente, diventano una preziosa opportunità per interagire, e quindi aiutarsi reciprocamente nella propria comprensione.
Vorrei però esporre, per non rimanere sul generico, del mio modo attuale di interpretare il legame che sento con mia moglie e con i componenti del Cerchio.
A Settembre di questo anno, il mio matrimonio con Gabriella raggiungerà i 35 anni. Qualcuno ha osservato che le coppie che durano, danno la sensazione di essere dei “complici”; mi piace molto questa definizione, perché sottintende un segreto condiviso : permettere all’altro di essere quello che è (chi ci conosce, sa quanto siamo diversi), che segua la propria strada della personale evoluzione, senza volersi trasformare in una copia di se stessi.
E’ indubbio che alla base di una unione duratura deve sussistere un karma positivo; ho però anche visto tanti matrimoni naufragare anche dopo decenni di convivenza, con grandi problemi per i figli. Anche il mio matrimonio ha corso questo rischio una decina di anni fa, essenzialmente per mia colpa, ed ho fatto soffrire sia mia moglie che mio figlio.
Ero così tormentato e chiuso nell’orgoglio del mio Io, che non mi interessava più niente di loro, ed ero deciso ad arrivare alla separazione. Poi un giorno ascoltai, a sua insaputa, mio figlio dire: “qualunque cosa faccia, rimane sempre mio padre”.
All’udire quelle parole di affetto, fu come se mi risvegliassi all’improvviso da un incubo, e vidi tutte le miserie del mio egoismo. Posi termine a tutte le mie pazzie, consapevole che la prima cosa che dovevo sacrificare era l’orgoglio, e dovevo rendermi disponibile a non reagire alle loro eventuali recriminazioni.
Dopo quella scelta, venni a contatto con l’insegnamento, ed ho compreso più tardi che niente viene dato gratis, senza che in precedenza non sia stato meritato.
Mi fu data la possibilità di conoscerne quella parte filosofica, che appaga il desiderio della mente di conoscere la realtà, ma soprattutto quella parte che appaga l’anima e dona serenità, con la consapevolezza dell’Io e dei suoi meccanismi, con l’accettazione dei propri limiti e dei limiti che attribuiamo a chi ci circonda.
In modo analogo, per quanto riguarda i rapporti con gli amici del Cerchio, ritengo che possa sempre valere il concetto di “complicità”, nell’amore che condividiamo per questi insegnamenti; e questo non è perché desideriamo tenerlo nascosto a chi è al di fuori di questo gruppo, ma perché è facile accorgersi che per molte persone non ha un minimo di interesse.
Presuppongo che ognuno di noi se lo sia in qualche modo meritato, ed è questo l’elemento che ci accomuna, anche se siamo così diversi a livello di corpi inferiori e di esperienze vissute.
La nostra conoscenza di una parte limitata della Verità non è certo un fiore all’occhiello da esibire, ma ci ha reso sensibili alle domande che le Guide ci pongono, e reso consapevoli delle nostra responsabilità di spargere intorno a noi, nell’ambito della nostra limitata sfera di influenza, quel poco di amore incondizionato che il nostro Io è diventato capace di offrire.
Per concludere, spero di aver avuto la capacità, nella trattazione di questo tema così apparentemente semplice, di avervi comunicato come l’esperienza di questi insegnamenti, milioni di parole per illustrare una realtà diversa e più complessa di quanto appare, abbiano trasformato il mio Io in modo tale che adesso, paradossalmente, ho la sensazione dì essere proprio “più semplice”.
Ringrazio tutti per la vostra presenza ed attenzione.
view post Posted: 4/11/2023, 18:37 Nuovo libro sullinsegnament0 del Cerchio - Comunicazioni e condivisioni
Gi amici del Sentiero Contemplativo hanno preparato un volume sullinsegnamento del Cerchio, facendo, secondo noi, un otimo lavoro, per cui li ringraziamo. Per chi fosse interessato alleghiamo quanto scritto in proposito nel sito del Sentiero contemplativo.

Come la coscienza genera la realtà personale
A ottobre uscirà il libro: Come la coscienza genera la realtà personale, una sintesi dell’insegnamento filosofico del Cerchio Ifior, curato da Leonardo Properzi e pubblicato da “Il Sentiero contemplativo”.
Il libro sarà di circa 270 pagine, non avrà un prezzo di copertina ma accetteremo dei contributi.
Qui si può consultare il PDF dell’indice del libro: https://bit.ly/45ZhMsG
I testi sono propri del Cerchio Ifior, il curatore si è limitato ad assemblarli.
Coloro che volessero prenotarlo (questo ci aiuterebbe permettendoci di stamparne un numero relativamente preciso) possono farlo scrivendo a: [email protected]
view post Posted: 4/9/2023, 10:32 Carattere, personalità e osservazione passiva - 1 - Piccoli corsi
Creature, serenità a voi!
Dopo aver parlato per tomi e tomi e tomi (nel linguaggio più moderno: per libri, libri e libri) è giunto il momento di fare qualche precisazione su quanto già è stato detto in passato, in modo tale che possa tornare utile a chi non ha compreso quello che c’è stato in precedenza o a chi è in procinto di accedere a quella rigogliosa fonte di messaggi che in tutti questi anni vi abbiamo portato. Io, quindi, questa sera, volevo parlarvi di «carattere» e di «personalità».
Prima, secondo una datazione molto semplice, molto immediata, diciamo utile per quelli che possono essere i neofiti, quelli appena arrivati a contatto con i nostri discorsi, la nostra presenza, la nostra partecipazione, e poi con qualche elemento aggiuntivo per quelli che da più tempo – come quasi tutti voi – seguono l’Insegnamento e magari potrebbero … (io sono sempre ottimista!) porsi delle domande particolari rispetto a questi elementi arrivati in passato, così vecchi nel tempo, e poi non più confrontati con i nuovi concetti pervenuti nelle fasi successive dell’Insegnamento.
Allora: «carattere» … Cosa si può intendere per «carattere»? Cosa intendiamo noi per «carattere»? Noi, per «carattere», intendiamo tutta quella parte fisiologica dell’individuo che costituisce la base dell’individuo stesso incarnato. Vi è chiaro questo punto?
No. Allora entrerò più in profondità. Il vostro carattere da cosa nasce? Nasce dalle necessità di esperienza che dovete fare; giusto? Allora, perché il vostro carattere sia adeguato alla necessità della vostra esperienza, è necessario che venga strutturato in un certo modo. Giusto? (Non ve lo chiederò più perché, tanto, lo dico io, ed è giusto senz’altro!)
Come è possibile che questo accada? In che maniera viene fatto sì che ad ogni persona corrisponda il carattere adeguato al tipo di esperienza che deve condurre? Questo avviene attraverso vari elementi; prima di tutto attraverso la parte fisiologica dell’individuo, ovverosia – in particolare, in modo specifico – attraverso la stessa catena genetica tipica dell’individuo. Ecco, quindi, che gran parte delle caratteristiche del vostro carattere sono scritte nel vostro genoma, appartengono alla vostra catena genetica, sono attivate all’interno della vostra catena genetica e costituiscono la base sulla quale voi potrete lavorare per portare avanti le vostre esperienze. Così va meglio? Chiaro?
Naturalmente tutto questo a cosa è collegato? Non può essere collegato ad altro che a quello che è il vostro sentire; perché, indubbiamente, il vostro sentire è quello che ha la necessità di farvi avere le esperienze che vi servono per poter comprendere e completare il quadro che ha messo gradatamente a termine nel corso delle varie incarnazioni.
Ecco quindi che, indubbiamente, fra catena genetica (quindi proprio fisiologica, fisica dell’individuo) e il suo sentire (quindi la parte più alta dell’individuo stesso) vi è senza dubbio un collegamento molto stretto, molto fine, molto preciso; ma su questo non vorrei entrare in argomento perché ci porterebbe in discorsi troppo complicati per sedute semplici e anche abbastanza brevi come queste, però penso che l’idea vi possa essere entrata nelle testoline (come dico di solito io). D’accordo, comunque, su questo?
Quindi, ognuno di voi – per farla breve – ha un suo carattere particolare, un carattere che in qualche maniera potrebbe essere associato a una sorta di imprinting dell’individuo, una sorta di base dell’individuo sulla quale l’individuo poi costruirà la propria vita. Questi elementi tipici dell’individuo sono elementi che difficilmente possono essere cambiati.
D’accordo? Proprio per il fatto di essere inscritti geneticamente, proprio per il fatto che rispondono a determinate esigenze da parte del corpo akasico, queste caratteristiche ben difficilmente – a meno di improvvise comprensioni – possono veramente essere modificate.
Pensate un attimo – quando avete un attimo di tempo – a quali conseguenze questo può portare e a quali ragionamenti può portare ragionare in questi termini su quello che è il vostro carattere.
Però questo carattere, il carattere di cui stiamo parlando fino adesso, cos’è? Non è come voi vi manifestate, è semplicemente la base che voi usate, lo strumento, il mezzo, i vari termini con cui vi affacciate alla vita che conducete sul mondo fisico.
Il vostro sentire indirizza l’attivazione di determinati geni in maniera tale che l’individuo che si incarnerà abbia una predisposizione verso determinate esperienze insita proprio nella sua parte più intima, più interiore (dal punto di vista fisiologico) che lo condurrà ad essere più portato verso certe esperienze che verso altre.
A questo punto entra in gioco, però, qualcosa che influisce sul carattere e in qualche maniera trasforma il modo di rappresentare se stesso all’interno del mondo fisico: questo è quello che noi definiamo “personalità”, ovvero la manifestazione del carattere all’interno del mondo fisico. Così è molto semplicistica la cosa, allora cerchiamo di ragionare – per chi è un po’ più dentro nell’Insegnamento – sul perché e sul percome questa personalità si va formando. Voi, facilmente, direte: “la personalità di una persona si va formando nel tempo a seconda di come sono i genitori, di come sono gli amici, di come si trova a contatto con determinate persone invece che con altre, e via e via e via; e questo concorda perfettamente con quelle che sono le conoscenze psicologiche studiate e approfondite negli anni dai vari psicologi; quindi l’influenza dell’ambiente sul carattere delle persone, l’influenza delle esperienze fatte sul carattere delle persone, l’influenza persino della conoscenza delle cose studiate o imparate nel corso della vita, dal punto di vista anche semplicemente culturale, che contribuiscono a formare il tipo di personalità dell’individuo; però ricordiamoci che, comunque sia, è sempre collegato e legato al carattere di base dell’individuo. Vi sembra chiaro?
Certamente vi sono altre influenze; così come, per quello che riguarda il carattere, si potrebbe pensare che vi è l’influenza di quello che noi abbiamo chiamato «imprinting», direttamente sulla formazione del carattere in quanto, essendo la base della costituzione dell’individuo in se stesso, certamente porta una traccia di quelle che sono le prime esperienze non umane all’interno delle esperienze umane (dell’individuo quando compie le esperienze umane) – allo stesso modo vi sono degli elementi esterni che influenzano la costituzione della personalità. Non è solamente una faccenda che riguarda l’interiorità dell’individuo, ma è una faccenda che riguarda l’interscambio tra l’individuo e la realtà.
Ora, indubbiamente, voi dovreste sapere a menadito la risposta su cosa sono questi elementi che contribuiscono a modificare o a modulare l’interscambio tra individuo e realtà; immagino che lo sappiate così, immediatamente.
Qualcuno ha sussurrato, non molto coraggiosamente, «gli archetipi», che però è un pochino troppo generico: gli archetipi transitori o i permanenti? Quali sono più importanti per la costituzione della personalità? Diciamo che, senza ombra di dubbio, la personalità dell’individuo, facendo capo all’ambiente che l’individuo frequenta, è più facilmente direttamente influenzata da quelli che sono gli archetipi transitori, in quanto è agli archetipi transitori che l’individuo incarnato, con la sua personalità, le sue azioni, col suo muoversi all’interno della realtà del piano fisico, fa riferimento. Certamente, c’è anche una certa parte di riferimento a quelle che sono le trasposizioni sul piano sociale umano degli archetipi permanenti – tipo la fratellanza universale, l’amore, e via e via e via e via – però diciamo che sono concetti talmente poco comprensibili nella realtà quotidiana che quelli che hanno più forza di produrre influenze e modifiche all’interno della personalità dell’individuo sono proprio gli archetipi transitori; infatti sono gli archetipi transitori quelli che formano tutte le sfumature di ogni personalità e le permettono di interagire – come dicevo prima – all’interno delle esperienze che vive. Vi sembra chiaro il discorso?

D - Scusa, Scifo: archetipo transitorio che peraltro anch’io contribuisco a formare, cioè c’è uno scambio di informazioni che influiscono sulla personalità. Ora, la mia personalità crea quel tipo di archetipo transitorio o lo distrugge. Giusto?

Non proprio; diciamo che non è la tua personalità ma è un insieme di più personalità. Tu contribuisci alla creazione di questi archetipi, certamente; sì.
In realtà, se ci pensate bene, non è altro che un ciclo; uno dei tanti cicli di cui ho sempre parlato. Anche questo: il passaggio tra l’individuo e l’archetipo transitorio e ritorno all’individuo forma alla fin fine un ciclo che poi, alla fine, si sposta, con l’abbandono dell’archetipo transitorio.
Ecco, dicevo: adesso che vi ho dato la base su cui ragionare, visto che siete tutti così bravi, attenti e intelligenti, sarebbe bello che faceste delle domande, in modo tale da poter chiarire quelli che possono essere eventuali dubbi, tenendo presente che magari questi dubbi verrebbero anche a persone che sono meno addentro di voi in quello che è stato detto; quindi non è necessario far domande solo sugli archetipi, ma anche su cose molto più semplici. Ad esempio, il nostro amico Pietro potrebbe fare domande che riguardano più le persone che si accostano all’Insegnamento, così com’è lui.

D - Sì, una domanda di chiarimento: se io nasco con un certo «carattere», sì… Ecco, in pratica però io so che quel mio carattere va anche un po’ contro quello che l’Insegnamento dice di comportamenti un po’ sbagliati, però hai detto che difficilmente è cambiabile il mio carattere... Mi puoi spiegare un momento bene? Perché io nasco per queste esperienze, quindi il mio carattere mi spinge a fare certe azioni però io mi sento di cambiare un po’, perché dico: «Cavolo, sto sbagliando!» …

Certamente; ma perché, vedete, considerate che voi avete questa base che è più o meno fissa, tranne (come se ricordate l’ho anche detto) tranne nel momento in cui voi avete una comprensione e allora, a quel punto, cosa succede? Succede che la comprensione si iscrive nel corpo della coscienza, la coscienza ha capito qualche cosa, di conseguenza il sentire si modifica, il sentire è quello che influenza il vostro DNA e, quindi, avendo compreso qualche cosa, anche qualche gene nel vostro DNA smetterà di funzionare o funzionerà diversamente; e quindi ci sarà una trasformazione del carattere, anche se leggera. Però questo avviene soltanto quando c’è qualche comprensione; se non c’è qualche comprensione il carattere vostro continuerà ad essere quello che avete all’inizio per tutta la vita. Quello che cambierà, invece, senza ombra di dubbio, sarà nel corso del tempo la vostra personalità; perché, sulla base del carattere che avrete, le influenze che voi avrete, i ragionamenti che farete, i pensieri, le emozioni, i desideri e tutto l’insieme degli elementi che cercheranno di influire su di voi e di aiutarvi a fare esperienze, e via dicendo, porteranno a trasformare la vostra personalità agendo in maniera diversa su quello che è il vostro carattere; cosicché il vostro carattere si manifesterà in maniera diversa. Voi, magari, non sarete cambiati, perché il vostro carattere non sarà interamente cambiato, alla fin fine, però il vostro comportamento senza dubbio sarà diverso.
E questo è un punto importante, perché, tutto sommato, può dar ragione al fatto che noi diciamo che molto spesso l’importante è che voi agiate, facciate, perché significa che fornite elementi non soltanto al vostro sentire ma anche alla vostra personalità; quindi voi potrete cambiare il vostro modo di comportarvi, all’interno magari aiuterete qualcuno non tanto perché sentite di aiutarlo, perché il vostro carattere non l’ha ancora compreso, ma perché dovete farvi belli agli occhi degli altri; ciò non toglie però che, per poter portare avanti le vostre esperienze, i vostri rapporti con gli altri saranno governati da come voi vi comportate con gli altri, non dal vostro carattere; quindi è importante che voi cerchiate di fare, secondo la vostra personalità, quello che sentite, che ritenete meglio e più giusto fare. È un discorso complicato, questo.

D - Tornando al discorso del cambiamento del carattere, pur essendo vero che cambia qualche cosa, però, in effetti, … lo posso vedere guardando a ritroso come è stata la mia vita – però è talmente, magari, così, per sfumature o per gradi, che alla fin fine è come se non avvenisse, non è percepibile gradatamente questo tipo di cambiamento del carattere.

Non sempre, non sempre; ma facciamo un esempio lampante: supponiamo che uno di voi abbia, come carattere, come elemento tipico del carattere, una forte predisposizione alla pittura. Potrebbe accadere, questo è un elemento tipico; si dice sempre: «La tal persona è predisposta alla musica, o alla pittura, o a scrivere …» o quello che volete voi. Ora, questa persona sarà quindi portata verso quel tipo di esperienza artistica, dovrà affrontarla per forza di cose perché quella dovrebbe essere la strada, scritta già geneticamente, guidata dal suo sentire; dovrà essere la strada da percorrere per portare elementi al suo sentire. Il carattere che si formerà su questa spinta sarà più o meno tormentato, più o meno fluido, più o meno felice, più o meno contento, e potrà anche avvenire che, alla fine di una serie di esperienze fatte, l’individuo riesca a mettere da parte questa spinta verso il desiderio di dipingere. Questo perché potrebbe accadere? Potrebbe accadere che quel tipo di esperienza gli ha insegnato tutto quello che doveva insegnargli e, quindi, non ci sarà più la spinta forte da parte del sentire che influenzerà il suo carattere al punto da indurlo a fare quell’esperienza in questo campo. …. Cosa succede a questa caratteristica? Questa particolarità del suo carattere sparirà? Niente affatto; questa caratteristica sarà semplicemente smorzata, tanto è vero che potrà poi venire alla luce se soltanto l’individuo vorrà che venga alla luce ancora, avrà interesse per qualche altro motivo per farla venire alla luce.

D - Posso fare un esempio: a me è successo con il calcio una cosa del genere… diciamo che la mia gioventù è stata caratterizzata dalla passione forse estrema per quanto riguarda il calcio, tanto è vero che l’ho praticato a livello agonistico, poi ho fatto anche l’allenatore e, a un certo punto, adesso, guardo le partite e mi annoia, a meno che non ci sia qualcosa che mi piace dal punto di vista estetico, tipo come tecnico o qualcosa di particolare che, allora, mi appassiona lo stesso.

Ciò non toglie che se tu ti trovi in un campo con due ragazzi che giocano a pallone e ti chiedono di giocare, tu non ti tirerai mai indietro!
Quindi significa che non hai perso la spinta; semplicemente che quella spinta non ti è più primaria e necessaria, indispensabile, come era prima. Quindi, un lato del tuo carattere che continua ad appartenerti malgrado la tua personalit non lo manifesti pi nella stessa maniera, con la stessa urgenza e lo stesso bisogno di prima. Per questo non significa che ci sia stata una modificazione del carattere!
Queste particolari caratteristiche del carattere – lo ripeto – sono smorzate, sono ancora presenti ma sono meno attive di quelle che erano prima; non soltanto, ma diventano una sorta di «dono» a disposizione dell’individuo che, in caso di necessità e di bisogno (magari per aiutare gli altri, per convincere gli altri a fare qualche cosa o per indurre gli altri essendo di esempio, ecc.) può richiamarle, in modo tale da metterle in atto volontariamente e questa volta non più contro il suo desiderio, contro la sua volontà. Quindi, ciò che prima era una spinta quasi cieca a fare esperienza in qualche maniera, diventa poi invece un dono per poter essere usato utilmente per aiutare possibilmente se stessi o gli altri, principalmente gli altri.

D - Ci sono degli elementi per poter capire cosa è carattere e cosa è personalità?

Eh, gli elementi sono insiti in quello che abbiamo detto fino adesso! Il carattere è qualche cosa che difficilmente puoi cambiare; la personalità, invece, è molto mutevole, così come è mutevole l’Io. L’Io e la personalità sono strettamente legati; il carattere e l’Io non sono così strettamente legati come può sembrare, in quanto l’Io è mutevole come è mutevole la personalità, ma il carattere non è mutevole. Se è mutevole, è mutevole soltanto in frazioni, in qualche piccolo elemento; è molto più stabile di quello che può essere l’Io e di quello che può essere la personalità.

D - Scifo, se per esempio uno nel suo carattere ha … diciamo un senso dell’orgoglio, oppure della vendetta, del rancore, queste cose qui, e molti dicono che ha un brutto carattere, può modificarsi o rimane sempre così?

Ma, vedi, anche in questo caso, quelli che tu hai citato sono più elementi di personalità che di carattere; allora forse qua non sono stato bravo a spiegarmi io (sono gentile, questa sera!). Dovete considerare il carattere come qualche cosa che vi dà le spinte a fare le esperienze; quindi qualche cosa che, in se stesso, non è né negativo né positivo, non ha una connotazione particolare; è semplicemente una spinta che indica una via, in quale direzione muovervi per fare esperienze. Come poi voi vivete, interpretate l’esperienza all’interno del piano fisico, tutto questo non è più «carattere», ma è «personalità». Quindi i rancori, la vendetta, … il rancore tra fratelli, il padre che ce l’ha col figlio, e via e via e via, sono tutte questioni di personalità e non di carattere.

D - Si potrebbe dire che il carattere prende il sopravvento dall’istinto, praticamente; cioè non è più istinto ma diventa carattere; quello che dà la spinta all’individuo a muoversi, a fare determinate azioni, diciamo?

Mah, diciamo che ci può essere una certa somiglianza tra il concetto di carattere e di istinto; la differenza è che l’istinto non viene dalla catena genetica; l’istinto è qualche cosa che riguarda di più le esperienze fatte nel corso delle vite extraumane, principalmente; e che, essendo ormai stabilizzate all’interno della coscienza dell’individuo, costituiscono una base per portare poi alla costituzione del carattere. Ecco, se interpretiamo l’istinto come una prima forma rudimentale di carattere, posso essere d’accordo con te.

D - Cosa succede quando il tuo carattere ti dice di fare una certa cosa mentre l’archetipo transitorio – cioè lo schema della società in cui vivi – dice di non farla, o di farne una diversa? La personalità come reagisce di fronte a spinte contrapposte?

Lì dipende dal tipo di spinta e quali sono gli elementi del carattere, perché non potete pensare che il carattere abbia un elemento, gli sono tanti e interagiscono tra di loro, al punto tale che l’individuo, con lo stesso elemento-base caratteriale poi ha invece un carattere completamente diverso da un altro. Allora dipende dall’insieme di queste caratteristiche del carattere dell’individuo e dall’archetipo transitorio che l’individuo sta seguendo in quel determinato momento. Ci sarà l’individuo che si ribella all’archetipo, ci sarà l’individuo che invece seguirà ciecamente quello che il carattere lo spingerebbe a fare, ci sarà l’individuo che cercherà di mediare tra le due spinte. Questa è una risposta sempre individuale, non è mai univoca; e d’altra parte non può che essere così perché il bisogno di esperienza è sempre individuale; è diverso per ognuno di noi.

D - Però potremmo dire che la cosa giusta sarebbe cercare di far prevalere il proprio carattere rispetto a un archetipo transitorio; al di là che uno ci riesca o no?

Ecco, questo è un altro aspetto forse interessante da chiarire un attimo. Quale sarebbe il comportamento migliore per rendere utile il carattere? Bene; la cosa migliore da fare per rendere utile il carattere è di far sì che l’elemento (e parliamo di un elemento solo, anche se la cosa è più complessa, ovviamente) che quell’elemento particolare di carattere diventi inattivo; perché se diventa inattivo significa che si ha compreso. Giusto? Quindi, il modo giusto per comportarsi nei confronti del carattere sarebbe quello di fare le esperienze in modo tale che il corpo akasico comprenda e renda quindi non più urgente, non più pressante, la spinta di quel determinato gene che influenzerebbe il vostro comportamento, quindi anche la vostra personalità.

D - Quindi, Scifo, noi la partita, come incarnati, ce la giochiamo sulla nostra personalità, in pratica. E da lì poi, tutto a catena, va a modificare il carattere, la comprensione e via dicendo?

Certamente. Purtroppo, il problema è che ve la giocate con la vostra personalità ma anche con quella degli altri!

D - Certo. E da lì nascono tutte le nostre paure, il nostro non affrontare le esperienze; tutti i nostri dubbi e le incertezze che viviamo nella vita di tutti i giorni, in pratica.

Certamente. Poi, un’altra maniera per cercare di comprendere il proprio carattere sarebbe riuscire a comprendere, a chiedersi, a guardarsi negli occhi e dire: «Cos’è che io interiormente voglio davvero?». Lì, a quel punto, avete la possibilità di arrivare a comprendere qual è il vostro carattere. Comprendendo qual è il vostro carattere, saprete quali possono essere i vostri limiti … Ricordate quante volte abbiamo detto che è importante scoprire e riconoscere i propri limiti? Ecco, il vostro carattere, alla fin fine, se ci pensate bene, cos’è? È un limite, un condizionamento. Allora voi, riuscendo a fare quel lavoro, riuscireste a eliminare, a bypassare, a rendere inoffensivi quei limiti o quei condizionamenti che vi condizionano in una certa direzione, riuscendo invece a vivere la vostra vita, la vostra esperienza in maniera più libera. E qua ritorniamo all’osservazione, al «conosci te stesso», e via e via e via, che ormai avete sentito fino alla nausea!

D - Quando in psicologia parlano di disturbo di personalità o disturbo caratteriale …

Dicono una sciocchezza! Ma, sai, in psicologia ne dicono tante sciocchezze; anche perché bisogna considerare una cosa: ci sarebbe molto da dire in ambito psicologico per quello che riguarda l’interiorità dell’individuo, però si tratta di dire sfumature – prima di tutto – e bisogna anche pensare che ogni individuo è diverso anche dall’altro, quindi è difficile poter fare veramente una teoria psicologica per quello che riguarda l’interiorità che sia generalizzabile a tutto l’essere umano. Ora, le persone che si occupano di psicologia, secondo gli archetipi moderni stanno diventando veramente tante, tutte vogliono dire qualche cosa, tutte principalmente cercano di sbarcare il lunario, più che altro, e allora cosa succede? Succede che, per emergere dalla massa, avere una certa clientela o fare qualche cosa di diverso, attrarre le persone, incominciano ad andare un po’ fuori dal seminato e inventarsi le cose più strane di questo mondo pur di sembrare degli innovatori. Stiamo attenti a queste cose; in realtà (voi dovreste saperlo, perché ve lo abbiamo ripetuto per anni) l’unico insegnamento innovativo in ambito interiore è quello di conoscere se stessi.
Tutto il resto può essere poi, alla fin fine una schematizzazione, può essere utile in determinati casi, può servire a certe persone, e via e via e via, ma in realtà poi non è generalizzabile e ogni psicologo dovrebbe sempre tener presente che quello che sa della persona che gli sta davanti è sempre una piccolissima parte di come quella persona è veramente e, quindi, stare attento ai giudizi che emette; invece questa umiltà manca molto.
Con questo, non posso negare che – in particolare da quando il nostro amico Freud ha incominciato a parlare in maniera un po’ più articolata, un po’ più aperta (con tutti i suoi errori possibili e immaginabili) di alcuni di questi argomenti, la psicologia, la psicologia introiettiva, la psicanalisi, e tutti i vari rami che poi si sono dipartiti nella conoscenza dell’essere umano servono e sono serviti all’individuo per porre l’attenzione un po’ più a se stesso e un po’ meno all’esterno. Fino a una certa generazione; la generazione di adesso sta tornando leggermente indietro ma, maturando, ritornerà a guardare se stessa.

D - Scifo, nel corso della vita, nell’arco della vita, fra la giovinezza e la vecchiaia, si può immaginare che nella giovinezza la spinta del carattere sia più forte e man mano, andando avanti, la personalità prenda invece un po’ di più il sopravvento?

Direi di no; direi di no perché l’individuo in realtà – questo è bene che lo ricordiate – non vive la sua vita con il carattere, vive la sua vita con la personalità. Il carattere resta sempre in sottofondo, come qualcosa che costituisce il canovaccio su cui l’individuo costruisce la propria vita; però il modo in cui questo canovaccio viene adoperato all’interno della vita è quello tipico della personalità dell’individuo.

D - Però certe cristallizzazioni si formano più col passare del tempo.

Ma le cristallizzazioni sono tipiche della personalità, dell’Io, non del carattere!

D - Sì, no, ma nel momento in cui avviene una cristallizzazione e, come mi immagino che sia come una specie di crosta che impedisca alle istanze portate dal carattere di manifestarsi, di venire fuori con facilità. Magari mi sbaglio.

Hai perso la domanda, però.

D - No, mi sto chiedendo se quello che immagino è corretto, per cui, a un certo punto, … Perché, da quello che dicevi tu all’inizio, in teoria, diventando più anziani, …

No, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta, aspetta un attimo! … No no no, forse credo di aver capito, poi semmai mi dici se va bene … Allora, consideriamo la cristallizzazione: una cristallizzazione avviene quando? Quando non c’è una comprensione. L’individuo continua a non voler comprendere, continua a rifiutarsi di vedere la verità – cosa che fate tutti i giorni! – e a lungo andare questa diventa una cosa patologica, diventa un circolo chiuso di energie che girano all’interno dell’individuo e si ha la cristallizzazione, per cui questa idea, questa possibilità di comprensione che l’individuo non vuole riconoscere continua a girare su se stessa creando un vortice fastidioso che disturba poi tutta la personalità e anche tutta la fisicità, a volte, dell’individuo. D’accordo su questo?
Questo, però, riguarda sempre la personalità e la fisicità dell’individuo. Per quello che riguarda la cristallizzazione, questa cristallizzazione abbiamo detto è legata al tentativo di non vedere una propria verità (mettiamola così, in modo semplicistico) ma scoprire la verità risale a che cosa? Alla comprensione del corpo akasico; giusto? Quindi significa che il corpo akasico continua a rimandare questa comprensione perché arrivi all’individuo e si modifichi di conseguenza; l’Io rifiuta di vederlo e si crea la cristallizzazione.
Intanto, l’Io cosa fa? Continua, fin dalla nascita dell’individuo, a tenere attivi i vari elementi genetici che costituiscono il carattere dell’individuo, ma questa è un’altra cosa! Qua il carattere dell’individuo è quiescente o attivo, o lavora, o si dà da fare all’interno dell’individuo per tutta la sua vita, però l’influenza con il corpo akasico non va più in là; il corpo akasico semplicemente tiene attivi quei geni che vengono messi attivi per poter permettere all’individuo di avere quel tipo di carattere.

D - Ma prendiamo il caso di L., perché era un esempio semplice … Se lui non avesse in qualche modo compreso ciò che doveva comprendere dal calcio e non si fosse quietato, quindi, come conseguenza, per certi versi l’altra strada sarebbe stata che in questo momento e andando avanti sarebbe potuto diventare un patito, un maniaco che vede solo calcio, vede solo calcio, vede solo calcio, senza riuscire poi in realtà a placarsi, avendo un bisogno quasi da drogato di calcio …

Certo, però c’è una differenza essenziale con la cristallizzazione, perché la cristallizzazione «impedisce» di fare qualche cosa; invece, nel caso di Luciano, non gli impedisce di giocare a pallone. Lui ha sempre questa possibilità, la può mettere in atto a sua discrezione, a suo piacere; mentre invece, con la cristallizzazione, non riesce a mettere in atto niente perché gli blocca non soltanto quel tipo di funzione ma finisce coll’influire, con le sue vibrazioni, anche sugli altri elementi che compongono il suo corpo fisico, il suo corpo astrale e il suo corpo mentale, creandogli dei problemi generali.
La differenza principale sta proprio in quello che dicevo prima, ovvero: per quello che riguarda la cristallizzazione, il corpo della coscienza continua ad inviare questa comprensione, continua a operare perché questa comprensione finalmente rompa la cristallizzazione e arrivi alla consapevolezza dell’individuo; per quello che riguarda il carattere, invece, il sentire non fa altro che tenere attivi quei determinati geni, punto e basta.

D - Si potrebbe dire allora, che il fantasma o la cristallizzazione si forma perché la personalità non è al servizio del carattere?

No, anzi, direi al contrario. Sì, direi al contrario. La personalità è proprio al servizio del carattere che, a sua volta, è uno strumento del corpo akasico, poi, alla fin fine.

D - Perché spesso capita di osservare, magari solo perché è più facile osservarlo, nelle persone molto anziane che ci siano come delle fissità, per cui emergono lati di quello che noi chiamiamo carattere, ma a quel punto è personalità, più … più particolari, balzano all’occhio, sono meno sfumati, sono più intensi; e da quello che dicevi prima sembrava che in realtà, con l’andare avanti, la personalità si modellasse meglio.

Ma io penserei quasi l’opposto, tutto sommato. Secondo me, specialmente quando si va avanti con l’età, è molto più facile che sia il carattere a prendere il sopravvento. Se voi osservate una persona molto anziana (ne avete una in casa, qua, a vostra disposizione, se volete osservarla, quando volete, potete venire, ve la cedo volentieri!) potreste notare come certi elementi del suo carattere, tipo … che so … la furbizia, o tipo la golosità, e via dicendo, escono molto meno mascherati di come uscivano prima, quando la sua personalità era integra. Si manifesta, quindi, di più il carattere, la base caratteriale.
Diciamo che, tutto sommato, c’è molta minor influenza degli archetipi e dell’ambiente; che se continuano ad influire in qualche maniera, dando un modus vivendi all’individuo, anche se limitato nelle sue possibilità, che però, tuttavia, non interpreta più il carattere, diventa soltanto un’abitudine di reazione; mentre il carattere puro esce fuori appunto in quei momenti in cui manifesta determinate particolarità tipiche del carattere di quell’individuo, tipo – come dicevo – la furbizia, o la golosità, o la permalosità, o dell’aggressività, per esempio. Voi sapete quante persone anziane a volte diventano aggressive, no?

D - Adesso, con questi termini nuovi, non si può più parlare di mancanza di carattere, o poco carattere?

Eh no, è proprio un problema di personalità.

D - Quindi una persona che è in una condizione alterata con l’alcol o qualche altra sostanza, manifesta quindi il carattere?

No, continua a manifestare la personalità.

D - Ma nella stessa condizione dell’anziano, che perde il controllo?

No, è ben diversa, perché la persona in quel caso ha ancora tutto il suo carattere interagente, tutte le possibilità interagenti per comprendere, mentre la persona anziana, magari a una certa età, non ha più certe possibilità di comprendere.

D - Ma anche sotto l’effetto dell’alcol?

Anche sotto l’effetto dell’alcol, certo. Anche perché uno difficilmente resta 24 ore al giorno sotto l’effetto dell’alcol!

D - No no, ma io dicevo in quel momento lì, cioè se uno volesse far emergere questi aspetti del carattere che in qualche modo vengono sopiti da una serie di sovrastrutture, archetipi transitori e via dicendo.

Diciamo che, senza dubbio, alcol e sostanze stupefacenti particolari possono influire sulla percezione degli archetipi a cui si è collegati, questo sì; e quindi lasciar uscire come fossero il dottor Jeckyll e Mr. Hyde la parte più interiore, più caratteriale dell’individuo. Se voi pensare al dottore Jeckyll e Mr. Hyde potrebbe essere una fabulazione tra personalità e carattere; secondo voi qual è il carattere: Hyde o Jeckyll?
Il carattere non è né negativo né positivo; diventa positivo o negativo allorché viene interpretato dalla personalità all’interno del piano fisico. Allora, a quel punto, prende le connotazioni che gli archetipi a cui è collegato riferiscono a quel tipo di comportamento, che non è detto che poi siano giuste, ovviamente, eh!
Il carattere si manifesta nella personalità dell’individuo (giusto? Fin qui c’eravamo). È in quel momento che assume la connotazione di positivo o negativo, quindi come personalità, quando si manifesta come personalità, assumendo la connotazione di positivo o negativo a seconda del collegamento, dell’influenza che l’archetipo a cui è collegato dà al comportamento tipico di quella personalità; mentre invece il carattere in se stesso, la spinta del carattere in se stesso non è né positiva né negativa, è semplicemente una spinta.

D - Quindi, ricollegandola a un discorso che avevate fatto prima di chiudere il Cerchio, che noi potevamo collegarci ai nostri talenti (un discorso del genere, che adesso non ho ben chiaro) prima che l’individuo abbia la comprensione il carattere potrebbe in qualche maniera bloccare l’individuo, ma una volta che l’individuo ha avuto la comprensione, questo diventa un talento che, se si riesce a conoscersi abbastanza, può diventare positivo, un dono può diventare positivo?

Può essere usato coscientemente per cercare di usarlo nella maniera migliore.

D - Dobbiamo studiare bene questa cosa qua, perché l’altra volta mi era rimasto impresso questo discorso …

Sì, ma hai ragione, è una cosa interessante: voi riusciste veramente a rendervi conto di come è cambiato, non la vostra personalità, ma il vostro carattere nel corso degli anni, sapreste che avete una riserva di comportamenti che non adoperate più, che pure sareste ancora capaci di avere se voleste, che vi potrebbero aiutare in determinati momenti, quando magari non riuscite a fare qualche cosa.
Allora forse dire: «io però una volta ero capace di farlo, quindi non lo faccio più perché ho capito ma in questo momento mi verrebbe utile un comportamento di quel tipo e allora potrei anche vedere di cercare di metterlo in moto, volontariamente questa volta e sotto il mio controllo, non più allo stato brado». Ad esempio, per un esame di maturità sarebbe bello un comportamento del genere; no? Io decido che posso comportarmi in maniera tale da sapere tutto quello che c’è bisogno di sapere!

D - Con queste ultime precisazioni diventa più chiaro quel famoso discorso di Gneus: «E’ il carattere che forgia il destino, o il destino che forgia il carattere?».

Eh, vedete, mi fa piacere abbiate portato questo argomento perché è uno dei tanti argomenti che noi, nel tempo, abbiamo cercato di portarvi e che voi avete lasciato cadere!
E, come vedete, ci sarebbero state molte cose importanti da dire perché, senza dubbio, anche quanto detto stasera è soltanto superficiale, si potrebbe approfondire con miriadi e miriadi di casi; non so … il nostro amico, qua, per esempio, potrebbe approfondirne l’erotismo, visto che gli interessa così tanto, e tante altre cose che interessano; chi potrebbe parlare di musica, chi potrebbe parlare di poesia; sono tutti elementi che fanno parte sia del carattere che della personalità e su cui si sarebbe potuto, nel tempo, ragionare con una certa tranquillità e un certo interesse, a quel punto.

D - Il mio amore per il disegno e la pittura fa parte del carattere? Penso di sì, perché è una cosa che m’ha accompagnata da quand’ero bambina. Non ho mai imparato a disegnare a scuola, era una cosa …

Ah, un momento, scusa; una cosa vorrei chiarire: la spinta verso una determinata cosa – mettiamo giusto la pittura, come nel caso della nostra amica M.– non significa che lei sia una grande pittrice, significa che ha questa spinta! Non è per essere cattivo nei tuoi confronti, ma semplicemente volevo che capiste che il fatto che voi avete caratterialmente una certa spinta, non fa di voi immediatamente un Leonardo da Vinci! Significa che avete una predisposizione per quel tipo di cosa.

D - Come facciamo noi a far sì che la personalità riesca a esprimere …

La risposta è sempre la stessa. Diciamola in maniera laterale, invece che in maniera così diretta: con il «conosci te stesso»: per potersi esprimere nella maniera più limpida possibile è necessario che non ci siano elementi che turbano. Giusto? Perché non ci siano elementi che turbano bisogna che le altre spinte siano inferiori.
Perché le altre spinte siano inferiori significa che ci deve essere una certa comprensione, una certa consapevolezza, in modo tale che quella determinata spinta possa emergere nella maniera più pulita; quindi è necessario conoscere se stessi. O è necessario, quanto meno, essere già arrivati a un buon punto di evoluzione, per cui, anche se non se ne è consapevoli, si conosce già abbastanza se stessi per poter lasciar fluire nella maniera migliore quello che veramente appartiene a noi stessi.

D - C’è un aspetto che ancora mi sfugge un po’:quando la nostra personalità non riesce a manifestare le direttive del nostro carattere, e che allora entra in ballo l’Io, ci nascondiamo per la solita paura, per non affrontare quello che dovremmo affrontare, questo è perché la comprensione non è ancora abbastanza consistente perché riesca a passare, perché l’Io fa censura eccessiva …? Non riesco a capire …

Eh, c’è un errore di fondo in quello che hai detto tu, perché non accade mai che la personalità non manifesti quello che il nostro carattere suggerisce; tutt’al più lo manifesta in maniera diversa perché modulata da quello che è l’Io.

D - Sì, esatto, ma allora non cambia molto, secondo quello che nelle mie intenzioni volevo esprimere.

Secondo me cambia molto; cambia molto perché tu manifesti in realtà il tuo carattere, è che lo ricopri talmente di istanze tue personali provenienti dalla tua personalità e dal tuo Io, sia dalle istanze provenienti dagli archetipi transitori, che non è più riconoscibile come parte realmente caratteriale.

D - Allora: il carattere mi dà una spinta a; la mia personalità può manifestare questa spinta in due modi contrapposti? Cioè, io posso manifestare, partendo da una stessa spinta caratteriale, in una situazione una determinata espressione di personalità e in un’altra una determinata espressione di personalità, ma che partono comunque dalla stessa spinta? A quel punto, influenzata da cosa?

Influenzata, prima di tutto, dal fatto che abbiamo semplificato molto le cose ma non sono così semplici; intanto la spinta caratteriale, quando arriva, non è mai una sola ma sono tante spinte; così come le risultanze all’interno della personalità sono tante e diverse.
Ora, chiaramente, a seconda di quali sono le risultanze di questa personalità e quali sono le influenze esterne, ambientali e archetipali, che influenzano la personalità vi può essere la risposta diversa. E poi, principalmente, la risposta può essere diversa e contrastante a seconda di quanto nel frattempo vi è stato come comprensione.

D - Inoltre, che ruolo gioca la mia personalità nel momento in cui io ricevo uno stimolo dall’esterno, quindi non è più una spinta del mio carattere ma è qualcosa che magari fa una persona con la quale io sto interagendo in quel momento? La personalità fa da filtro, prima che il mio carattere reagisca a quel determinato stimolo, oppure è in modo diverso?

Dunque, per questa risposta – visto che ve ne state occupando (se ne stanno occupando sulla ML principale) – sarebbe utile che riprendeste un attimo in mano il discorso del Ciclo della Vibrazione, perché la risposta alla tua domanda è lampantissima guardando quello! Ovvero: tu hai questa spinta proveniente dall’esterno; la spinta proveniente dall’esterno cosa fa? Influisce prima di tutto sulla tua parte più immediata, sul corpo fisico (no?), e quindi sulla parte fisica della tua personalità, perché la tua personalità è strutturata in parte fisica, parte astrale e parte mentale, ovviamente.
Ecco, così, che influisce sulla tua personalità, quindi mette in moto di ritorno dall’esperienza – la vibrazione che passa attraverso i 3 corpi transitori, che poi sono quelli che danno vita alla tua manifestazione nel mondo fisico, quindi alla tua personalità. Non arrivano a manifestarsi all’interno del carattere, non hanno nessun motivo di manifestarsi nel carattere, perché il carattere è una cosa che è soltanto lì per fornire una traccia, in realtà la vibrazione continua sul suo cammino e ritorna su verso l’akasico.
Capito? Come ho detto, se guardate un attimo quello splendido schema che una grande Entità (io) vi ha portato, nella sua difficoltà estrema perché indubbiamente è difficile, ci vorrebbero un paio di vite solo per poter parlare di quello schema! – vi renderete conto che questo argomento è evidentissimo osservando lo schema stesso. Lo so che voi non potete ricordare tutto, come faccio io, però avete visto che sbaglio anch’io qualche volta. Lo faccio, di solito, per farvi contenti!

D - Scusa, quando noi moriamo e veniamo dall’altra parte, in qualche modo – così in alto così in basso – abbiamo una qualche forma di carattere, di talenti, che fa sì che le esperienze che dobbiamo fare di là siano orientate? Non so, … immagino che … le Guide che sono venute a parlare, che parlano di continuo, a volte sono guide con evoluzioni diverse, alcune ci dicono: «sono venuto qui perché devo sperimentare questa cosa, perché sto imparando» … Mi sono fatta l’idea che ognuno abbia un proprio compito. Anche questo compito è assegnato con …

Quante idee sbagliate che ti sei fatta! Sono tutte sbagliate! È completamente diversa da quella che tu ti stai immaginando, la nostra realtà! Tu dirai: «ma allora spiegami com’è» … Cosa dici?

D - Un pochino.

Un pochino?

D - Anche perché le bambine mi chiedono ed io devo dire qualcosa!

Eh, non puoi farlo capire alle bambine!
La realtà è che siamo un tutt’uno; in realtà – l’abbiamo sempre detto – noi veniamo manifestandoci in maniera diversa perché «voi» ne avete bisogno; in realtà siamo tutti la stessa Entità, ma non nel senso che potete intendere voi, di un’Entità sola, ma siamo tutti la stessa isola akasica, apparteniamo tutti allo stesso gruppo di Entità che hanno seguito lo stesso tipo di percorso, siamo tutti legati tra di noi e, quindi, c’è la parte più evoluta tra noi e c’è la parte meno evoluta tra noi; e ognuno di noi concorre, insieme alle altre, per portare avanti quello che è il percorso dell’intera isola akasica.
Però anche il discorso che c’è la parte più avanti e la parte più indietro è un’illusione perché, in realtà, l’isola akasica è già perfetta, costituita ed unita a tutta la Realtà.

D - Però voi avete parlato di «tappeto akasico» e allora, rimanendo nell’esempio, immagino un tappeto con dei disegni, dei fiori colorati, se io di questo tappeto akasico sono quella piccola parte che fa il fiore verde, la mia evoluzione mi porterà a diventare esattamente il fiore verde perfetto che devo essere …

Giusto.

D - … quindi, sia di qua che di là sperimenterò tutto quello che deve fare di me il più bel fiore verde che possa stare sul tappeto. Se tu devi fare la foglia, …

È qua che stai sbagliando: non farà di te il più bel fiore verde sul tappeto, tu sarai già quel fiore verde!

D - Ma io sono un fiore verde; se tu sei una foglia, allora siamo diversi, comunque!

Ma no, è un’illusione, credete di essere diversi! In realtà tu sei già quel fiore e stai portando il tuo compito in questo preciso momento!

D - Ma le mie – supponiamo che io mi faccia 120 vite o anche qualcuna di più – non potrò mai … Cioè, non riesco a immaginare in questo numero finito di vite di poter veramente sperimentare abbastanza!

Perché?

D - Eh, sarà una mia difficoltà di comprensione! No, perché … lo dici tu stesso, ci sono così tante sfumature …

Certamente. Vuoi costringermi a parlare di quelle complicate, però ti posso fare un accenno, così poi ci pensi un attimo con calma …
Non c’è bisogno che tu sperimenti tutto lo sperimentabile; ci sono tutti i componenti della tua isola akasica che hanno fatto miliardi e miliardi di esperienze; arriva un momento in cui l’esperienza di uno diventa l’esperienza di tutti. Tu porti la tua parte di esperienza, e … che ne so … Zifed porta la sua parte, Gneus la sua parte e via e via e via e via; e poi arriva un momento in cui c’è la possibilità, grazie alla comprensione raggiunta di tutti, all’unione tra tutti i corpi akasici, che l’esperienza di uno diventi l’esperienza di tutti; quindi non c’è necessità di fare tutte le esperienze possibili, ma c’è la possibilità di portare ognuno la propria parte di esperienza. … Mi vuoi portare a parlare di cose ancora più difficili! Diciamo che la risposta giusta sarebbe sì e no, però non voglio entrare nel merito, stasera: verrà il momento, se lo strumento non morirà prima, che riusciremo a parlare anche di questo.
Io, comunque, per questa sera vi saluto, vi ringrazio della vostra pazienza, vi lascio in altre mani e mi unisco alla benedizione del fratello Moti dicendo che anche io, comunque sia, ricordatelo, porto in me un amore per voi che non finirà fino a quando voi non vi ricongiungerete con tutti noi.
Creature, serenità a voi! (Scifo)

La mia vita gira in un cerchio continuo
e io percorro senza sosta questo cerchio
cercando di avvicinarmi alla luce che brilla al suo interno,
ma fino a quando non vedrò la candela nella sua totalità,
il mio cerchio continuerà a farmi girare.

Pace a voi. (Labrys)

Ultimamente – se ricordate – abbiamo parlato di «personalità» e di «carattere» … C’è stato chi ha detto: «Non è stato detto niente di nuovo!», dimostrando così che non ha poi capito molto di quanto noi vi abbiamo detto; infatti, in realtà, quello che abbiamo detto ultimamente è certamente un richiamo a vecchi concetti, ma è anche una nuova prospettiva in cui esaminare quei concetti.
Quando noi avevamo parlato di carattere e di personalità, ad esempio, non si parlava ancora direttamente, a lungo, estesamente … che so io? … di Vibrazione Prima o di Archetipi Permanenti o archetipi transitori, né di ambiente, né di atmosfera; ecco, quindi, che esaminare quei concetti presentati in passato tenendo conto di questi ulteriori argomenti pervenuti successivamente può senza dubbio offrire molti spunti per collegare le varie parti dell’Insegnamento; e non soltanto, ma per fare quel lavoro che auspicava il Fratello che mi ha preceduto, ovvero di rendere l’Insegnamento qualche cosa di utile per la conduzione della vostra vita.
Per far questo è necessario, ovviamente, che tutti voi collaboriate, tutti voi siate in grado, disponibili e capaci di portare i vostri dubbi, anche a costo di dire qualche sciocchezza, perché non dovete avere paura di dire sciocchezze; perché ogni sciocchezza che ognuno di voi può pensare, in realtà è indice di qualche cosa che non si è capito e, allora, perché non approfittare dell’occasione di questo colloquio diretto per eliminare le proprie incomprensioni? Noi siamo sempre stati qui per questo e non siamo mai stati sfruttati per fare questo tipo di lavoro; e ci auguriamo che, essendo così, molti meno e quindi con la possibilità di operare più facilmente anche questo possa essere fatto, con migliore utilità per tutti voi e poi, di riflesso, anche per chi eventualmente sentirà o leggerà l’estratto della seduta.

D - A me il concetto di personalità mi entra un po’ diciamo in conflitto con il concetto di Io, cioè se in questo momento mi chiedessero qual è la differenza o le cose in comune tra questi due concetti non ce l’ho chiaro.

Bene, quello è già un punto importante da tener presente. Effettivamente la differenza tra personalità e Io è molto difficile da trovare, perché sono due aspetti che coincidono per la maggior parte delle cose. Il fatto è che la personalità, come abbiamo detto l’altra volta, nasce dallo sviluppo delle caratteristiche innate geneticamente, principalmente dell’individuo allorché vengono messe in atto all’interno del piano fisico.
Quindi, è qualche cosa che vi permette di dare una connotazione di vario tipo (mentale, fisico o emotivo) a tutte le esperienze che vivete. Capite questo punto? Quindi la personalità è qualche cosa – ripeto – che vi permette di connotare le esperienze che vivete secondo i corpi transitori che possedete al momento dell’incarnazione.
Se non ci fosse l’Io, cosa succederebbe? Succederebbe che tutto quello che voi vivete, tutto quanto, non farebbe altro che portare alla vostra consapevolezza, direttamente e immediatamente, tutto quello che l’esperienza vi insegna, perché non ci sarebbe nessun elemento che si frapporrebbe fra voi e la percezione delle vostre reazioni.
L’Io – che, invece, voi sapete, è illusorio, nasce dallo scontro tra le reazioni dei vostri corpi inferiori e la realtà che vivete ha una vita fittizia che tende a mantenere lo status quo, tende a far sì che nulla sfugga alla sua attenzione e, quindi, tutto sia più rigido e fermo possibile.
Ecco, quindi, che se vogliamo trovare una differenza tra personalità e Io, possiamo dire che la personalità è uno strumento che sarebbe estremamente utile se non ci fosse l’Io perché permetterebbe di acquisire immediatamente gli elementi della comprensione – mentre l’Io è lo strumento che, al contrario, non dico che è dannoso, ma è quanto meno noioso, nel far sì che gli elementi che si avvicinano alla vostra possibilità di comprensione possano essere fraintesi o travisati, o modificati, dalla percezione dei corpi inferiori.
È sottile come differenza, me ne rendo conto. Spero che voi abbiate capito, altrimenti continuate a chiedere e vediamo di precisare al meglio possibile.

D - Scifo, è possibile, come carattere, essere portati verso l’altruismo e poi con l’Io manifestare all’esterno non un altruismo puro ma con altre intenzioni; non so … sembrare migliori a noi stessi e agli altri?

Beh, direi proprio di sì. Ecco, prendiamo questo caso che ha citato la nostra amica: supponiamo che una caratteristica del vostro carattere (mi dispiace, è brutto ma non si può dire altrimenti) sia quella di essere tendenzialmente altruistici. Cosa succede? Succede che vi è questo «dono» all’interno dell’individuo che gli dà la possibilità nel corso delle sue esperienze di comportarsi non in maniera egoistica ma altruistica, tenendo conto anche dei bisogni degli altri.
Se potesse mettere in atto la sua personalità senza nessuna interferenza da parte dell’Io, l’individuo, nel fare le sue esperienze, riuscirebbe sempre a tener conto degli altri e, quindi, ad essere tendenzialmente altruistico anche nella sua manifestazione nel mondo fisico; poiché, invece, c’è l’Io che cerca di avere la preminenza, di essere il centro della realtà, di essere la cosa più importante del mondo (così, almeno, lui tende a considerarsi) ecco che l’attenzione dell’individuo, allorché è incarnato e cerca di esprimersi nella realtà, invece di manifestarsi come personalità attraverso la capacità di essere altruisti, tende a spostare invece l’attenzione verso se stesso e, quindi, in qualche modo per far ciò deve ovviamente rendere minore l’espressione dell’altruismo tipico del carattere. Sono stato chiaro? Spero di sì.

D - Quindi, a questo punto, l’Io non è altro che, ovviamente, il filtro delle nostre comprensioni e incomprensioni sul piano fisico, che distorce anche la nostra personalità, in pratica?

Certo. C’è un altro punto importante di cui tener conto: l’Io – come sapete – non esiste in realtà, è fittizio, è illusorio (giusto?), la personalità invece no; la personalità è reale perché è collegata a quello che ognuno di voi è, allorché è incarnato; è questa la grossa differenza, ed è anche per questo che dicevo che, se riusciste ad esprimere la vostra personalità - e quindi, alla fonte, il vostro carattere – riuscireste ad arrivare direttamente alla comprensione, alla vostra capacità di coscienza della vostra comprensione.

D - Quindi, in pratica, se ho capito bene, è sempre il solito ragionamento: fare estrema attenzione ai nostri moti interiori per vedere effettivamente cosa del nostro carattere si può percepire e manifestare sul piano fisico, senza le interferenze dell’Io?

Certamente. Allora, a questo punto, forse prende anche una connotazione più comprensibile la nostra insistenza a parlare di «osservazione passiva». Come può essere intesa, allora, con questi elementi, l’osservazione passiva (cosa che ben pochi di voi riescono veramente a comprendere, alla fin fine)?
L’osservazione passiva include la capacità di interagire con la realtà, attraverso la personalità, tenendo da parte l’Io; o meglio: osservando senza interagire – e chi interagisce con quello che fate è il vostro Io – e lasciare che siano le vostre emozioni, i vostri pensieri, i vostri desideri, la vostra comprensione, la vostra coscienza, il vostro carattere a muovere le vostre azioni.

D - Mi è parso di capire che mentre c’è un collegamento diretto tra il corpo akasico e la personalità. O no?

Certo, passando attraverso il carattere.
C’è un’altra questione, qui, da risolvere un attimo, che mi sembra non sia stata capita, leggendo le varie cose che sono state dette dai vostri compagni di avventura: il discorso della Vibrazione Prima, se nasceva prima o nasceva dopo, cos’era che modificava il Dna, e via dicendo. La situazione, detta in termini semplicissimi, è questa: la Vibrazione Prima cosa fa? Influisce sul corpo akasico.
Il corpo akasico è quello che, sotto l’influenza della Vibrazione Prima alla ricerca della comprensione totale influenza la costituzione del corpo che le serve per fare esperienza, e quindi attiva il Dna per avere quel tipo di carattere, quel tipo di predisposizione e quindi quel tipo di personalità, quindi praticamente è il corpo akasico che attiva il Dna ma, andando a livello superiore, ovviamente il corpo akasico è spinto dal richiamo della Vibrazione Prima. Quindi, non vi è una dicotomia tra quello che fa la Vibrazione Prima e quello che fa il corpo akasico; la Vibrazione Prima permea tutto e, quindi, è chiaramente il motore di tutta la Realtà.

D - Scifo, la manipolazione da parte della scienza umana del Dna, per cercare di modificare quelle che si chiamano «tare ereditarie», è una fatica inutile perché, tanto, il Dna soggiace ad altre regole che non siano …

Non è una fatica inutile. Non è una fatica inutile e, col tempo, se usata nel modo giusto, vedrete anche i risultati e l’utilità della cosa. Il problema è che, senza dubbio, sarà impossibile fare una codifica di questo tipo di intervento che abbia sempre gli stessi risultati; perché ci sono chiaramente degli elementi che sfuggono all’insieme dei meccanismi che regolano l’attivazione o la disattivazione di determinati geni; senza contare che, ovviamente, dietro c’è il problema karmico e molte volte non sarà possibile intervenire o, quando l’intervento sarà fatto, non darà gli effetti che ci si aspettava.

D - È il dire che c’è una modificazione continua del Dna che può rimettere a posto, per esempio, la modifica fatta dalla scienza.

Anche; ma, più che modifica, … Cioè, non vorremmo che ci confondessimo coi termini: non è che il Dna si modifica, il Dna modifica la sua attivazione o meno di determinati geni!

D - Sì sì, no, d’accordo.

No, perché poi, magari, chi legge si attacca alla parola e travisa tutto quanto!

D - Una cosa che … In questo contesto, come tu hai spiegato l’Io e la personalità, mi sembra che l’Io abbia una parte soltanto negativa ma non riesco a vederne le sua funzione nel contesto del permettere l’evoluzione … Non so se mi spiego … Mi sembra quasi che, se non avessimo l’Io, nei confronti della personalità riusciremmo ad acquisire un sacco di elementi, mentre l’Io blocca questa cosa.

Ma, a parte il fatto che l’Io è una creazione inevitabile, quindi non è che si possa dire «se non avessimo l’Io»; l’Io ci deve essere per forza perché nasce per forza dallo scontro della reazione dei corpi dell’individuo con la realtà, però ha una sua utilità.
Come tutte le cose che frenano … pensate ai vari Comandamenti: ce ne sono alcuni che sono decisamente stupidi come Comandamenti, visti con l’occhio dell’uomo di oggi, eppure nel passato avevano una loro logicità, una loro utilità.
Lo stesso vale per l’Io; l’Io ha la funzione – pur non esistendo – di far sì che l’individuo non cerchi di assimilare o di comprendere troppo alla svelta e più velocemente di quanto può assimilare; perché rendetevi conto che al corpo akasico non arriva un dato o due dati, ma arriveranno milioni di dati.

D - Ah, quindi c’è anche questo problema del fatto che comunque uno, anche potendo, non può ricevere così tanti dati perché non riesce in qualche modo a …

Certamente; tanto è vero che, se ricordate, avevamo detto che il sonno è necessario per poter fermare un attimo l’acquisizione di dati e permettere che i dati finiscano di rifluire fino al corpo akasico per la comprensione. E l’Io, in qualche modo, costituisce anche un filtro per permettere la più adatta possibilità di comprensione per l’individuo; senza contare poi tutte le altre tematiche che smuove la presenza dell’Io e che sono necessarie per affrontare le esperienze che, altrimenti, l’individuo non si sognerebbe neppure di affrontare!

D - Scifo, scusa; riguardo al discorso «Io, personalità e carattere», l’aspetto «temperamento» di un individuo … Cioè, di fronte a un avvenimento, a una situazione, agire in un modo piuttosto che in un altro, che posto ha in tutto questo discorso? È sempre l’Io che non riesce a far uscire la personalità reale, per cui si frappone tra il carattere e la personalità? Il temperamento che ruolo gioca in tutta questa questione?

Mah, bisogna vedere un attimo che cosa intendi per «temperamento». Il temperamento può essere considerato un modo di esprimersi, più che un modo di essere. Se lo consideriamo in questo modo, il temperamento non è altro che la messa in atto di quella che è la personalità e, quindi, il carattere. Il temperamento può essere considerato il modo di essere messa in atto la personalità sotto l’influenza del carattere.

D - Per cui il temperamento non si può modificare?

Ah, certo che si può modificare! Il temperamento è un altro modo per definirlo nasce dallo scontro tra il carattere e quello che l’Io desidera, ad esempio. La personalità dell’individuo e il suo Io possono entrare in conflitto, come accade molto spesso; e, a quel punto, allora cosa entra in gioco? Entrano in gioco le vere incomprensioni che ha l’individuo, sono quelle che l’individuo deve riuscire a trovare per mettere in atto il comportamento migliore nelle situazioni che sta vivendo.

D - Ma, all’atto pratico, quando ci dici: «mettete in pratica quello di cui stiamo parlando, in modo che non rimanga solo teoria», nel pensarci nel nostro quotidiano, essere, agire, fluire di emozioni, di azioni, di reazioni, messe in atto e non messe in atto, come facciamo a distinguere e a dare un nome in noi «questo è carattere, questa è personalità, questo è Io»? A me risulta veramente molto confuso e alla fine dico «Va be’, capirò, prima o poi!» …

Ma mi sembra che risulti abbastanza chiaro quale sia la differenza tra le cose. Tempo fa ho sentito A. che si poneva lo stesso tipo di problema, perché non riusciva a comprendere se, per esempio, la curiosità che lui ha molto forte fa parte del suo carattere o fa parte della sua personalità …
Allora, prendiamo questo elemento come esempio: la persona curiosa. La persona curiosa, indubbiamente, ha la curiosità come elemento attivo all’interno del suo carattere; questa curiosità però poi si deve manifestare sul piano fisico; giusto? Come si manifesterà? Si manifesterà modulata dall’Io dell’individuo; quindi potrà essere accentuata, insistente, repressa, eccessiva, e via e via e via e via e via.
Ora, quello che noi vi chiediamo di fare è «semplicemente» – tra virgolette, perché non vi è mai niente di semplice per quello che riguarda la coscienza e la comprensione – è di stare attenti a voi stessi e cercare di rendervi conto quando veramente quello che fate fluisce spontaneo e libero, quindi proviene direttamente dal vostro carattere e dalla vostra coscienza, e quanta parte, invece, di quello che fate proviene da tentativi di modificare la realtà secondo i desideri dell’Io. Sembra difficile, ma non è poi così difficile!

D - Scifo, scusa; faccio molta fatica a riconoscermi negli archetipi transitori di questa società. Non è sofferenza, è «insofferenza»! È un aspetto caratteriale, questo, non della personalità.

Beh, in parte sì, ma in parte è anche una posizione abbastanza normale quando si arriva al termine della sperimentazione di un archetipo. Se ricordate, quando abbiamo parlato degli archetipi transitori avevamo detto che, all’interno di un archetipo transitorio, le coscienze delle persone legate a questo archetipo si collegano in varie fasi per sperimentare tutto l’archetipo.
Quando si arriva verso la fine della sperimentazione di quel tipo di archetipo, allora incomincia l’insofferenza perché si sente che quel tipo di archetipo deve essere abbandonato perché non soddisfa più abbastanza. Ecco quindi che, al di là della componente caratteriale, entra anche in gioco questa insofferenza verso un archetipo che si incomincia a sentire non più utile per se stessi.

D - Il che però non significa che l’archetipo abbia esaurito la sua funzione a livello più ampio!

Certamente. Probabilmente sta esaurendo la sua funzione per quell’individuo, ma gli altri individui collegati a quell’archetipo che tengono in vita quell’archetipo, fra l’altro – hanno ancora bisogno che quell’archetipo influenzi le loro azioni, il loro modo di esprimersi nella realtà.

D - Però il fatto che alcuni individui arrivino a un livello di fastidio, di insofferenza, questo già di per sé spinge alla modifica di quell’archetipo che è in atto verso un qualcosa di differente, oppure dobbiamo aspettare magari un altro giro di vita?

Diciamo che spinge l’individuo, solitamente, verso l’aggancio con un’altra serie di archetipi transitori, che gli tornano più utili. Questo è il caso, molte volte, dei ribelli famosi della società, che però molto spesso si tende poi a idealizzare troppo, a considerare come persone eccezionali, che so io? … un Che Guevara; mentre era semplicemente una persona con dei grossi problemi che, senza dubbio, aveva anche la coscienza di una buona evoluzione, però non riusciva ancora a comprendere che l’archetipo che stava vivendo lo portava a vivere quanto stava vivendo in maniera eccessivamente violenta, per esempio.

D - Io volevo tornare un attimo sul carattere. Allora: se per caratteristica io sono fatta in una certa maniera, ho certe predisposizioni, quindi le mie esperienze di vita devo in qualche maniera, attraverso la personalità, esprimerle in quella maniera, con queste predisposizioni,...

No, qua c’è già una piccola inesattezza.
Il carattere che ha l’individuo significa che l’individuo può esprimere quelle caratteristiche, non che «deve» esprimerle, il modo espressivo è poi dettato dal resto. Cioè, quello che hai inscritto nel carattere non ti dice «come» esprimere le caratteristiche.

D - Se per condizionamento, ovviamente nell’ambito dove si nasce, se per condizionamento sociale e familiare una persona non riesce, diciamo non viene aiutata a esprimersi per quello che è ma viene piuttosto condizionata talmente che uno si censura determinate cose sue (per semplificare), mi viene da pensare che durante l’arco della vita il tipo di esperienza si ripeta. Non riesce … Per esempio, se io voglio andare a giocare a calcio (prendendo l’esempio del calcio) e fare l’esperienza attraverso questo mio desiderio, e invece di andare a giocare a calcio faccio il muratore e vivo tutta la mia vita attraverso il muratore, riesco lo stesso ad avere le stesse comprensioni?

Eh sì.

D - È questo che mi domando; perché allora, se è così, il carattere non riesco ancora a definire a cosa serve.

Ma certamente che è così! Il carattere – te lo ripetiamo, allora – il carattere è la base sulla quale costruite la vostra vita; è la base con la quale voi vi manifestate all’interno del piano fisico. Questa è la base, però questa base viene poi modificata – trasformandosi in personalità – nelle azioni che voi fate, come voi interagite con il resto della realtà.
Quindi, che tu abbia caratterialmente la spinta di diventare un divo del pallone e non riesca a metterla in atto e finisca poi per vivere una vita da muratore, in realtà non sposta assolutamente la situazione perché il tuo carattere, comunque sia, viene espresso egualmente; probabilmente la tua personalità esprimerà questo desiderio inespresso (irrealizzato?) attraverso problemi di qualche tipo, che manifesterai come personalità o come reazioni, e via e via e via.
Tempo fa vi dicevamo: «parlate al vostro Io»; ricordate che ve lo avevamo detto? Ecco, questo intendevamo. Non ritenete il vostro Io un nemico, ma ritenetelo uno strumento che vi serve per comprendere e, quindi, a quel punto, invece di osteggiarlo, cercate di farlo diventare utile.

D - Scusa, Scifo, io volevo tornare un po’ sul discorso dell’ «osservazione passiva»; quindi significa in qualche maniera non permettere al nostro Io di giudicare come siamo, più che altro, ma accettare il nostro carattere per quello che è, anche se ci sono degli aspetti che non ci piacciono più di tanto?

No. Tu non devi intervenire, devi solo osservare. Non devi influire sull’Io mentre fai osservazione passiva, non serve a niente se si influisce! In che modo influiresti sull’Io? Usando l’Io.

D - Sì, beh, ma è difficile definire …

Certo che è difficile, ma è difficile perché è molto lontana da quella che è la tradizione di pensiero occidentale. Certamente, in certe filosofie orientali sarebbe più facile far comprendere questo tipo di concetto, ma un po’ alla volta vedrete che ci arriverete, avete tante vite per arrivarci!

D - A grandi linee, d’accordo; sarebbe il discorso dell’esperienza interiore, ma cercando proprio di avere un concetto in testa che non si riesce, per capire questa cosa, …

Ricordate una cosa: mentre noi facciamo questi discorsi, il vostro Io è in allarme, quindi tutte le cose che non riuscite a capire, molte volte sono tali perché il vostro Io si rifiuta di farvele capire! È come quando (che so?) … qualcuno vi dice che avete la testa quadrata, voi in realtà sapete che la testa l’avete rotonda, però non volete ammettere che sia rotonda ed allora accettate che vi venga detto che è quadrata!

D - Ritornando al discorso di prima, degli archetipi in cui non ci si riconosce, è chiaro che si tende poi a vivere secondo degli schemi diversi, magari meno diffusi nella società. Tutto questo, però, chiaramente, comporta un conflitto spesso, o almeno un contrasto, con chi invece si riconosce in questi archetipi diffusi. Da parte di chi fatica a vivere quei tipi di archetipi, qual è l’atteggiamento migliore: andare per la propria strada o scontrarsi con chi ancora vive i propri?

Io direi che la via migliore sia quella del giusto mezzo; o meglio: fare quello che si ritiene giusto, tenendo conto però delle necessità degli altri. Se voi ricordate, era stato detto in passato «non date scandalo». Cosa significava non dare scandalo? Non certamente nel senso che dareste voi attualmente alla parola «scandalo”, ma nel senso che non è necessario avere forti reazioni pesanti se gli altri non vi possono capire! Capisci cosa voglio dire?
Quindi, il comportamento dell’uomo giusto sarebbe quello di seguire il proprio Sentire – e quindi anche il proprio carattere, la propria coscienza – ricordando però che può farlo sempre e soltanto nei momenti in cui è giusto che lo faccia senza danneggiare gli altri; tenendo quindi conto che l’importante è che lui sappia qual è la sua reale intenzione, qual è il suo reale carattere; che sia consapevole di questo e non si convinca di essere diverso da quello che è, per qualsiasi motivo, sia per gli altri che per se stesso. Quindi, molte volte – e mi rendo conto che questo può sembrare una forma di ipocrisia – ma molte volte è necessario adeguarsi ad un archetipo che non si sente, in maniera tale da poter condurre la propria vita ed aiutare chi è vicino, per esempio.

D - La personalità può far sì che il carattere invece si cristallizzi perché non riceve i messaggi che vorrebbe, o anche perché – condizionata dall’Io – la personalità risponde in modo diverso da come si aspetta il carattere.

Ma il carattere non si può cristallizzare, perché è condizionato dal corpo akasico, e il corpo akasico non cristallizza!

D - Cristallizzato nel senso che non porta a casa quello che vorrebbe, che non gli perviene la risposta che lui cercava.

Eh, non è proprio così, perché non cerca nessuna risposta il carattere! Il carattere è semplicemente un modo di essere; è sempre il corpo akasico che cerca una risposta. E le risposte, comunque, al corpo akasico, anche se sono negative, servono.
Non esiste un’esperienza negativa e un’esperienza positiva per il corpo akasico; esiste un’esperienza utile o inutile ma, comunque sia, tale da portare elementi che gli possono servire. Quindi, tutte le connotazioni che date alle vostre esperienze: di dolore, di sofferenza, di utilità o inutilità, e via e via e via e via, sono connotazioni che date voi, ma per il corpo akasico non c’è nessuna connotazione sull’esperienza che compite. Non c’è l’esperienza più utile o meno utile.

D - Beh, sì, d’accordo, non c’è l’esperienza più utile o meno utile, però, da quello che ho capito – per lo meno quello che si riferiva prima Marisa, sul discorso di intraprendere una strada rispetto a un’altra – potrebbero esserci dei dati diversi, che passano attraverso … che ne so? … a delle problematiche maggiori; quindi, in qualche maniera, si modifica il tipo di reazione che noi riceviamo dall’esterno.

Sì, certamente: le reazioni si modificano, i risultati all’esterno si modificano, tutto quello che vuoi, però le comprensioni che arrivano all’akasico sono sempre quelle!
Il vostro corpo akasico può capire un elemento che gli serve facendo decine di esperienze diverse, ed ognuna di loro può portare in realtà quel tipo di comprensione al corpo akasico.

D - Se io come corpo akasico provo a osservare passivamente quello che ci succede qua, dicendo «il nostro Io pone delle regole, si pone in un atteggiamento di difesa, però, per contro, in qualche modo siamo aiutati, attraverso le vostre parole (che presumiamo sante) e c’è un fluire magari maggiore, migliore di comprensione di quello che avremmo in termini normali. Che cosa succede?

Diciamo che, se voi imparate ad osservarvi, avete il benefico effetto che riuscite a comprendere quali sono le motivazioni del vostro Io e da quelle potete risalire a comprendere qualche cosa di più, però questo a livello consapevole di persona incarnata. Tenete conto che il vostro corpo akasico non sta cercando di comprendere, non gli interessa comprendere, in realtà; gli interessa semplicemente mettere assieme i tasselli della vostra comprensione.
Per il corpo akasico, che voi facciate esperienza dando testate nel muro o buttandovi giù dal quinto piano non cambia niente; a lui interessano i dati che gli fate arrivare. Noi lo abbiamo sempre detto anche in passato: noi non siamo necessari e indispensabili per la vostra evoluzione, per la vostra comprensione; per combinazione vi siete trovati – per motivi karmici o per chissà quale motivo utile all’Assoluto – nella possibilità di intervenire a questi incontri e seguire per un certo periodo di tempo l’Insegnamento; però, se non fosse stato necessario per voi o per le vostre esigenze evolutive e aveste seguito tutt’altra strada, per il vostro percorso evolutivo non sarebbe cambiato niente; voi sareste andati avanti comunque sia. L’umanità può fare anche a meno delle parole di Scifo! Lo so che sembra impossibile, però in realtà è così. Ha fatto a meno per dei millenni delle parole del Cristo, figuratevi per quelle di Scifo!

D - Sì, va benissimo a livello teorico, però stavo riflettendo che mi risulta difficile in qualche maniera poter esprimere il mio carattere eventualmente con qualcosa che la mia personalità riesca a essere soddisfatta come lo sono, magari, a contatto con voi! Non so se sono riuscito a …

Beh, certamente; ma perché? Perché nel momento in cui voi vi trovate a contatto con noi, il vostro Io sta bene attento a stare tranquillo e a fare in modo da non scoprirsi! Quando siete con noi il vostro Io è tenuto più a bada; anzi, dovreste stare attenti a voi stessi e rendervi conto – perché ne avreste la possibilità – di come il vostro Io sta tacendo, di come siete diversi rispetto a quando non siete al nostro confronto diretto e consapevole.

D - Siamo più concentrati.

Come mai non lo siete sempre? Perché il vostro Io, quando non siete a contatto con noi, è molto più invasivo e molto più prepotente di quanto siete a contatto con noi!

D - Forse perché certi argomenti sono più gratificanti per l’Io di altri.

Anche, anche questa componente, senza dubbio. Anche se poi, magari, si scatenano le discussioni in cui ognuno cerca di prevaricare gli altri o di fare il maestro degli altri invece di insegnare qualche cosa a se stesso, ma questo rientra nella normalità degli sviluppi di un Io.

D - Scusa, ma l’assunto allora, eventualmente, così come si dice che «il maestro arriva quando il discepolo è pronto», l’argomento coinvolge nel momento in cui io sono pronto per affrontarlo …

Ah, senza dubbio!

D - … e l’interscambio tra persone che si interessano di certi problemi, su tutto quello che è il vostro insegnamento, a me certe volte sembra che sia più controproducente che costruttivo, perché va a cozzare contro delle situazioni che non sono ancora pronte per affrontare certi argomenti, certe prospettive, certi valori della vita.

Ma perché, vedi, se affrontate queste discussioni tra di voi senza la nostra presenza è un conto, e se le affrontate – come dicevo prima – alla nostra presenza è un altro conto. Certamente il vostro Io si rende conto che non può mettersi in lotta con Scifo, con Moti o anche soltanto con Gneus, ma sa altrettanto bene, invece, che può mettersi in lotta con uno degli altri componenti o partecipanti alle riunioni; ecco, quindi, che se noi non siamo presenti, è facile che l’Io degli altri individui prenda il sopravvento ed ognuno cerchi di portare l’acqua al suo mulino, rendendo così più difficoltosa la comunicazione. Basta pensare come sono più semplici e produttive le sedute con poche persone rispetto a quelle con 50-60 persone.

D - Ecco, mentre non pensi, invece, che sia un problema legato proprio al fatto che una persona non pronta per certi argomenti, volente o nolente, in perfetta buonafede, è dirompente; nel senso che svia e che porta un’interpretazione errata, per cui …

Ma, guarda, io sono sempre stato – anche da vivo – dell’idea che, quando una persona si lascia sviare da un’altra, è perché vuole che l’altra la svii! Se veramente una persona crede e sente giusto quello che sente e che crede, nessun’altra persona può farla deflettere dal comportamento. Se deflette, è perché, in realtà, il suo Io pensa che ci sia un utile farsi deflettere!

D - Questo senz’altro, ma io intendevo la discussione sviata da quello che sarebbe il suo normale percorso.

Certamente; l’Io cerca sempre di sviare la discussione allorché tocca qualche cosa che lo ferisce o che potrebbe teoricamente ferirlo, secondo lui.

D - Ci vedevo anche la perfetta buonafede di chi, non essendo ancora all’altezza di affrontare un certo argomento, parlandone, volendone parlare, … A me piace considerare la diversa evoluzione di noi alle diverse età della vita.

Certamente, però vedi, facci un attimo caso: dalle varie discussioni che ci sono state nei tempi e nei luoghi in tutti questi anni e continuamente, quando una persona non ha ancora le basi dell’insegnamento, quindi magari dice delle sciocchezze, quanti sono quelli che in realtà le spiegano qual è la realtà o le sciocchezze che sta dicendo e perché non dovrebbe dirle? No, la reazione è solitamente un attacco; eppure dovreste essere voi «i grandi» che servono i minimi!

D - Sì ma, per esempio, io penso quando ci sono degli adulti che discutono e c’è il bimbetto che interviene … sposta il discorso su motivi completamente diversi da quelli che stavano affrontando gli adulti, per ovvii motivi. Allora, il discorso portato avanti su quelle basi non ha niente a che vedere con quello che volevano discutere gli adulti. Anche nei confronti tra noi spesso succede questo, a mio avviso, cioè che chi ne parla con una consapevolezza a un certo livello, si deve obbligatoriamente relazionare con chi, invece, avendo una visione più riduttiva, tende a snaturare il discorso stesso che si sta facendo.

Allora tieni conto di una cosa: le persone adulte che sentono un bambino che cerca di sviare quello che stanno dicendo le persone adulte, dovrebbe porsi il problema: «cos’è più importante per le mie responsabilità? Continuare il discorso che mi interessa o cercare di far capire qualche cosa a quel bambino?»

D - Tutt’e due le cose.

No, assolutamente!

D - Prima si accontenta il bambino e poi si continua il discorso.

La precedenza l’ha sempre la persona che più ha bisogno; e, certamente, tra i bisogni dell’Io che deve discutere qualche cosa di evoluto e i bisogni di un bambino che deve comprendere qualche cosa, chi ha la precedenza non può essere altri che il bambino. Se non è così, significa che l’individuo è ancora ben lontano dalla comprensione.
Questo, rapportato a quello che negli anni e anche ultimamente succede nel Cerchio, significa che nel momento in cui «un bambino del Cerchio» dimostra di non aver compreso qualche cosa, allora deve diventare quella persona la più importante, per chi ha capito; e non fare in modo per usare quella persona per magari distruggerla psicologicamente o verbalmente per far vedere quanto si è bravi … Cosa che capita molto spesso, come sai.

D - E demoralizzati!

Perché demoralizzati? … è normalissimo che sia così. D’altra parte, quella del bambino che ha bisogno è un’esperienza utile da accettare perché l’avete fatta e la fate in continuazione, tutti i momenti, con i vostri figli. Quante volte avete … che so? … ospiti in casa e i bambini si annoiano e incominciano ad essere un pochino più noiosi, più scatenati, e li rimproverate, li trattate male, cercate di farli smettere, e continuate a parlare tranquillamente delle cose che vi interessavano? Bene, posso capire che, dopo una giornata di lavoro, magari possa far piacere avere un momento di relax con degli amici, però in quel momento siate consapevoli che vi dimenticate le vostre responsabilità.

D - Certo. In pratica, sfruttare l’esperienza che si presenta, per conoscere una parte di se stessi.

L’importante – ripeto è che, anche se sbagliate, siate consapevoli di stare sbagliando.

D - Ma il rapporto … mi vengono in mente alcune scene dinamiche durante la scuola, degli adolescenti in particolare – cioè tra l’esigenza dell’adolescente di fare caos e l’esigenza diciamo di seguire o comunque di portare avanti un programma o comunque un progetto, come si voglia chiamare, perché è un equilibrio che trovo difficile trovare la giusta quadratura tra le due cose.

Effettivamente è molto difficile, specialmente in età adolescenziale, dove l’attenzione fluttua velocemente da una cosa all’altra. Forse il punto principale da cui partire è proprio quello di cercare di catturare l’attenzione; e poi su quella costruire eventualmente un rapporto, un percorso formativo o cognitivo, e via e via e via.

D - Sì, però – giustamente, come dicevi tu – forse più oggi che un tempo questa attenzione è così volubile, così fluttuante, così precaria che la cattura è qualcosa di un po’ complesso; innanzi tutto perché dovresti catturare l’attenzione di tutti e ognuno ha delle esigenze e delle dinamiche diverse, e …

Ah, ecco perché io ero sempre stato convinto che la massificazione dell’Insegnamento non va bene a nessun livello; era molto meglio, per la possibilità di comprensione, di rapporto e via dicendo quando c’era il famoso tutore, che accompagnava pochi bambini alla volta e che poteva quindi seguirli in maniera migliore, avendo uno scambio diverso. Certamente, poi c’erano altre problematiche che attualmente non ci sono più, però certamente il rapporto uno a uno, anche per chi deve insegnare, è molto migliore che il rapporto uno a cento.

D - Parole sante! Il problema è evidentissimo.

Anche nella realtà dei fatti non è possibile questo, nella vostra società.

D - Io vedo che c’è un abisso quando, per qualche circostanza, hai 2-3 persone, per cui si spezza anche tutto il condizionamento del gruppo, che comunque impedisce al singolo di esprimersi perché il singolo si deve adeguare all’andamento del gruppo, altrimenti rimane tagliato fuori dal gruppo e questo per loro è un po’ una morte sociale.
Dove appunto in questa maggiore libertà il singolo riesce comunque a esprimersi anche nei suoi aspetti più delicati. Però queste sono situazioni che si creano raramente, per cui a volte non so … Anche qui ci sarebbe un’altra questione complessa, che spesso mi pongo, cioè è meglio lasciare una certa libertà di movimento per far sì che comunque l’interazione tra ragazzi faccia il lavoro che deve fare, oppure sarebbe più utile invece una imposizione, sia pure in termini certamente ragionevoli, che permetta in qualche modo di focalizzare l’attenzione su un argomento?


Non si può generalizzare. Sai benissimo che non soltanto ogni individuo, ogni ragazzo, ma ogni gruppetto di ragazzi che si forma ha esigenze e caratteristiche diverse; quindi sta tutto nella sensibilità dell’insegnante riuscire a trovare il giusto equilibrio tra l’imposizione e il lassismo. Certamente costringere i ragazzi a star fermi, a non muoversi, come veniva fatto una volta, non è possibile con le abitudini che hanno nella vostra vita attuale. In passato, fino anche soltanto al secolo scorso, questo era possibile e non creava neanche grossi danni perché le abitudini degli archetipi sociali dell’epoca erano diverse dalle vostre. Nella vostra epoca, invece, dove tutto è personalizzato, tutto è immagine, tutto è movimento, tutto è attività, è difficile convincere un adolescente a star fermo per lunghi periodi di tempo. Tenete presente sempre questo.

D - È praticamente impossibile, insomma.

Non potete esaminare i ragazzi senza tener conto del contesto sociale in cui vivono, chiaramente.

D - Il problema è che, al di là della mia materia, che permette una certa dinamica in questo senso, è chiaro che insomma se tu devi imparare quel minimo di matematica, quel minimo di italiano, quel minimo di inglese per riuscire in qualche modo ad avere quella base che ti permette poi comunque di avere una professione.

Ma, guarda, io dico una cosa: le menti dei ragazzi sono delle spugne; se si riuscisse a catturare l’attenzione di un ragazzo per 10 minuti ogni ora di scuola, in quei 10 minuti imparerebbe già tutto quello che avrebbe bisogno di imparare in quell’ora. Gli altri 50 minuti sono superflui, in realtà.
Quindi, bisognerebbe che gli insegnanti non insistessero a voler fare, per forza di cose, cose pesanti, ripetitive, lunghe e noiose, ma cercassero per 10 minuti, veramente, di ottenere 10 minuti di attenzione, in modo tale che quello che quel giorno quei ragazzi devono imparare lo imparino veramente. Però costa fatica, purtroppo, e impegno. Non è che la classe insegnante di oggi sia poi molto dedita alla missione! … Esclusi i presenti, ovviamente!

D - Noi abbiamo davanti una realtà che arriva al corpo akasico e muore lì (no?), invece c’è ben altro oltre il corpo akasico!

Certo.

D - Avere qualche piccolo accenno, qualche informazione, anche … A chi risponde il corpo akasico, come mai? … Ci piacerebbe, almeno a me piacerebbe.

Siete nel novero delle cose semplici! Vediamo quello che posso dire. Allora: bisogna partire dal discorso dell’evoluzione, passare attraverso la vibrazione, pensare a tutti i 7 corpi dell’individuo, al cammino che la Vibrazione Prima fa dall’Assoluto per ritornare all’Assoluto, e forse – inserendo tutto nel concetto di cosmo – si riuscirebbe a comprendere qualche cosa di più! … No, vi sto prendendo in giro!
Diciamo che, come voi sapete, avete dei corpi inferiori e un corpo akasico. I corpi inferiori sono transitori, durano per il tempo in cui voi compite la vostra evoluzione all’interno del piano fisico, e poi non avrete più bisogno di incarnarvi, non vi incarnerete più, non avrete più corpi inferiori, avrete soltanto corpo akasico. Giusto? Fino a qua ci siamo arrivati tutti tranquilli tranquilli (si fa per dire!). Il nostro amico E. vuol sapere qualcosa dopo.
Beh, mi sembra che si poteva estrapolare buona parte di quello che succede dopo da quanto abbiamo detto. Voi sapete che il corpo akasico di ogni individuo cosa fa? Attraverso l’allargamento della sua comprensione, finisce con l’unirsi agli altri corpi akasici, formando le famose isole akasiche. Queste isole akasiche, a loro volta, a mano a mano che la comprensione dei componenti delle isole akasiche aumenta, diventano sempre più compatte fino a diventare un’unica isola akasica in tutta la Realtà. Giusto? Quindi è come se fosse un unico grande corpo akasico, quindi è come se fosse un’unica grande isola di comprensione della Realtà, attraverso la quale quindi la Vibrazione Prima passa tranquillamente senza doversi fermare neanche un po’ perché appartiene a questa grande isola akasica, essendo stata completamente compresa. Perché questo succeda, bisogna che questa grande isola di comprensione sia ormai unita con l’Assoluto. Se è unita con l’Assoluto significa che questa grande isola di comprensione è una parte dell’Assoluto stesso, ecco quindi che vi trovate fusi in Dio, da dove non siete mai venuti via, in realtà; il vostro è stato soltanto un peregrinare illusorio all’interno della realtà che voi stessi stavate costruendo, e il vostro cammino è finito.

D - Sono gli altri 3 corpi superiori all’akasico che restano un mistero...

Ma, vedi, non è che siano un mistero poi così grosso! Il problema è che è difficile farveli comprendere con le parole, perché sono … (come si possono descrivere?) … come tre diverse condizioni del corpo akasico dopo l’evoluzione raggiunta attraverso le incarnazioni; vi sono 3 stadi diversi di corpo akasico, diciamo così.

D - Per cui c’è una specie di corpo akasico inferiore, medio e superiore?

Diciamo così se vi può aiutare, però io lo rapporterei, secondo me lo troverei più comprensibile se pensassi al corpo akasico dell’individuo, al corpo akasico dell’isola akasica, al corpo akasico della massa akasica; quindi 1, 2 e 3 e poi l’Assoluto, che comprende tutti i corpi akasici.

D - Sempre più aggregato?

Sempre più aggregato, certamente; per arrivare all’aggregazione totale, che non può essere che l’Assoluto.

D - Ma la consapevolezza di sé, completa, che il corpo akasico di ciascuno di noi raggiunge al termine di queste incarnazioni, quindi finita l’esigenza di incarnarsi, io la immagino come l’individuo corpo akasico si è sistemato; nel momento in cui passa a questi 3 livelli diventa parte di una individualità diversa oppure mantiene un qualche cosa di sé?

No, mantiene le proprie caratteristiche pur sentendosi parte del Tutto; è diverso.

D - Quindi non c’è un macro-organismo; si è parte di qualcosa di più grande …

No, è un macro-organismo, in cui però ogni cellula è consapevole del percorso fatto e condivide il suo percorso con tutti i percorsi delle altre cellule.

D - Ma il macro-organismo fa un percorso di auto-consapevolezza in sé passando attraverso i 3 livelli successivi?

Mamma mia, che cosa difficile!

D - No, perché sarebbe simmetrico! L’hai detto tu, nel senso che il singolo corpo akasico ha raggiunto la propria consapevolezza, raggiunge la consapevolezza di far parte di un gruppo e questa aumenta, ma quello che mi chiedo: questo gruppo … È come se pensassi al mio corpo e alle mie cellule; io ho una consapevolezza di me che è mia, magari le mie cellule sono dei piccoli micro-organismi che hanno un certo loro grado di consapevolezza, però noi di fatto non interagiamo; capisci? …

Non sono molto d’accordo che non interagiate, comunque …

D - Sì, no, che non interagiamo era la parte meno furba, … era per capire se diventiamo parte di un organismo diverso o …

È diverso soltanto perché si amplia ma, in realtà, continua a mantenere la parte che già c’era aggiungendone dell’altra; quindi non è mai diverso, è sempre se stesso però ampliato. D’altra parte, è l’analogo della vostra comprensione: la vostra comprensione non è mai «diversa», semplicemente si amplia e si completa.
La stessa cosa che accade nel vostro corpo akasico durante le vostre incarnazioni, accade dopo che il vostro corpo akasico ha finito di farvi incarnare e amplia la sua coscienza unendola con le altre coscienze che hanno raggiunto il suo stesso Sentire, sempre di più fino a raggiungere il Sentire dell’Assoluto.

D - No, io pensavo che dopo il corpo akasico ci fossero ancora 3 corpi spirituali, riferiti al solo corpo akasico dell’individuo; invece, praticamente, al di là del corpo akasico singolo, ci sono queste realtà sempre più vaste, sempre più totali di consapevolezza che ci uniscono …

Che non è niente di nuovo; perché se voi andate a vedere nell’esoterismo più tradizionale, trovereste il concetto di nouri, che in qualche maniera è lo stesso concetto che ho presentato questa sera. Lo trovate anche su Internet, se volete. Avete anche questa facilitazione.

D - Come funziona il plagio?

Domanda tendenziosa, ragazzo mio! Eh, il plagio … Da che punto di vista lo vuoi osservare? Il punto di vista medico, psicologico, legale..?

D - Sì ma, posso dire..? Ma esiste davvero il plagio? Nel senso che c’è perché uno permette che ci sia, ma di per sé non esiste!

Chiaramente! Perché esista il plagio, ci debbono essere due componenti: la persona che plagia e quella che si lascia plagiare.

D - Però esiste una persona che plagia realmente?
D - Come intenzione, sì.

Diciamo di sì.

D - Ma anche in questa città?

Diciamo così: più che la persona che plagia, esiste la persona che tenta di plagiare. Allorché trova la persona che è disposta a farsi plagiare, allora la sua azione ha qualche effetto.

D - Forse è più corretto parlare di manipolazione?

Eh beh, ma come concetto più o meno siamo lì!

D - Scusa, ma … «la persona che si lascia plagiare» non è una valutazione superiore alla consapevolezza della persona che viene plagiata? … Non «la persona che viene plagiata», è più «che si lascia plagiare».

Dipende perché si lascia plagiare.

D - Eh, perché è ignorante, perché è inconsapevole, perché è sprovveduta, perché è ingenua … Molto spesso non è in grado di valutare il fatto che venga plagiata.

Perché non ha il coraggio di opporsi?

D - Perché gli fa comodo?
D - No, perché non è proprio in grado di realizzare il fatto che uno la stia plagiando!

Ah, ma se fosse così, senza dubbio la cosa sarebbe diversa. Molte volte, invece, non è proprio così.

D - Posso chiedere una cosa? Come si può tentare di aiutare una persona che non ha il coraggio di opporsi? Non si può?

No. Bisogna aspettare che trovi il coraggio di opporsi.

D - La crescita è sempre individuale, in sostanza!

Eh certo.

D - Ma in questi casi, è giusto far fluire la propria rabbia, perché la si sente, e lasciarsi agire, oppure …?

Ma direi di sì!
Creature, serenità a voi. (Scifo)
view post Posted: 4/9/2023, 10:23 Relazione: E' il suo karma (2005) - Do Ut Des - Do affinché tu dia
È “il suo” karma … Titolo strano (vero?), se riferito a una mia esperienza personale ma parlando del karma altrui …
Eppure, quando questo titolo mi fu assegnato, nell’agosto 2004, non ebbi alcun dubbio su che cosa avrei trattato … e mi sono messa subito all’opera. Meglio troppo presto che troppo tardi!
Poi, naturalmente, in tutti i mesi trascorsi da allora, ogni tanto apportavo al testo degli aggiustamenti, però l’evento di cui avrei dovuto parlare rimaneva quello, l’unico a cui avevo pensato sin dall’inizio.
Qualcuno mi ha ricordato recentemente che esiste anche il karma “positivo”, a cui io non ho nemmeno accennato … Ma il discorso si sarebbe allargato troppo e, in ogni caso, ciò di cui ho scelto di parlare riguarda entrambi gli aspetti del karma, che si intrecciano e si sovrappongono continuamente. E poi, in fondo, se sono qui a poterne parlare a voi, si può dire che il karma non è stato totalmente “negativo”.
In che modo ho utilizzato l’Insegnamento delle Guide nella mia vita, in particolare rispetto agli “incroci” di karma?
Beh, io ho incontrato l’Insegnamento “nel mezzo del cammin della mia vita”, esattamente nei pressi del mio 40° compleanno (anche se non credo proprio che raggiungerò gli 80!!).
In quel momento si stava mettendo in moto l’ingranaggio karmico; o meglio, stavano per arrivare a valanga gli effetti karmici che mi avrebbero - alquanto bruscamente e dolorosamente - portata alla ricerca dei “perché”; dapprima urgentemente personali e poi universali.
È cominciata con la scoperta di un insospettato problema cardiaco (respiravo con fatica durante una settimana bianca in montagna); poi la morte di mia nonna, per cui dovetti trovare una sistemazione per mia madre, che abitava con lei; contemporaneamente mi capitò un incidente stradale piuttosto grave, i cui esiti, peggiorando nel tempo, mi affliggono tuttora.
Durante la convalescenza (nell’81) “per caso” vidi in TV un programma che parlava del buddismo Zen, e presi contatto con chi stava allestendo dei corsi di meditazione zen nella mia città. Lo frequentai per 4 anni e in quella sede trovai qualcuno che un giorno mi prestò un libro del Cerchio Firenze 77 … Lì mi apparve una strada sulla quale … cominciai a correre! E il passaggio alle Guide del Cerchio Ifior – scoperte nell’84, fortuitamente, attraverso un’amica del Cerchio Firenze – rappresentò davvero una svolta decisiva per la mia vita.
Ma gli effetti karmici non erano finiti: sono stata sottoposta ad un intervento al cuore, andato tecnicamente bene ma che mi ha lasciato, con la trasfusione del sangue, una bella epatite inguaribile. Poco dopo, contemporaneamente all’improvvisa malattia di mia madre, che avrebbe posto fine alla sua vita dopo diversi mesi di sofferenze atroci, ho scoperto che mia figlia maggiore faceva uso di droga e che era ormai arrivata ad uno stadio abbastanza avanzato, cioè all’eroina.
Non avendo nessun aiuto da mio marito (diceva che, più o meno, lo fanno tutti i giovani, e poi che era una sua libera scelta), per decidere come comportarmi mi sono rivolta immediatamente ad una struttura privata, il Centro Italiano di Solidarietà, presso il quale mia figlia (dopo la minaccia di essere cacciata di casa) iniziò i colloqui con gli operatori per stabilire se meritava di essere accolta.
Proprio in quei giorni mia madre morì, e con lei la mia famiglia d’origine poteva dirsi del tutto scomparsa.
Sono così iniziati 10 anni di esperienze durissime, indicibili, densi di alterni momenti di speranza e disperazione, di fallimenti, di ricominciare da capo e perdere tutto di nuovo, per più e più volte, … sembrava non dovesse finire mai …
Le difficili “prove” a cui la vita mi stava sottoponendo erano strettamente compenetrate, una dentro l’altra, come le matrioske : mio marito non solo non mi fu d’aiuto nel tentativo di recupero della figlia, ma il suo comportamento irresponsabile addirittura la danneggiava; per cui, alla fine del percorso, quando mia figlia sarebbe finalmente tornata a casa, dovetti decidere di divorziare. E, certamente, questo sfascio della famiglia ha procurato molta sofferenza a tutti noi, anche alla figlia minore.
Veramente oggi mi chiedo dove ho trovato la forza di fare tutto quello che ho fatto; ma forse lo so, … e non finirò mai di ringraziare sentitamente le Guide e chi mi dà la possibilità di contattarle. Il mio affetto e la mia sincera, infinita riconoscenza per gli Strumenti vanno ben oltre le parole!
Oggi posso dirmi abbastanza tranquilla, le figlie mi hanno regalato 3 bellissimi nipotini e – pur se qualche temporale non manca mai – riesco a guardare con una certa serenità, finalmente senza grossi sensi di colpa, quello che è stato il mio disastrato percorso; credo di essere riuscita, almeno un po’, ad accettarlo … Mi ha stupita anche intuire (forse) il filo logico che lega il nostro karma familiare: prima quello di mia nonna, poi di mia madre, poi il mio, quello di mia figlia, e credo non sarà facile nemmeno per la sua bambina, che a 6 anni già si trova con i genitori divisi.
Un giorno, però, non molto tempo fa, un pensiero folgorante si è affacciato alla mia mente in merito al fattore “accettazione del karma altrui” ed ho visto quanto era stata diversa la mia reazione (nell’infanzia e nell’adolescenza, ma poi protratta fino alla maturità) verso mia madre, qual era stata la mia reazione “ai suoi errori”, per cui già allora, chiudendo una mia porta interiore, l’ho lasciata “al suo karma”, non aiutandola assolutamente ad affrontarlo; mentre invece con mia figlia ho combattuto con tutte le mie forze, con ogni mezzo possibile, “come se” il suo destino dipendesse da me, pur sapendo benissimo che non è così.
Due modi diametralmente opposti di “vivere di riflesso” il karma personale degli altri, che viene ad intrecciarsi strettamente con il nostro ed a rivelarsi essere, in realtà, una parte integrante del “nostro” karma; ragion per cui oso sperare che l’Insegnamento mi sia servito almeno per comprendere questa sfumatura: che ciascuno ha un suo karma personale (non punizione, ma “programma di apprendimento/recupero per i testoni”) e che il senso di responsabilità dovrebbe indurre a condividere totalmente la vita degli altri, a non lasciarli mai soli ma invece sostenendoli, aiutandoli al limite delle proprie possibilità, senza però disperarsi se il risultato positivo non dovesse essere raggiunto. L’importante è avere fatto la propria parte fino in fondo, con fermezza, perdonandosi poi per quello che non si è proprio riusciti a fare.
Non so rintracciare il brano originale dell’Insegnamento, ma mi sembra di ricordare che:
“se l’altro dovrà subire una cosa, la subirà comunque e i nostri sforzi sembreranno vani; però, per quanto ci compete, noi li avremo fatti”.
Certo, anche il senso di responsabilità non è sentito sempre e da tutti allo stesso modo; è diverso sia tra le varie esperienze di un individuo, sia tra un individuo e un altro. Mi sembra sia stato detto che è una qualità del sentire; pertanto anche quello deve essere conquistato personalmente e ampliato nel tempo.
Gli avvenimenti veri e propri – i “fatti”, le “azioni” – in senso assoluto non hanno una eccessiva importanza, perché nessuna esperienza si può definire “giusta” o “sbagliata” dato che, in ogni caso, fornirà al corpo akasico dei risultati utilizzabili per l’allargamento del sentire; e il fine ultimo dell’incarnazione sul piano fisico è quello: la completa strutturazione della coscienza individuale.
Certamente, dal punto di vista umano, dal punto di vista della responsabilità personale, non mi è di nessuna utilità ricorrere all’ineluttabilità del karma individuale, ma sono ben consapevole degli errori che io, personalmente, ho commesso nei confronti di tutti coloro che hanno fatto e fanno parte della mia vita. Ed è questa la cosa più dura da affrontare: constatare quanto ha inciso e spesso danneggiato le vite altrui il mio comportamento totalmente egocentrico.
Pertanto, al momento sono arrivata alla conclusione – teorica, che vorrei tanto riuscire a mettere in pratica! - che è di estrema importanza riuscire ad accettare il proprio karma (l’unica via che ci permette di “imparare” e, quindi, di “crescere”) e quello altrui, soprattutto comprendendo che non sono distinti, separati l’uno dall’altro: “il suo karma è il mio karma”, perché nel mio percorso è stato necessario quell’evento che, illusoriamente, può sembrare causato da qualcun altro mentre invece collima con “miei” errori e deve insegnare qualche cosa di importante “a me”.
Accettare il karma credo significhi anche saper accettare i “corpi” di cui si dispone, gli eventi spiacevoli (malattie, tragedie e sconfitte varie) che si presentano sia a noi, in prima persona, che a chi ci è caro (figli, genitori, parenti, amici,..), accettando inoltre gli altri così come sono, senza ostinarsi a volerli diversi o migliori di quello che riescono ad essere, arrivando alfine a quel “Sia fatta la Tua volontà e non la mia” che, solo, potrà porre fine ad ogni sofferenza.
Che cosa significa “Sia fatta la Tua volontà e non la mia”?
Significa che non c’è più l’ “Io voglio”, non c’è più l’ “Io”, non c’è più il sentirsi un ente separato dalla Realtà e soprattutto dagli altri. E qualche volta, magari in piccolissima, infinitesima parte, magari per qualcuno che ci è particolarmente caro, possiamo riuscire a farlo.
Auguriamoci, quindi, di arrivare quanto prima ad unirci alle nostre preziose Guide nel dire:

Io non sono nulla,
sono una piccola goccia di pioggia durante un temporale,
un minuscolo granello di sabbia in uno sconfinato deserto,
un ago di pino in un bosco di conifere,
un fiocco di neve in una tormenta,
un meteorite in un cielo popolato da miliardi di stelle;
eppure, senza di me,
quel temporale, quel deserto,
quel bosco e quel cielo
non sarebbero più gli stessi.
E questo, già da solo,
mi dovrebbe rendere felice di esistere
e di far parte di Te, Padre mio. (Hiawatha)


“Essere consapevoli del compito, del ruolo che la vita di ogni giorno vi induce a fare... Ma quale è questo compito? Quale può essere questo ruolo che deve portare ognuno di voi, così come ognuno di noi, a vedere il suo simile come una parte di sé?
Il compito è quello di asciugare la lacrima non appena essa spunta dal ciglio dell’amico;
è quello di tendere la mano per porgere aiuto prima ancora che questo venga richiesto;
è quello di sorridere con chi è felice e di indurre al sorriso chi felice non è;
è quello di sorreggere il fratello che sta per cadere; è quello di non condannare il fratello
che ormai è caduto; è quello di non giudicare se l’altro che sta di fronte non la pensa come te ed è completamente diverso da te. È quello insomma, sorelle, è quello insomma, fratelli, di dimostrare anche nel più piccolo gesto che tutto quanto è solo Amore.” (Viola)

Il morire a se stessi e il rinascere nuovi ogni giorno (che, poi, son quasi la stessa cosa) significa semplicemente saper buttare via le verità costituite. (Gneus)

“Vedo il tuo desiderio di essere felice, figlio e fratello, e in esso riconosco intatto lo stesso desiderio che ha fatto parte del mio passaggio nel mondo materiale.
Io ho cercato la felicità nel sentirmi più forte degli altri, ma la mia forza si è sempre dimostrata fragile come il vetro allorquando mi sono disposto ad osservare me stesso.
Io ho cercato la felicità nel sentirmi più grande degli altri uomini, fregiandomi di titoli, corone, appellativi altisonanti e ogni genere di orpelli che mi potesse distinguere dagli altri, ma ho dovuto abbandonare questa mia illusione di grandezza nel momento stesso in cui mi sono riconosciuto nella morte.
Io ho cercato la felicità nel possedere, convinto che chi possiede di più vale di più, ma questa mia felicità si è dissolta come neve al sole nell’attimo in cui ho capito che neanche il bene più prezioso che possedevo poteva darmi quella piccola goccia d’amore che mi serviva per rendere meno vuota la mia solitudine.
Io ho cercato la felicità nell’appagamento della mente, facendo di me stesso un divoratore di parole e di conoscenze, ma venne il giorno in cui la mia felicità si infranse miseramente nell’accorgermi che la mia sapienza era sterile se non poteva essere condivisa.
Io ho cercato la felicità nella religione, riempiendo i miei giorni e le mie notti di rituali ossessivi, di tecniche spirituali volte al raggiungimento di Lui, ma anche questa felicità durò soltanto fino a quando mi resi conto che, per conoscere Lui, dovevo prima conoscere me; e che nulla, invece, di me conoscevo.
Allora ho maledetto la felicità, negando tutto ciò che avevo fatto in precedenza, rifiutando ogni avere, diventando un relitto senza meta, facendo dell’ignoranza il mio vessillo e della bestemmia la mia spada, lasciando agli altri la speranza di essere felici.
Infine ho dimenticato l’esistenza della felicità, ed essa è venuta, briciola dopo briciola, mentre, lentamente e spesso dolorosamente, svelavo il mistero che io ero per me stesso.
E allora ho danzato con la mia gioia interiore, ho cantato la bellezza del mondo, ho sognato splendidi sogni nell’azzurro del cielo, ho salutato Dio in una goccia di pioggia, ho posseduto l’amore per gli altri, mi sono sentito umilmente grande di fronte al mare, forte davanti alle avversità, tenero di fronte ai tormenti degli altri. E nulla, neppure la morte, ha più turbato la mia felicità.” (Rodolfo)
Ripropongo inoltre una favola di Ananda e Billy perché, secondo me, illustra alla perfezione la difficoltà di accettare la propria realtà (il karma), mentre invece si vorrebbe sempre averne una migliore, più comoda ….. (Giuliana)

Om Tat Sat
Kali osservava Ozh-en che, incarnato in una pulce, succhiava il sangue del gatto che gli faceva da ospite e, ai suoi occhi di dea, la pulce manifestava il suo pensiero.
“Ah, che vita noiosa - pensava la pulce - un sorsino di sangue, una camminata in mezzo ai peli, costretta a seguire questo animale pulcioso per non morire di fame, limitata nei miei orizzonti dalla foresta di questi pelacci e dagli spostamenti di questo bestione che però, almeno, è più libero di me! Ah, se fossi lui!” sospirava.
Presa da un insolito momento di tenerezza, Kali diede un bruciante pizzicotto sul posteriore del gatto che si voltò irritato e prese a rosicchiarsi il pelo per eliminare il fastidio, riuscendo solo a schiacciare tra i denti Ozh-en. Kali osservò il suo discepolo - “finalmente contento”, pensava - mentre conduceva la sua vita da gatto.
“Così non può andare avanti - pensava il gatto - io ho sempre fame ma, se voglio non avere la pancia perennemente vuota, devo darmi da fare per acchiappare topi ... che, oltretutto, hanno un sapore schifoso! Vuoi mettere la bella vita che fa il bue: non solo è sempre a stretto contatto con l’uomo, ma questo gli procura l’erba più tenera d’estate e il fieno più croccante d’inverno!”
Kali meditò un attimo - giusto il tempo che il gatto fosse alla fine dei suoi giorni - se era il caso di arrabbiarsi, poi fu distratta da un’ape che passava e, quando riportò lo sguardo su Ozh-en, senza neppure accorgersene aveva esaudito il suo desiderio e ora procedeva placido in mezzo ai campi tirando l’aratro. Scrollando le sue molte spalle con noncuranza, riportò l’attenzione su di lui.
“Bel tipo quest’uomo, - stava brontolando il bue - lui se ne sta seduto tutto il giorno, con il suo bel cappello che lo ripara dal sole mentre io lavoro come un mulo portandolo su e giù per i campi con l’aratro, che mi fa schizzare la terra sulle zampe posteriori dandomi un prurito insopportabile. Se non fossi un bue vorrei proprio essere un uomo!”
Nel paese c’era la peste polmonare, e questo aveva messo così di buon umore la dea che fece mordere il bue da un topo infetto e, appena Ozh-en morì, lo fece rinascere in un uomo. “Sono troppo permissiva con lui” si disse, rimproverandosi bonariamente, Kali; così assorta da non rendersi conto di aver dimenticato di nascondersi agli occhi di Ozh-en.
“Ecco lì il massimo dei massimi! - esclamò tra sé, alla sua vista, Ozh-en - Se fossi Kali potrei fare e disfare, avere e distruggere, apparire e sparire...”
Kali corse via il più velocemente possibile dicendo tra sé e sé che questo no, non avrebbe potuto proprio concederglielo!
Om Tat Sat (Ananda e Billy)
view post Posted: 23/6/2023, 07:01 L'architettura della Realtà - Piccoli corsi
Non è certamente un caso il fatto che praticamente tutte le cosmogonie ovvero le teorie sulla nascita del Cosmo che si sono sviluppate sul pianeta nel corso dei secoli abbiano in comune la concezione di un elemento formatore del Cosmo che può venire ricondotto al concetto di vibrazione: dalla luce al verbo, dalle onde dell'oceano al canto, dalla contrapposizione/unione di yin e yang che dà sostanza e vita alla Realtà alla creazione di un Cosmo vomitato dal suo Creatore.
Anche noi, in fondo, non ci discostiamo da questo concetto comune dal momento che, infatti, abbiamo sempre indicato come strumento primo della creazione del Cosmo la vibrazione e, in particolare, la Vibrazione Prima, indicandola come ciò che mette in moto il processo creativo del Cosmo e che gli imprime non solo tutte le direttive di base che caratterizzeranno le componenti e lo sviluppo di quel particolare Cosmo ma anche il primo impulso che fornisce alla materia cosmica la spinta per strutturarsi e creare l'ambiente più adatto al propagarsi delle informazioni portate dalla Vibrazione Prima che condurranno all'avviarsi dei molteplici processi che si formeranno all'interno dell'ambiente cosmico per avviare e mantenere stabile e continuo il suo percorso evolutivo.
In definitiva, possiamo affermare che la Vibrazione Prima è il primo strumento che viene usato dall'Assoluto per costituire la realtà del Cosmo e che, per analogia con concetti già usati in passato, potrebbe essere concepita come l'immagine stessa dell'Assoluto. Senza dubbio non si tratta di una sua immagine totale, in quanto le informazioni che trasmette al Cosmo hanno certamente legami con il Tutto ma ne sono solamente una manifestazione parziale; d'altra parte, ovviamente, non può essere che così, altrimenti si dovrebbe arrivare a dedurre una corrispondenza e addirittura un'identificazione tra il Cosmo e il Tutto, che, dal punto di vista logico, sarebbe come arrivare a identificare la mela con il melo che l'ha generata. (Vito)
La Vibrazione Prima, dunque, è uno strumento che, come un gioco di scatole cinesi, contiene al suo interno almeno un altro strumento essenziale alla strutturazione del Cosmo e all'innesco dei processi che in esso operano, ovvero gli Archetipi Permanenti.
Se della Vibrazione Prima possedete ormai una conoscenza di base univoca e accettabile (anche se certamente non completa, dal momento che essa è talmente complessa che difficilmente potreste veramente abbracciarne l'ampiezza e a fare veramente vostra la totalità delle informazioni che essa contiene), degli Archetipi Permanenti, invece, avete una visione non molto strutturata anche se, per onestà, si può dire che abbiate per lo meno intuito e fatta vostra con una certa stabilità la concezione dell'influenza che essi hanno nell'indirizzare, nel richiamare verso la comunione col Tutto, ogni creatura che all'interno del Cosmo esegue il suo percorso evolutivo.
Ma sono certo che se vi chiedessi (come, d'altra parte, ho fatto di recente) quanti e quali sono gli Archetipi Permanenti, vi trovereste impreparati a dare una risposta certa a tale domanda e, tanto meno, a dare una risposta accettata e condivisa con tutte le altre creature che, assieme a voi, cercano di stare dietro a quanto vi andiamo proponendo in questi ultimi anni di insegnamento.
Per cercare di capire meglio la questione proviamo a seguire un percorso logico differente dall'usuale.
Tutta la Realtà, e non solamente quella di un singolo Cosmo, segue un percorso particolare che la conduce dall'Unicità alla Molteplicità o, per dirla in altri termini, che, partendo da un Tutto Unico, giunge a mettere in atto un suo virtuale frazionamento in elementi molteplici, ognuno piccolo frammento della Realtà dell'Assoluto. E, in questo modo, dà vita all'illusione del divenire, della dualità, della molteplicità delle forme, dell'evoluzione della coscienza, illusione vissuta come reale da ogni creatura che vive in un Cosmo a causa della sua limitatezza percettiva che non gli permette di riconoscere la sua totale ed eterna appartenenza al Tutto.
L'Archetipo dell'Amore, in quanto riflesso diretto della natura dell'Assoluto, racchiude in sé tutti gli elementi che all'Amore conducono, riunendo al suo interno tutti quei frazionamenti che, in seguito, daranno vita alla molteplicità dell'illusione ma che, data la loro natura di riflesso dell'Assoluto, non sono ognuno a sé stante ma sono strettamente interconnessi tra di loro e sono necessari e indispensabili per definirlo e completare la sua natura di specchio della Realtà del Tutto. (Rodolfo)

Questo cosa sta a significare, creature?
Sta a significare che l'Archetipo Permanente dell'Amore (ma a questo punto potremmo arrivare tranquillamente a chiamarlo l'Archetipo Permanente di Dio) è il primo Archetipo Permanente, dal quale discende l'intera Architettura della Realtà.
In quest'ottica possiamo arrivare ad affermare che, in termini strettamente logici, vi è un solo e unico Archetipo Permanente, appunto l'Archetipo dell'Amore, perché è ad esso che tutti gli altri archetipi possono essere ricondotti in quanto tutti, in qualche modo, sono suoi attributi necessari alla completezza delle informazioni che la Vibrazione Prima trasmette in tutti i Cosmi dell'intera Realtà.
Ci troviamo, così, a una sorta di struttura piramidale – come qualcuno aveva supposto – ma con una particolarità: non si tratta di una struttura costituita da un archetipo principale e da una serie di archetipi secondari ad esso collegati, bensì di una struttura piramidale interna all'Archetipo dell'Amore alla quale appartengono tutti gli attributi necessari alla sua completezza. Se volessimo essere pignoli potremmo chiamare le formazioni vibrazionali di questi attributi in maniera diversa per distinguerle dall'Archetipo Principale, ma preferiamo continuare a definire ognuno di questi elementi come Archetipi Permanenti, in quanto ognuno di essi possiede le stesse peculiarità che contraddistinguono l'archetipo principale: sono permanenti, invariabili e immodificabili nel tempo e nello spazio anche allorché entrano in contatto con le varie materie che compongono i molteplici Cosmi, e il loro raggio di azione sulla Realtà è ampio tanto quanto quello dell'Archetipo principale.
E' molto probabile che vi possa nascere la sensazione che questa sia una complicazione o una sottigliezza inutile nell'architettura della Realtà che vi stiamo delineando ma, credetemi, non è così!
Ci rendiamo perfettamente conto che cercare di farvi veramente comprendere la complessità dello sviluppo della Realtà sia un po' come cercare di fare entrare l'oceano in un'ampolla, ma, se vogliamo che il nostro costrutto filosofico non vada a carte quarantotto e presenti dei buchi logici non consequenziali, siamo spesso costretti pur cercando di essere il più semplici possibile su argomenti che indubbiamente non è facile semplificare senza travisarne il contenuto – ad affrontare anche sfumature apparentemente inutili o insignificanti.
In realtà la presenza degli attributi di cui stiamo parlando e che stiamo trattando alla stregua di veri e propri Archetipi Permanenti è necessaria e indispensabile a mantenere intatto il collegamento tra le varie parti della Realtà e a rendere fluido e senza interruzione il circolo delle energie al suo interno.
Vediamo se riesco a farvi comprendere il perché, partendo dall'evoluzione della coscienza dell'individuo.
Voi sapete che la coscienza dell'individuo amplia la sua comprensione e il suo sentire a mano a mano che avanza lungo il suo percorso evolutivo, adoperando i diversi strumenti a sua disposizione per acquisire una gamma vibrazionale del suo sentire sempre più vicina e più simile a quella sussurrata in continuazione, nel sottofondo della Realtà, dall'Archetipo dell'Amore in tutte le sue molteplici componenti.
Gli Archetipi Permanenti che fanno capo, ognuno di essi, a un attributo dell'Archetipo dell'Amore garantiscono la continuità vibrazionale tra l'Archetipo dell'Amore e le coscienze in via di evoluzione: a mano a mano che esse arrivano ad acquisire e a fare proprie le informazioni appartenenti a un particolare attributo dell'Archetipo dell'Amore il loro sentire si avvicina sempre di più all'identità vibrazionale con l'Archetipo dell'Amore.
E' un po' come se ognuno di voi dovesse arrivare sulla vetta di un'immensa struttura a gradini e riuscisse a procedere passo dopo passo salendo un faticoso gradino dopo l'altro. Se un gradino venisse a mancare la vetta diventerebbe chiaramente irraggiungibile. Gli attributi/archetipi sono i gradini che devono esistere per creare le condizioni affinché ognuno di voi possa avvicinarsi alla meta, e il fatto che ognuno di essi sia collegato non solo tra di loro ma anche e specialmente con l'Archetipo dell'Amore fa sì che qualunque coscienza e qualunque sia il percorso di esperienza che ha affrontato nel suo percorso possa sempre e comunque trovare gli elementi che gli permettono di avanzare su un nuovo gradino, più prossimo alla meta.
Nella vastità di questo immenso affresco creato dall'Assoluto può essere facile perdere di vista la stretta interconnessione e dipendenza tra i colori adoperati per dipingerlo.
Così può sembrare, a prima vista, che i due elementi di cui vi stiamo parlando ultimamente (ovvero gli Archetipi Permanenti e gli Archetipi Transitori) siano due fattori indipendenti tra di loro, anche a causa delle loro diverse qualità e caratteristiche.
Ciò che sembra rendere non omogenei tra di loro i due concetti facendoli percepire diversamente sono le loro definizioni di base: gli Archetipi Permanenti, essendo fissi, immutabili ed eterni, non possono essere definiti come dei processi bensì come degli strumenti (e mi auguro che abbiate chiaro nel vostro pensiero la differenza tra questi due termini... per sicurezza, comunque, vi suggerisco che lo strumento è qualcosa che è sempre uguale a se stesso, mentre il processo indica qualche cosa che muta nel tempo), mentre gli Archetipi Transitori sono chiaramente dei processi: essi, infatti, si formano sotto la spinta delle necessità di sperimentazione degli individui che contribuiscono alla sua formazione e si completano e si strutturano linearmente tra i due estremi evolutivi sperimentabili all'interno dell'Archetipo Transitorio offrendo agli individui ad esso collegati la possibilità di percorrere la sperimentazione tra questi estremi fino a terminare la sperimentazione del particolare aspetto di comprensione che quel determinato Archetipo Transitorio offre all'individuo che compie il suo transito verso un sentire più ampio.
Ma dove sta il punto di congiunzione tra gli Archetipi Transitori e gli Archetipi Permanenti?
Il punto di congiunzione è costituito dal fatto che ogni Archetipo Transitorio è il riflesso all'interno della molteplicità dei vari attributi che appartengono all'Archetipo dell'Amore e che la loro funzione nei confronti degli individui in via di evoluzione è quella di sperimentare direttamente, attraverso le esperienze di vita, ognuno di questi attributi, permettendo loro, in questo modo, di ampliare la loro coscienza avvicinando sempre più il loro sentire al flusso vibratorio degli Archetipi permanenti attraverso la sperimentazione e la successiva comprensione dei suoi molteplici attributi.
Indubbiamente ogni Archetipo Transitorio ha la sua ragione d'essere in un attributo dell'Archetipo Permanente dell'amore, e tutti concorrono ad aiutarne la comprensione e l'acquisizione da parte delle coscienze degli individui che ad esso sono collegati.
E il fatto che, per esempio, non si possa comprendere la fratellanza se non si è compresa l'amicizia e che non si possa comprendere l'amicizia se non si è compresa l'uguaglianza, e che non si possa comprendere l'uguaglianza se non si è compresa l'umiltà, e così via, crea il tessuto di Archetipi Transitori che permettono i collegamenti tra i vari elementi in gioco favorendo i collegamenti all'interno del corpo della coscienza dell'individuo i quali a loro volta finiscono col creare la spinta vibrazionale interna all'individuo per salire un ulteriore gradino della nostra simbolica piramide che conduce a ritrovare il contatto definitivo con l'Archetipo dell'Amore e, di conseguenza, con la Vibrazione Prima tracciando il percorso finale fino al ritrovamento della propria unità e appartenenza con il Tutto.
All'interno di questo intreccio che vi abbiamo appena descritto troviamo l'intero percorso dell'evoluzione della coscienza dell'individuo: in quest'ottica è forse più facile comprendere la fusione dei sentire data dal raggiungimento delle analoghe comprensioni riguardanti determinati attributi dell'Archetipo dell'Amore portando alla costituzione di quegli agglomerati di materia akasica che abbiamo chiamato “isole akasiche” (e, scherzosamente, “ciccioni akasici”), punti di passaggio verso quell'unificazione della materia akasica che finirà col permettere a ogni coscienza individuale di trovare, sentire e fare propria l'appartenenza e l'unità con l'Assoluto, chiudendo così il ciclo che dall'Uno porta al molteplice per ritornare all'Uno, sua reale e definitiva condizione d'esistenza al di fuori dell'illusione. (Scifo)
Quanto vi è stato detto fin qua può aiutarvi a capire (anche se non a comprendere veramente) la relazione che esiste tra Archetipi Permanenti e Archetipi Transitori e a fornirvi un'idea un po' più accurata sulla natura e la formazione degli Archetipi Transitori, oltre a indicarvi l'influenza che gli Archetipi Transitori hanno sulla formazione e lo svilupparsi delle diverse società attraverso il collegamento degli individui ad Archetipi Transitori comuni e all'influsso che essi esercitano sullo sviluppo sociale relazionando strettamente tale sviluppo a quello degli esseri incarnati che si trovano a vivere all'interno di un determinato contesto sociale.
Cerchiamo di ragionare assieme su questi punti.
Come abbiamo visto gli Archetipi Transitori sono riferibili ai vari attributi o aspetti che sono inclusi all'interno dell'Archetipo Permanente dell'Amore, elementi che appartengono a tale archetipo e che ne costituiscono il tessuto necessario affinché, grazie alle loro interconnessioni, si costituisca quella sorta di scala di comprensione lungo la quale il sentire di ogni individualità può continuare il suo percorso evolutivo avvicinandosi sempre di più all'identificazione con il fascio vibratorio della Vibrazione Prima, perseguendo, in questa maniera, un costante procedere verso l'identificazione di se stesso come parte integrante e indissolubile del Tutto. Tale processo si attua nel mondo fisico attraverso la ricezione e la decodifica da parte dell'individuo delle vibrazioni costantemente inviate nelle materie del mondo della percezione in cui l'individuo conduce il suo illusorio percorso evolutivo.
Questo significa che le vibrazioni di tutti gli attributi dell'Archetipo permanente dell'Amore arrivano a pervadere l'intero ambiente cosmico, trasmettendo alle varie materie le informazioni che li contraddistinguono. Per sua stessa natura, l'Archetipo permanente (che, ricordiamolo, non è sottoposto alla dualità ma reca in sé tutte le informazioni e tutte le gradazioni possibili appartenenti a un determinato aspetto – per fare un esempio nell'aspetto “Amore” contiene le informazioni di tutte le gradazioni possibili che riguardano tale aspetto, dall'amore più altruistico all'odio più intenso, nessuna di esse più giuste o sbagliate ma tutte necessarie per definirlo in maniera completa -) invia il suo fascio vibratorio contenente la totalità delle informazioni che lo definiscono, fino ad arrivare in contatto con le possibilità percettive dell'individuo incarnato. Questi, a causa dell'incompletezza del suo sentire e quindi alle sue limitate possibilità di decodifica, inevitabilmente recepisce soltanto quelle informazioni che rientrano nelle sue possibilità percettive le quali, come ormai sappiamo, sono strettamente correlate all'ampiezza del suo sentire che variano in continuazione di pari passo con esso.
Come conseguenza di questo fatto ogni individuo incarnato avrà un diverso modo di decodificare e interpretare ogni aspetto dell'Archetipo Permanente, in gran parte diverso (a grandi linee o, magari, solo per sfumature) dall'interpretazione che dello stesso aspetto avrà dato un altro individuo.
A questo punto possiamo riuscire a individuare la maniera nella quale prende il via il processo di formazione degli Archetipi Transitori.
Il corpo akasico dell'individuo recepisce le sfumature di comprensione acquisite nella sperimentazione sul piano fisico di un particolare aspetto e, ritenendole inadeguate, invia vibrazioni di richiesta di informazioni aggiuntive.
Queste vibrazioni di richiesta posseggono una loro ampiezza vibrazionale particolare che possiede una sua atmosfera che si propaga lungo il percorso dall'akasico al fisico. Lungo questo percorso entra in contatto con le atmosfere degli altri individui i cui corpi akasici inviano a loro volta la richiesta di ulteriori informazioni per comprendere meglio quel particolare aspetto e dall'incontro e collegamento tra tutte queste atmosfere vibratorie accomunate da un indirizzo condiviso, nasce quella formazione vibratoria comune che abbiamo definito Archetipo Transitorio.
Dal momento che a tale Archetipo Transitorio si trovano contemporaneamente collegate individualità con un livello di comprensione e, quindi di sentire, diverso, l'Archetipo Transitorio si struttura inglobando in un unico processo vibratorio le diverse capacità percettive, mettendo così a disposizione dei vari individui che si rapportano con esso i collegamenti necessari per poter sperimentare nuove possibilità di comprensione.
Ogni individuo collegato all'Archetipo Transitorio porta all'archetipo la sua porzione di comprensione e l'insieme delle varie porzioni di comprensioni forniscono all'Archetipo Transitorio una gamma complessa di vibrazioni corrispondenti a diversi gradi di evoluzione, lungo le quali l'individuo può spostarsi a mano a mano che acquisisce nuovi frammenti di sentire.
L'Archetipo Transitorio, quindi, diventa un processo che favorisce e alimenta l'effettuarsi dei processi evolutivi interiori propri di ogni individuo che ad esso è collegato e la sua ragione di esistere è data proprio dal bisogno di svolgimento dei vari processi individuali. Quando tali bisogni sono stati appagati l'Archetipo Transitorio non ha più sostegno vibrazionale e, di conseguenza, perde forza e si “scioglie”.
A questo proposito può sorgere il dubbio su come possa continuare ad esistere l'Archetipo Transitorio quando più solo poche individualità sono collegate ad esso e come possa esserci abbastanza forza vibrazionale per tenerlo in funzione; la risposta, per altro semplice da individuare, risiede nel fatto che, comunque, le comprensioni raggiunte da chi ha terminato la sperimentazione di quel particolare aspetto sono allacciate tra di loro all'interno delle “isole akasiche” e costituiscono un substrato vibrazionale che contribuisce al perdurare dell'archetipo transitorio fino a che ad esso è ancora collegata qualche individualità in via di sperimentazione.
Come certamente avrete notato ci troviamo ancora una volta a un ripetuto manifestarsi di processi simili che si replicano a vari livelli e somiglianti tra loro per le dinamiche che li animano secondo il principio universale nella Realtà dell'economia delle cause: il processo di formazione dell'Archetipo Transitorio con il suo collegare e tenere uniti i sentire di individualità in via di sperimentazione ricorda in maniera lampante (anche se con elementi costitutivi diversi) il processo di formazione delle isole akasiche in cui, analogamente, dei sentire strutturalmente vicini si collegano tra di loro dando vita a strutture che sono più ampie e complesse della semplice somma dei sentire che collega. (Ombra)
Da tutto questo nostro complicato ragionare mi sembra appaia evidente come, nel mondo della dualità, gli Archetipi Transitori abbiano una rilevanza non indifferente non solo per la struttura delle società ma anche per l'influenza che esercitano su ogni singolo individuo, influenza chiaramente diversa per ognuno di essi in quanto diverse sono le sfumature sia delle sue comprensioni che delle sue incomprensioni.
E altrettanto evidente mi sembra che risulti il fatto che l'esaminare l'influenza degli Archetipi Transitori di riferimento dell'individuo sul suo rapportarsi con la vita possa diventare un utile strumento per l'osservazione attiva dell'individuo che cerchi di individuare i perché che stanno alla base delle sue incomprensioni e, di conseguenza, dei suoi disagi interiori... il che ci riporta, ovviamente, al nostro percorso di individuazione della genesi dei somatismi che affliggono la vita dell'individuo incarnato.
Sperando di non avere preteso troppo da voi vi saluto con affetto! (Scifo)
Abbiamo constatato che diversi tra voi hanno notevoli difficoltà a seguire quanto stiamo spiegando in questi ultimi tempi, arrivando alla fine alla conclusione - ah, l'Io, come è bravo a trovare giustificazioni a se stesso! - che il Grande Disegno è troppo complesso e difficile per poter essere assimilato dalle limitate possibilità intrinseche alla vostra mente di individui incarnati sul piano fisico.
Non voglio addentrarmi nello stigmatizzare il fatto che, molte volte, con un po' più di buona volontà, di riflessione e di partecipazione attiva da parte vostra, le nostre parole vi sembrerebbero meno ostiche e più raggiungibili dalla vostra capacità di comprensione, né osservare che se vi stiamo parlando di queste cose non è per mandarvi in confusione ma perché quanto stiamo dicendo può essere da voi compreso e assimilato, dal momento che siamo qui per voi e che sarebbe senza senso se affaticassimo lo strumento e tutti voi senza che ognuno di voi avesse la possibilità di seguirci veramente lungo il percorso che vi stiamo suggerendo di provare a sperimentare.
E' necessario, comunque, ricordarvi, come facciamo spesso, che la struttura della Realtà è, in fondo, molto più semplice di quanto possa apparire a prima vista, e che si basa in larga parte, come abbiamo puntualizzato innumerevoli volte, sulla ripetizione più o meno costante di alcuni elementi, a ben vedere, in fondo, neppure poi molti.
In quest'ottica è possibile fare una classificazione di ciò che dà vita e struttura alla Realtà dall'Uno al molteplice usando una categorizzazione in effetti molto semplice, ovvero distinguendo gli elementi che concorrono a strutturarla semplicemente riconoscendo quali siano gli strumenti usati per costituire e dare forma alla Realtà e quali siano i processi che tali strumenti avviano per strutturare il molteplice secondo le direttive della Vibrazione Prima.
Ma, per poter seguire in maniera corretta tali considerazioni è necessario, prima di tutto, che abbiate una concezione chiara e univoca di cosa noi intendiamo per strumenti e cosa intendiamo, invece, per processi, concezioni che dovrebbero – almeno in teoria – essere facilmente intuibili da tutti voi sulla base di quanto siamo andati dicendo nel tempo ma che nella realtà delle cose e come conseguenza della vostra tendenza ad essere affrettati nel leggere le nostre parole, il che vi porta spesso ad essere approssimativi e superficiali probabilmente fa fatica ad arrivare in maniera corretta e precisa all'interno dei vostri processi di pensiero con la conseguenza che a tali vostre elaborazioni viene sovente a mancare o a essere carente il supporto logico/razionale che può aiutare a costruirvi una visione unitaria della Realtà di cui siete parte.
Il concetto di strumento non è certamente di difficile interpretazione: può essere definito come tale un qualsiasi elemento (non necessariamente di tipo fisico e materiale) che abbia determinate caratteristiche ben precise e costanti nel tempo e che serva da mezzo per ottenere un determinato risultato.
Per farvi un esempio terra-terra, è uno strumento il martello che usate per piantare un chiodo, ed è sempre costituito da un manico e da una parte usata per percuotere il chiodo e conficcarlo in un altro materiale, e mantiene le sue qualità peculiari sempre e comunque, perché tali qualità gli sono intrinseche e indispensabili per renderlo un attrezzo adoperabile in vista di un qualche intento “costruttivo” ben preciso. Tali qualità continuano ad appartenergli anche nel caso che esso non venga usato magari per un lungo periodo di tempo. Per questi motivi possiamo' chiaramente definirlo uno strumento.
Osservando questa definizione e mettendola in relazione con gli elementi su cui ci siamo soffermati nel tempo, mi sembra che non sia molto difficile etichettare alcuni di essi come strumenti e tra questi spiccano come fari nella notte la Vibrazione Prima e gli Archetipi Permanenti. Entrambi questi elementi, infatti, sono completi nel loro aspetto qualitativo e quantitativo e non subiscono variazioni o modifiche alle loro caratteristiche nel tempo e nello spazio anche allorché entrano in contatto e si propagano all'interno del mondo della molteplicità, e vengono adoperati dal Grande Architetto per costruire, secondo la Sua Volontà, un determinato ambiente in cui avviare i processi necessari a permettere, all'interno del molteplice e dell'illusione, l'evoluzione della materia, della forma e della coscienza che in esso andranno a svilupparsi.
Affinché l'esistenza della Vibrazione Prima e degli Archetipi Permanenti non resti fine a se stessa ma siano davvero degli strumenti è necessaria, secondo logica, la presenza di qualcosa su cui essi possano avviare i processi, così come sono deputati a fare. Ecco, così, che si rendono necessari ulteriori strumenti che definiscano, ad esempio, il loro campo d'attività.
Così troviamo lo strumento Cosmo che delimita lo spazio in cui tali strumenti dovranno operare.
Oppure l'Unità Elementare dalla cui aggregazione, densità e vibrazione si differenzia la materia all'interno dell'ambiente cosmico e che forma la base materiale da cui si sviluppano e si diversificano tutte le materie interne all'ambiente cosmico.
A ben vedere, quanto ho appena affermato potrebbe anche suscitare delle controversie: il fatto che la diversa aggregazione e vibrazione delle unità elementari portino alla costituzione delle varie materie (fisica, astrale, mentale e vi dicendo) può ingenerare confusione, in quanto è evidente che ciò avviene sotto l'influenza dei processi evolutivi e la formazione dei diversi tipi di materia che compongono il Cosmo suggerisce che ci si trovi di fronte non a uno strumento bensì a un processo.
Tale questione, tuttavia, può essere risolta facilmente ragionando da un altro punto di vista: nel momento in cui il Cosmo viene generato, prima che entrino in funzione i processi avviati dalla Vibrazione Prima, esso non è vuoto, ma è costituito da unità elementari (vale la pena ricordarlo: tutte uguali) in stato di quiescenza... per agganciarci a quanto già detto in passato si tratta di materia indifferenziata. Ed è da questa materia, immobile e indifferenziata che, come conseguenza delle vibrazioni portate dalla Vibrazione Prima, vengono avviati i processi che portano alla differenziazione e all'evoluzione delle varie materie arrivando a formare in successione quelle unità elementari fisiche, astrali e mentali che forniscono a ogni piano di esistenza le peculiari caratteristiche che lo contraddistinguono.
Mi sembra evidente che la loro appartenenza alla Vibrazione Prima e il loro carattere di inalterabilità e sviluppo nel tempo indichi chiaramente che anche gli Archetipi Permanenti possano a loro volta venire inseriti nella categoria “strumenti”.
Non lasciamoci trarre in inganno dal fatto che essi entrino in gioco essenzialmente allorché ci si trovi davanti al manifestarsi del processo di evoluzione della coscienza, periodo durante il quale le creature hanno ormai costituito gli elementi interiori adatti a percepire e rapportarsi con ciò che gli Archetipi Permanenti sussurrano come sviluppo e meta del sentire dell'individuo nelle sue varie fasi evolutive.
Infatti, gli Archetipi Permanenti non sono inerti prima dello stadio dell'evoluzione della coscienza ma le loro vibrazioni, non percepite dalle creature dal momento che non sono ancora in grado di recepirne le informazioni che trasmettono, pervadono comunque il Cosmo.
Certo, la loro influenza si potrà manifestare e operare pienamente soltanto allorché vi saranno le condizioni adatte alla sua percezione da parte degli individui, tuttavia la Vibrazione Prima, nella sua complessa unitarietà, trasmette sempre e comunque, all'intero Cosmo, tutte le informazioni che la costituiscono, comprese quelle che concernono gli Archetipi Permanenti.
Prima di passare ad esaminare in maniera più approfondita di quanto abbiamo fatto in passato il concetto di processo, vorrei sottolineare ancora un particolare a proposito dei nostri ragionamenti su come va interpretato quello di strumento.
Nel nostro esame degli strumenti abbiamo esaminato gli strumenti più ampiamente e generalmente usati, quelli che riguardano, cioè, l'intera costruzione della Realtà Cosmica.
Ma noi sappiamo che la Realtà si diversifica in vari percorsi allorché i processi in atto al suo interno sortiscono i loro effetti, dando luogo alla molteplicità.
Viene spontaneo, allora, domandarsi se in questo percorso all'interno della molteplicità esistano ancora degli elementi con le caratteristiche che li potrebbero far definire degli strumenti o se, invece, tutto all'interno della molteplicità è sempre e comunque un effetto conseguente ai processi che in essa sono stati innescati.
Per fare un esempio concreto: il carattere (che abbiamo definito patrimonio fisso e immutabile di ogni individuo incarnato) può essere considerato uno strumento o no? Lascio a voi il compito di ragionarci sopra (sempre che vogliate farlo) e vedremo se il vostro interesse su tale questione sarà tale da suggerirci di ritornare, in futuro, su tale argomento.
Se, come abbiamo visto, il concetto di strumento è attribuibile, in ambito creazionistico, a un limitato numero di elementi chiaramente definibili come tali, ben più complesso e variegato è il concetto di processo. Come possiamo definire il termine in questione? Semplicemente basandosi sulle sue caratteristiche essenziali che sono quelle di esercitare un'influenza che porta alla trasformazione di ciò su cui il processo esercita la sua funzione, rendendolo qualcosa che, pur mantenendo una consecuzione logica, differisce da com'era prima che il processo adempisse al suo compito.
In altre parole, dal momento che i processi si manifestano all'interno del divenire e del molteplice, è definibile come processo tutto quello che traccia un percorso da un “prima” a un “poi”, per quanto ipotetici e relativi possano essere entrambi i termini.
Se dovessimo fare un elenco di tutti i processi che interessano il Cosmo ci troveremmo dinnanzi a una lista lunghissima.
Per esempio, sono processi l'evoluzione della materia, l'evoluzione della forma e l'evoluzione della coscienza per quanto riguarda l'intero ambiente cosmico.
E ancora, facendo riferimento all'evoluzione della coscienza e, in particolare, all'incarnazione dell'individualità nella forma umana, sono definibili come processi la reincarnazione, la formazione dell'Io e persino la percezione soggettiva della Realtà e l'illusione, dal momento che sono in continuo mutamento e trasformazione.
E, ancora, è un processo quello che porta alla costituzione degli Archetipi Transitori che vivono una fittizia vita di strumenti perché, certamente, essi agiscono e influenzano l'evoluzione della coscienza degli individui collegandola alla sperimentazione delle condizioni di vita socio-ambientali, tuttavia mancano di una qualità primaria che li renderebbe totalmente aderenti alla definizione di strumento che abbiamo stabilito in precedenza, cioè la loro continuità e inalterabilità nel tempo e nello spazio.
Non è a caso che ho parlato di “strumenti fittizi” poiché la maggior parte dei processi che percorrono la costituzione della Realtà porta di volta in volta alla formazione di temporanei “strumenti fittizi” che hanno un periodo di vita relativamente limitato e finalizzato all'innesco e all'attuarsi di particolari specificità di ogni processo, in funzione della corretta strutturazione vibratoria della Realtà, del suo equilibrio e della sua continuità.
Se vogliamo fare un esempio, possiamo pensare alla costituzione del corpo dell'individuo/uomo: esso è uno strumento fittizio, perché la sua creazione è temporalmente limitata (come minimo alla parabola di vita del singolo incarnato) la cui formazione ed esistenza è resa necessaria, nel processo cosmico generale, per offrire all'individuo in via evolutiva gli strumenti più adatti a favorire e a completare il processo di formazione ed evoluzione della coscienza.
Mi rendo conto che sto affrontando sottigliezze squisitamente filosofiche e che ai più questo mio messaggio sembrerà ridondante e di ben poca utilità dal punto di vista pratico e da quelle che sono le urgenze della vostra quotidianità.
D'altra parte le nostre parole sono rivolte a tutti voi: a quelli che si accontentano di restare in superficie e sono proiettati essenzialmente verso la speranza di trovare, attraverso di esse, delle risposte utili al conseguimento di un'esistenza il più possibile distante dalla sofferenza, a quelli che, invece, sentono il bisogno di comprendere in maniera più profonda e dettagliata (e, possibilmente, anche in maniera logica e razionale) ciò che li influenza e li condiziona, conducendoli ad essere ciò che sono e spingendoli a diventare ciò che saranno.
E per comprendere a fondo l'insieme è sempre indispensabile avere ben chiare le definizioni di ogni singolo elemento che lo strutturano. Non ci troviamo dinnanzi a due percorsi in contrapposizione: la differenza sta soprattutto nel posizionamento delle mete che ognuno di voi intende perseguire nel corso di questa vostra incarnazione e, procedendo lungo lo sviluppo del vostro processo evolutivo, i due percorsi arriveranno a rivelarsi per quello che veramente sono, ovvero complementari e non alternativi l'uno all'altro. (Scifo)

Om Tat Sat
“Non lo fare! – implorò la moglie – Abbiamo bisogno di te, tu hai bisogno di noi; ti amiamo, lo sai!”
Lui si fermò un attimo, poi si rigirò e scese dal davanzale.
“Oh, – sospirò con sollievo la moglie – mi fa piacere che le mie parole ti siano servite a qualcosa!”
“Non sono state le tue parole; è che, sotto, c’era posteggiata la mia automobile!”
Om Tat Sat

Ananda

(Intervento di Scifo)
Creature, serenità a voi.
“La struttura della realtà” … Io ho pensato che, tutto sommato, converrà fare l’interrogazione, in modo da poter ancora una volta imitare i dialoghi di Platone e cercare di esaminare assieme alcuni punti, facendo in modo che voi stessi ragioniate su quello che io dico, su quello che abbiamo insegnato in questi anni.
Chiaramente, per un argomento così difficile non posso far venire persone che da poco tempo partecipano a questi incontri; ho bisogno, quindi, di due “senatori” ferrati e che non si lascino mettere troppo in soggezione da me; quindi vorrei qua con me la figlia Paola e la figlia Giuliana.
Allora: mi sembra che è andato un po’ perso per strada il tema che avevamo dato: “la struttura della realtà”. Certamente sono stati esaminati i modi, i mezzi, alcuni elementi e così via, però forse la domanda principale mi sembra che sia rimasta senza risposta … Cos’è la realtà? Se non abbiamo ben chiaro di cosa stiamo parlando, è difficile riuscire a dare un apporto coerente a quello che intendiamo dire. Giusto? Allora sentiamo le nostre due amiche, qua, secondo loro cos’è la realtà.

Paola: è tutto quanto ci circonda. La realtà è l’universo, è tutto l’insieme di tutto quanto, che è così nel non-tempo; e, quindi, è quel che è! Noi facciamo parte della realtà come ne fanno parte gli animali, i vegetali, la materia in assoluto … Siamo un tutto unico.

Questo è il “Paola-pensiero”, ora sentiamo il “Giuliana-pensiero”, che ha avuto un po’ più tempo per pensarci, per calmare il cuore e, quindi, può anche dire la sua idea.

Giuliana - Io penso che la realtà sia composta da due aspetti fondamentali: quella che è la Realtà oggettiva e, in questa realtà oggettiva, sono compresi i singoli modi di percepirla, cioè le varie realtà soggettive; quindi bisognerebbe integrare, o per lo meno tenere presenti, questi due aspetti, cioè che noi possiamo soltanto concepire una “realtà relativa”, nostra, ampliandola sempre di più e avvicinandoci il più possibile alla realtà oggettiva.

Allora vediamo un attimo queste due definizioni. Per quello che riguarda la definizione di Paola, è stata chiaramente molto furba perché ha compreso nella realtà tutto e, con questo, si è messa al sicuro! Non è possibile fare domande aggiuntive, poiché tutto appartiene alla realtà; quindi, se tutto è reale, non c’è niente da dire; però, integrandola con quanto ha detto l’altra amica, forse è possibile ricavare qualcosa di più.
Certamente – Giuliana diceva – la realtà, la vera realtà, la Realtà (come diciamo noi) con la “R” maiuscola, può essere differenziata da quella che è la realtà relativa, soggettiva, di ogni persona … o di ogni essere vivente, diciamo, in generale… e su questo possiamo essere d’accordo. Questo contempla come valido quanto diceva l’amica Paola, le due cose si integrano in qualche modo; però, se ci pensate bene, non è una dicotomia tra “Realtà assoluta” e “realtà relativa”, non ci può essere dicotomia in quanto la Realtà assoluta, in realtà, proprio per il fatto di essere “Realtà assoluta” contiene in sé tutte le realtà relative; quindi la Realtà vera e propria è soltanto una! Tutte le altre realtà, quelle soggettive, sono realtà “irreali”, fittizie, e rese reali soltanto dalla percezione di chi le osserva. Vi ricorda niente questo discorso? Certamente: vi ricorda lo stesso discorso che avevamo fatto a proposito dell’IO. Anche l’IO - abbiamo detto - è un’entità illusoria, in realtà “irreale”, che sembra avere realtà soltanto perché l’osservatore che lo manifesta lo vive come tale (giusto?); quindi, questo stesso discorso si può fare per la realtà. Se vogliamo parlare di “realtà”, bisogna parlare di realtà nel suo modo più assoluto, e il suo modo più assoluto, ovviamente, è tale per cui si può dire – come ha detto l’amica Paola – che la realtà comprende tutto.
Forse è bene specificare cosa si intende per “tutto quello che comprende”. Giriamo le cose: facciamolo dire a Giuliana cos’è questo “tutto”.

Giuliana - “Tutto” penso che voglia dire che ci sono tutti i piani di esistenza, anche, dentro; nel senso che bisogna considerare anche tutti i livelli ai quali esiste questo “tutto”… Tutti i piani, … non mi viene un altro termine. Forse, appunto, è reale il percepito (per ciascun percepiente, diciamo, è reale) su tutti i livelli; l’importante è avere la ricezione predisposta …

Aspetta, ti do un aiuto. Vediamo la Realtà assoluta in rapporto all’individuo: l’individuo com’è in rapporto alla Realtà assoluta? Qual è la Realtà assoluta dell’individuo? ( … ) Non t’ho aiutata, mi sa!

Giuliana - No, … quella che riesce a percepire; ricasco sempre lì.

Eh no, quella è la realtà relativa!

Giuliana - Sì, relativa. … È difficile questa!
Paola : La realtà assoluta dell’individuo, secondo me è l’individuo stesso, nella sua complessità, costituito dall’akasico, astrale, mentale …


Se pensate bene a quanto abbiamo detto in tutti questi anni, se prendiamo l’individuo abbiamo la sua costituzione in vari corpi; giusto? I corpi fisico, astrale, mentale, akasico, e via e via e via e via e via; limitiamoci a quelli che più comunemente citiamo.
Il corpo fisico non è una realtà assoluta, perché viene perso, abbandonato per strada, si disgrega, ritorna nel suo stato di materia scomposta, quindi non lo può essere. Il corpo astrale è un corpo di emozioni, è un corpo che, anch’esso, alla morte dell’individuo, all’abbandono del corpo fisico, si trasforma e viene un po’ alla volta a scomparire. Il corpo mentale, allo stesso modo, ha una vita che forse è un pochino più lunga degli altri due corpi, però, alla fine, anche il corpo mentale del Pinco o del Pallino rientrano nell’insieme della materia diciamo “indifferenziata” del piano mentale. Il corpo akasico è una realtà assoluta?
Ho sentito un po’ di “sì” e un po’ di “no”.
Allora: Paola ha detto di no; Giuliana cosa dice?

Giuliana - La trovo una realtà … difficile da stabilire perché è transitoria però, se osserviamo che la coscienza è già costituita e si deve solo riscoprire, c’è da unire questi due aspetti; perché da una parte è la realtà assoluta di quell’individualità e da una parte, però, è mezza scoperta e mezza da scoprire.

Diciamo che può andare abbastanza bene questa definizione. Senza dubbio, la parte della coscienza dell’individuo che è ancora sempre collegata alla Realtà assoluta fa parte della Realtà assoluta; la parte in divenire, in via di formazione, di scoperta, di strutturazione (o come volete dire) della coscienza dell’individuo fa parte, in realtà, della realtà soggettiva ed individuale di ogni individuo. Non è che il corpo akasico in via di strutturazione della nostra amica Giuliana è una Realtà assoluta; se fosse assoluta, il suo corpo akasico in strutturazione andrebbe bene per tutti gli altri individui.
Giuliana – Certo. Sarà così quando sarà completo.
Quindi, la coscienza può essere parte della Realtà assoluta soltanto allorché diventa uno strumento che può essere usato indifferentemente da qualunque individuo che la usa, cioè quando fa parte della Realtà assoluta. Vi sembra chiaro questo? (R: Sì.)
Ovviamente, quella che noi chiamiamo “la Scintilla”, “il Sé”, la parte più interiore dell’individuo, quel legame che l’individuo ha con l’Assoluto, fa parte dell’Assoluto, quindi fa parte della Realtà così assoluta che più assoluta non si può!

D – Posso? Quindi, sintetizzando, c’è la Scintilla che fa parte della Realtà assoluta in toto, e il corpo akasico … ehm …
Diciamo che è una “Realtà Assoluta in divenire”, diciamo così; anche se, chiaramente, come termine non è preciso, non è esatto – logico, ovviamente – perché, se fosse una Realtà Assoluta, non diverrebbe ma “sarebbe”; però, per farvi capire, possiamo accettare per il momento questa risposta.

D - Io pensavo che i piani, piano astrale, piano mentale, fossero una realtà provvisoria. Quando gli esseri si sono tutti evoluti, non c’è più bisogno …

Direi che pensavi giusto.
E questa era la definizione, a cui volevamo arrivare, di “realtà”.
Capisco che, se avesse dovuto veramente affrontare la struttura della realtà, l’amico A. avrebbe avuto bisogno di più e più vite per poterla affrontare, però ci sono alcuni elementi che vorrei che consideraste e approfitto di questo dialogo platonico tra voi e me per cercare di sottolinearvi alcuni punti su cui, magari, potrete - se vorrete, se vi interesserà farlo – meditare. È chiaro che la Realtà ha una sua struttura; deve averla, altrimenti non sarebbe reale; giusto? Cos’ è – al di là della risposta più ovvia, che potrebbe essere “l’Assoluto” – che tiene assieme questa struttura; e non soltanto, ma che le permette di essere in quel modo invece che in un altro?

Giuliana – La Vibrazione Prima
.
Questa è la prima risposta tua, sentiamo la risposta dell’amica Paola.

Paola – No, concordo.

Concordate tutti?
Sbagliate tutti! O meglio, … (no, non voglio essere così categorico) … certamente la Vibrazione Prima è quella che – come abbiamo visto, nel tempo – dà il modo di svilupparsi, di esistere, di essere stabile alla Realtà assoluta, però vi è uno strumento particolare che le permette di essere e rimanere strutturata com’è e che contribuisce ad aiutare la Vibrazione Prima a tenere assieme la costituzione di questa Realtà assoluta.

D – Il nostro psichismo.
Giuliana – Mi è venuto in mente l’Io.


Ah, siete troppo ottimisti, cari! Ci vuol tutta che il vostro Io riesca a tenere ferma la vostra realtà relativa, figuratevi quella assoluta!

D – L’ambiente.
D – Gli archetipi.
D – I nostri cinque sensi.


C’è una sola persona che ha detto la risposta giusta, anche se non completa …

D - Gli Archetipi Permanenti.

Gli Archetipi Permanenti, esattamente. Gli Archetipi Permanenti, essendo una vibrazione che accompagna tutta la Realtà per dare i modelli ideali di strutturazione della Realtà a chi vive soggettivamente e relativamente la realtà, aiutano la realtà ad essere com’è; e non soltanto, ma c’è una stretta dipendenza tra com’è la Realtà e come sono gli Archetipi; quindi tra com’è la Vibrazione Prima e come sono questi archetipi, queste vibrazioni accessorie che fanno parte della Vibrazione Prima in realtà, sono una parte consistente e importante ma sono una sorta di supporto all’andamento della Vibrazione Prima. Capite la bellezza della cosa? … e la complessità, ovviamente, della cosa. Avete da chiedere qualcosa, mie care ragazze?

D – Quindi non sono a fianco alla vibrazione, fanno parte della vibrazione gli Archetipi Permanenti?

Giuliana – No. Direi che credo di capire in che senso gli Archetipi Permanenti … (perché appunto è proprio un meccanismo e, quindi, il primo meccanismo che fa sì che tutto si svolga in un certo modo, al di là che “gli ordini” (diciamo) li porta la famosa Vibrazione Prima, a cui in fondo tutto fa capo e, quindi, diventa anche inutile citarla) è proprio questo riunirsi delle coscienze per formare gli archetipi transitori, come hai detto. È quello che dirige un po’ le situazioni che si vengono a creare; certo.

Come giustamente hai detto tu, la Vibrazione Prima è persino inutile citarla perché è un po’ come l’Assoluto; no? Val la pena tenere conto che c’è – o che si pensa che ci sia – però, tutto sommato, poi, nell’economia della realtà soggettiva delle persone, è un concetto che potrebbe anche non essere compreso; perché, senza dubbio, osservando dal punto di vista relativo dell’individuo incarnato che deve fare la sua esperienza, sapere o concepire la presenza di una Vibrazione Prima o di un Assoluto potrebbe essere completamente indifferente alle sue possibilità evolutive; quindi, tutti voi, che a volte vi sentite fortunati per poter aver acquisito questi concetti, ricordatevi che la vostra sensazione di essere fortunati non è altro che una reazione dell’IO perché, grazie a questi concetti, pensa di essere in qualche modo un prediletto dall’Assoluto.

Giuliana – Posso? A me dà un po’ fastidio questa cosa dei “prediletti”, perché … per carità, ci sarà questa possibilità, però io penso che si possa sentirsi “contenti” diciamo (senza bisogno di “prediletti”) per il fatto che si ha una propria ansia di sapere, una predisposizione verso la ricerca dei perché e, di conseguenza, trovare delle risposte dà quel senso di appagamento, senza bisogno che sia “sentirsi un eletto”!
D – Sì, questo è vero.
Paola – Sono d’accordo anch’io, perché non mi sento affatto privilegiata; era una mia ricerca, un mio desiderio di sapere e di capire; e poi, tra le tante risposte che uno sente o crede di percepire, sceglie quelle che più sono consonanti alla propria reazione, alla propria coscienza e va avanti; quindi questa era quella che, per me, danno le risposte più giuste e migliori, e mi sento consonante quindi; però non mi sento privilegiata, è una ricerca, un bisogno che avevo io e basta.

Questo non significa che, se è così (supponiamo che sia davvero così) per voi, sia così anche per gli altri!
E con questo, creature, serenità a voi!
Scifo

Om Tat Sat lacrime gli gocciolavano dagli occhi.
“Non ce la faccio più! – diceva – Come faccio a continuare a vivere così, chiuso in questa grotta, senza avere più il corpo, senza nessun motivo per il quale vale la pena di vivere?”
Accanto a lui, all’improvviso, si materializzò Kali.
“È inutile che vieni, perché tanto non mi puoi fare di peggio di quello che sto già vivendo! Non posso neanche suicidarmi! Come faccio a buttarmi giù dal capitello?! Potrei muovere la mascella, muovere gli occhi, muovere le orecchie, persino soffiare dal naso; ma, anche se riuscissi a cadere, certamente da questa altezza mi schiaccerei il naso e basta; quindi non posso neanche farla finita! Mi avete tolto tutto: il corpo, la vita, la persona che amavo l’avete fatta morire ai miei piedi; ma cosa volete ancora da me? Lasciatemi morire una volta per tutte e che io finisca la mia esistenza nella Realtà!”
Kali schioccò le dita e Ozh-en si ritrovò all’improvviso di nuovo col suo corpo; era sulla cima della palma più alta della foresta, con le piante dei piedi appoggiate su due noci di cocco e, guardando giù, vedeva lontano un terreno nudo e scabro, pieno di pietre.
“Questa è la situazione buona, – disse Ozh-en – finalmente hanno fatto davvero qualcosa per me, finalmente posso farla finita una volta per tutte!”
Accanto a lui si materializzò Krsna, con la sua solita piuma di pavone tra le dita.
“È inutile che cerchi di dissuadermi, – gli disse Ozh-en – ormai la mia decisione è presa!”
Krsna lo guardò bene, prese la piuma di pavone, sfiorò la testa di Ozh-en e Ozh-en cadde dalla palma.
Om Tat Sat

Ananda

La pace sia con tutti voi, figli.
È difficile poter comprendere la realtà degli altri e il bisogno degli altri. Krsna e Kali, che tormentano così il nostro amico Ozh-en, non lo fanno certamente per farlo soffrire ma lo fanno per farlo comprendere.
Krsna che fa cadere Ozh-en dalla palma non è per un atto di IO egoistico, di umano egoismo, ma perché Krsna sa ciò di cui ha bisogno Ozh-en in quel momento.
Ora, dall’esempio che avete fatto oggi, certamente non potete essere né dei Krsna né degli Ozh-en, perché voi comunque non avete la possibilità di capire veramente ciò di cui l’altro ha bisogno. Certamente potreste anche voi spingere l’altro giù dalla finestra, e potrebbe magari, chissà, essere anche la cosa giusta per l’altra persona, ma come potete sapere con certezza, con l’ampiezza totale del vostro sentire che quella è veramente la cosa giusta da fare? Certamente non vi è possibile, figli; certamente non vi è possibile vedere la persona che sta accanto a voi ed invecchia, e soffre, e sembra star male, capire se è giusto porre fine ai suoi giorni, se è giusto voltare la testa dall’altra parte, se è giusto arrabbiarsi perché magari non dà gratificazione per tutto quello che si fa per lei; quello che tutti voi soltanto potete fare in questi casi, è cercare di fare il meglio che potete fare. Non è detto che questo meglio sia il meglio che l’altra persona possa ricevere, ma deve essere il meglio che voi potete fare; e qual è il meglio che voi potete fare, figli? È fare o non fare quella azione che poi non vi porterà dei sensi di colpa.
Come qualcuno di voi ha sottolineato, ciò che si fa seguendo il proprio sentire non porta mai grandi sensi di colpa; quindi, quando voi analizzate ciò che avete fatto e avete dei dubbi sugli errori che potete aver compiuto, sul perché di certe vostre azioni, partite da questo fatto, cercate di comprendere quali sono i sensi di colpa che sono ancora in voi per ciò che avete fatto o non avete fatto; questo vi può dare la misura di quanto le vostre azioni erano dettate dalla limitazione del vostro sentire o quanto, invece, erano spinte da altri motivi, che erano più egoistici e che, magari, avreste potuto fare in maniera diversa o, addirittura, non fare.
Sono i sensi di colpa che vi danno la misura del vostro sentire, la misura della giustezza del vostro agire; quanto meno la misura del rapporto che c’è tra le vostre possibilità di agire e quella che è la vostra possibilità di comprensione in quel momento; perché, se non avete capito qualcosa, non potete farvene una colpa se agite in maniera errata.
Questa, in fondo, può anche essere una maniera per potersi consolare dei propri errori, ma attenzione, figli: non usate questo concetto per fare di voi degli individui che trovano sempre delle giustificazioni al proprio agire dicendo: “Non ho fatto questo (o ho fatto questo) perché non potevo fare altrimenti, non ero in grado di farlo”. Molte volte potreste fare e, in realtà, non fate. Tenete gli occhi aperti su voi stessi e osservate ciò che siete e ciò che potreste essere; questo è il metro che noi vi abbiamo dato in tutti questi anni e questo è il metro che voi dovreste adoperare il più possibile.
Che la pace e il nostro affetto siano con tutti voi, figli nostri.
Moti

Edited by gianfrancos - 23/6/2023, 08:51
view post Posted: 22/6/2023, 13:25 Relazione: Sii ciò che sei - Do Ut Des - Do affinché tu dia
“Sii ciò che sei”… ogni volta che ho letto il titolo dell’argomento che mi è stato assegnato, a parte i brividi lungo la schiena all’idea di affrontare un argomento che mi sembrava così difficile da definire, mi venivano in mente molte domande, alle quali ho cercato di dare poi una risposta. Se ci sia riuscito o meno non lo so, ma credo di avere capito quanto questo argomento sia fondamentale nella mia vita di tutti i giorni.
La prima domanda è proprio sull’effettivo significato della frase: in che senso “sii ciò che sei”? Se sono qualcosa, è ovvio che io lo sia altrimenti... sarei qualcos’altro! L’idea che ho trovato più significativa è che questa frase sia un’esortazione a lasciare uscire tranquillamente quello che sono (tanto, in un modo o nell’altro, verrà fuori); non solo per una semplice questione di evitare di andare incontro a sofferenza auto-imposta, ma anche perché in questo modo posso veramente osservarmi, altrimenti io stesso rischio di vedere non tanto me stesso quanto la versione di me stesso che desidero essere; e se è vero che l’evoluzione va avanti comunque, è anche vero che è nostro compito cercare di agevolarla il più possibile.
Ho cercato quali potessero essere le applicazioni pratiche di questo concetto perché non era mia intenzione portare come relazione un argomento filosofico ma cercare piuttosto di spiegare a voi, e contemporaneamente anche a me, qualcosa della mia interiorità. Dopo aver pensato parecchio, buttato giù lo schema della relazione... l’ho cancellato e rifatto da capo perché, di fronte ad un tema così ampio, ho finito per perdermi; ho deciso quindi di focalizzarmi su un aspetto fondamentale della mia personalità, ovvero le mie difficoltà nel rapportarmi con gli altri.
Fin da piccolo, infatti, ero noto per la mia riservatezza (più tardi sarei stato chiamato “la montagna misteriosa”) non tanto perché pensassi di non essere adeguato agli altri (al contrario, uno dei miei peggiori difetti è la superbia) ma perché scorgevo tra me e loro un divario che appariva ai miei occhi incolmabile. Ancora oggi, in effetti, le relazioni con gli altri non sono per me del tutto soddisfacenti: persino con le persone che mi conoscono meglio questo sentimento di estraneità, pur bilanciato in buona parte dall’affetto che mi lega a queste persone, rimane, lasciandomi comunque un leggero ma palpabile senso di insoddisfazione.
Vi chiederete, a questo punto, quale sia il legame tra queste affermazioni ed il titolo: ebbene, questa impressione di diversità, di alienità mi ha portato a sviluppare negli anni tutta una serie di comportamenti e atteggiamenti il cui scopo è, in sostanza, proteggermi dalle persone diverse da me (...tutti!). Direi che sono stato molto bravo in questo perché ho ottenuto una protezione quasi perfetta e, allo stesso tempo, le maschere che ho scelto fanno quasi sempre una buona impressione sugli altri, tanto che nella mia vita molto raramente sono stato trattato male o ho ricevuto dei rifiuti.
Questa difesa, insomma, è servita e serve tuttora egregiamente al suo scopo iniziale, ma è anche vero che essa è contemporaneamente la mia prigione: molte, moltissime volte non esprimo quello che penso o non riesco a farlo in modo diretto come vorrei e, molte altre volte, il mio pensiero resta celato anche a me stesso fino a quando non è ormai troppo tardi per renderlo fruttuoso. In questo senso tutto ciò mi ostacola nell’essere ciò che sono: non solo perché mi impedisce di manifestare la mia realtà interiore, il blocco è anche dentro di me e mi ostacola direttamente nella consapevolezza di quello che sento.
Questo è per me ormai un dato di fatto che, allo stato attuale delle cose, non mi va più bene. Se voglio cercare di modificare questa situazione, d’altro canto, devo per prima cosa capirne le ragioni; è chiaro che la mascheratura che ho messo su serve a difendermi da qualcosa, … ma da cosa?
Il primo elemento, quello a cui per anni ho attribuito la responsabilità e che rimane comunque una delle cause, è proprio il Cerchio. Essendo direttamente “nato nel Cerchio”, questo ha avuto fin da principio un notevole influsso sul mio sviluppo (specialmente mentale) portandomi ad avere fin dall’inizio una certa attenzione a quello che succedeva a me e intorno a me e, allo stesso tempo, mi ha indirizzato immediatamente verso il “conosci te stesso”: ricordo che, anche se in modo sicuramente più infantile, cercavo le ragioni del mio agire già da bambino. Se all’interno della famiglia questo mio orientamento era confermato dal fatto che gli altri, e in particolare i genitori (ricordiamo l’importanza dai genitori come modelli), seguivano lo stesso tipo di orientamento, all’esterno dell’ambiente casalingo mi sono presto dovuto rendere conto che non per tutti è così, anzi sono arrivato a concludere, probabilmente esagerando, che gli altri cercano di non farsi troppe domande: la nostra mentalità è una caratteristica rara, se non unica. Da questo conflitto tra il mio ambiente e il mondo esterno ha avuto origine la mia sensazione di diversità che, tuttora, mi spinge a vivere i rapporti con gli altri sempre con una certa dose di distacco, non riuscendo mai a partecipare del tutto a quello che sto facendo o dicendo. In sostanza, con il mio comportamento faccio in modo da evitare il più possibile le delusioni che i rapporti con gli altri spesso portano e che, nel mio caso, temo particolarmente perché confermerebbero la mia sensazione di non essere comprensibile dall’esterno.
In tutto il ragionamento fin qui esposto c’è però una falla che lo rende in realtà una spiegazione soltanto parziale di quello che succede dentro di me e cioè voi: se il problema fosse semplicemente la questione del Cerchio e la mentalità che esso induce, allora dovrei, almeno in quello che posso chiamare il mio ambiente, riuscire a comportarmi in modo più fluido e a lasciare uscire quello che sono. L’esperienza mi ha dimostrato che non è così, vuoi con la mia partecipazione così discontinua alla mailing list (sempre con il dubbio che quanto scrivessi non venisse realmente recepito), vuoi con le brevi conversazioni che si svolgono prima e dopo le sedute, mi sono dovuto rendere conto che anche verso i componenti del Cerchio, anche verso quelli che conosco meglio, sento una distanza simile a quello che avverto con le persone al di fuori di questo piccolo mondo. Certamente c’è un problema di meno, nel senso che non ho bisogno di spiegare in qualche modo la “questione Cerchio”, ma la situazione di fondo rimane in realtà invariata. Questo può essere in parte dettato dal fatto che, comunque, anche qui dentro ho un ruolo tutto sommato particolare perché, inevitabilmente, si riflette su di me una parte della deferenza verso gli strumenti (che a sua volta è un riflesso di quella verso le Guide), ma sento che questa può essere solamente una motivazione collaterale, non la spiegazione del mio comportamento.
Quello che ho detto non è dunque la motivazione principale, ci deve quindi essere qualcos’altro. Ragionando secondo la teoria “gli altri come specchio” mi viene da pensare che se non riesco ad essere me stesso perché credo che gli altri non capirebbero o non accetterebbero quello che sono, allora, forse sono io che in verità non capisco e non accetto ciò che sono. Arrivato a questo punto, diventa di nuovo difficile capire quale possa essere il vero nodo cruciale della questione perché, oggettivamente, ci sono numerosi aspetti che non mi piacciono di me, e distribuiti, oltretutto, su molteplici livelli: andiamo da caratteristiche fisiche del mio corpo, alla difficoltà nel tirare fuori le emozioni, ad alcuni lati della mia mente. Tuttavia credo che in realtà, alla fin fine, lo scontro dentro di me sia più che altro legato ad un problema di comportamento etico: se da un lato sento infatti l’esigenza di fare qualcosa per chi mi sta accanto (e anche in questo caso probabilmente conta l’influenza in qualche modo del “modello”), dall’altro, proprio in quest’ambito, mi scontro con i miei difetti più difficili da superare: l’incapacità di prendere decisioni salde, la difficoltà nell’espressione delle emozioni, la paura di far male; tutti elementi che sono in modo evidente ostacoli alla spinta di cui accennavo sopra.
Questo mi ha portato molto spesso ad essere spettatore di condizioni di sofferenza, di esserne coinvolto e, a volte, sconvolto, di capirle piuttosto bene ma poi, a livello pratico, di essere incapace di fare qualcosa di decisivo, o anche solo realmente utile. Nelle numerose occasioni che mi si sono presentate, cosa sono in effetti stato in grado di fare? Ben poco, se non ascoltare e dire qualche parola per favorire il ragionamento del mio interlocutore. Ecco, forse questo è un punto importante: non mi va bene quello che riesco a fare, probabilmente con una certa arroganza ritengo che potrei essere molto meglio di così, e quello che sono in grado di fare non mi basta, meglio allora non farsi capire dagli altri, meglio che almeno loro non si rendano conto di quanto sia limitato, altrimenti non mi apprezzerebbero più...
Mi sono reso conto che questo atteggiamento non porta assolutamente a niente e sto, lentamente, cercando di modificarlo, si tratta “semplicemente” di essere consapevole del mio ruolo e... esserlo... il che non vuol dire smettere di migliorarsi ma crescere un piccolo passo alla volta senza pensare di poter fare cose straordinarie ma senza neanche negare le proprie doti che vanno, invece, sfruttate il più possibile. Nel mio caso, quello di ascoltare credo si possa davvero considerare una sorta di talento a causa sia di come sono che dell’immagine che do; la gente tendenzialmente parla volentieri con me anche di cose molto personali e, d’altra parte, credo di aver imparato nel tempo a non giudicare le persone o, quanto meno, a tenere presente che ci sono sempre dei motivi, anche dietro ai comportamenti apparentemente più insensati.
Tra gli altri devo ringraziare, per il pur modesto risultato che ho ottenuto, mio fratello; in quanto mi ha permesso, avendo cambiato lavoro, di arrivare a comprendere meglio questo aspetto di me. Quando ha iniziato il suo nuovo lavoro in una comunità che si occupa di persone con gravi problemi fisici, ho cercato di immaginarmi a svolgere un’attività simile e mi sono dovuto rendere conto che non sarei stato in grado di sostenere quel tipo di vita se non per brevissimo tempo e, oltretutto, la mia emotività sarebbe rimasta bloccata, cosa che nei contatti con quel genere di persone è senz’altro dannosa; insomma non sarei riuscito a farlo, mentre lui sì. Spinto dal senso di competizione con lui (a volte è utile, a quanto pare), ho pensato se e cosa io sia mai riuscito a fare per gli altri... e così facendo mi sono venuti in mente gli episodi in cui mi sono trovato coinvolto e ho capito che, comunque, in qualche modo che in realtà non è chiaro neanche a me, sono stato forse utile.
Da quando ho preso consapevolezza di questa mia caratteristica, ho l’impressione che un qualcosa sia cambiato; niente di particolarmente evidente o eclatante ma capisco meglio di prima che in questo momento il mio ruolo è quello dell’interlocutore; ho una dote ed è giusto sfruttarla il più possibile. Tuttavia, pur avendo pensato molto a questa mia insoddisfazione, non credo di essere riuscito ancora ad individuarne le cause in modo preciso o, quanto meno, ho la sensazione di trovarmi in una condizione di particolare tranquillità che, però, ne sono certo, non è definitiva e verrà spezzata presto dal richiamo di nuovi stimoli. Ci sono, infatti, ancora molti aspetti del mio comportamento che non sono del tutto spiegati: il mio bisogno troppo frequente di stare da solo, ad esempio, è in parte un tratto della mia personalità ma, in fondo, credo che ci sia dell’altro. Quanto conta in tutto ciò il modello dei genitori? Il mio comportamento dal punto di vista che ho sviscerato è molto simile al loro, ma è così perché lo sento mio o per semplice imitazione?
Non ritengo in definitiva di essere arrivato ad alcun risultato definitivo, ma solamente di aver fatto qualche piccolo passo in quella che appare come la mia tematica interiore più intricata.
Con questo vi saluto sperando, almeno in questa occasione, di essere riuscito a far filtrare attraverso la barriera che ci separa qualcosa di quello che sono dentro e spero che siate riusciti a recepirlo, grazie comunque per avere ascoltato.
view post Posted: 27/4/2023, 07:08 L'archetipo bene/male - Piccoli corsi
Caro Francesco,
secondo la mia idea i concetti filosofici non possono essere degli archetipi permanenti, principalmente perché sono relativi, in continuo mutamento e quindi non permanenti.
Il concetto di Uno, invece, credo che possa essere un AP (se non ricordo male è stato definito "l'archetipo degli archetipi") in quanto è sì mutuato apparentemente da una concezione filosofica ma in reltà fa riferimento a qualcosa che è ben aldilà della relatività e della soggettività.
view post Posted: 6/4/2023, 07:26 L'archetipo bene/male - Piccoli corsi
Fin dai primordi dell’uomo e dai suoi primi, goffi tentativi di rappresentarsi la realtà che si trovava a dover affrontare nel corso della sua esistenza (o meglio: delle sue esistenze, per voi che siete un po’ più addentro nell’insegnamento del Cerchio) si è trovato di fronte alla necessità di distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male, quindi di dover fare una distinzione filosofica all’interno di ciò che stava vivendo.
Il semplice uomo delle caverne risolveva in maniera immediata e, per la sua semplice evoluzione, soddisfacente, la questione, forte della poca esperienza che ancora possedeva, derivante per la massima parte da quell’eredità di imprinting e di istinto che proveniva dal suo recente passaggio incarnativo attraverso il regno animale: era qualificabile come bene tutto ciò che aiutava la sua sopravvivenza (dal cibo, alle pelli per coprirsi dal freddo, al fuoco per rischiarare le sue notti buie e spaventose) e, invece, come male tutto ciò che poteva rendere il decorso della sua vita estremamente doloroso e difficile (dalla fame al freddo, alle malattie), finendo spesso col abbreviarne in maniera drammatica il protrarsi negli anni.
Poi nacque l’idea di qualcosa di immanente, di invisibile, di imprecisabile che governasse la vita dell’essere umano, una larvata sensazione dell’esistenza di entità superiori che, con la loro benevolenza o con la loro accidia, condizionavano e indirizzavano la vita dell’uomo in maniera positiva o in maniera negativa.
Dapprima questa forza, al di sopra delle potenzialità umane, venne personificata negli elementi della natura, facendo immaginare ogni forza della natura come entità superiori di fronte alle quali l’uomo si trovava in balia della natura stessa: le piogge lo sferzavano, il sole illuminava i suoi giorni riscaldandoli, il vento asciugava le sue misere vesti, il mare flagellava le coste proclamando la sua forza irresistibile.
L’osservatore più attento di quelle epoche si accorgeva che la delimitazione tra i due termini contrapposti bene/male non era così precisa anzi, spesso sfumava oppure era presente, in ogni elemento della natura, una tale abiguità e ambivalenza che diventava difficile, all’uomo dell’epoca, dare ad ognuno di essi una connotazione precisa: se la pioggia scrosciante allagava la sua caverna e rendeva piene di terrore le sue notti illuminate a tratti dai lampi e squassate dal rombo dei tuoni contemporaneamente dava rigoglio alle piante di cui si cibava; se il sole dava sicurezza ai suoi giorni e calore al suo corpo poteva anche far bruciare la sua pelle e far seccare quelle stesse piante che erano una preziosa fonte di sussistenza; il vento che rendeva piacevoli le giornate estive rendeva spesso insopportabili quelle invernali; il mare che travolgeva le fragili imbarcazioni che l’uomo cercava di costruire per solcare le onde ospitava una fonte di delizioso cibo.
Finalmente Urzuk, il primo filosofo nella storia dell’uomo, arrivò a comprendere che le cose non stavano proprio come tutti avevano pensato fino a quel momento e che le forze della natura non erano vive - nel senso umano del termine, almeno - ma corrispondevano a leggi naturali, spontanee e non avevano caratteristiche tali da poter loro attribuire caratteristiche di benevolenza o di malvolenza.
Per voi, uomini raffinati del terzo millennio dell’era moderna, tutto questo sembra ovvio e persino banale.
Ma riuscite a immaginare il nostro Urzuk che sforzo di creatività dovette compiere per abbandonare le antiche e fortemente vittimistiche concezioni del passato e concepirne di nuove? Non vi sembra che un tale epico sforzo avrebbe dovuto far sì che il suo nome venisse tramandato con gloria fino ai giorni vostri? Di fronte allo scorrere dei millenni, ahimè, la gloria, gli onori e la propria personale esistenza, per importante che sul momento possano essere sembrati, finiscono con l’offuscarsi e cadere inevitabilmente nell’oblio, e del “grande uomo” del passato, alla lunga, non resta traccia, se non nella catena di eventi che ha messo in moto permettendo al Grande Disegno di svilupparsi lungo le sue complesse vie.
Sono certo che una curiosità è nata dentro di voi: come ha fatto Urzuk, così limitato nelle conoscenze e nelle capacità intellettive a rendersi conto che le forze della natura non erano divinità benevole o malevole, a seconda delle occasioni, bensì semplici azioni meccaniche messe in moto dalla natura?
Possibile mai che voi, raffinati e sensibili pensatori del terzo millennio, figli della tecnologia e della conoscenza, piccoli sapienti a contatto con le grandi filosofie del passato e con gli insegnamenti attuali, non abbiate già sulla punta della lingua l’ovvia risposta?
Urzuk, nella sua semplicità, siccome non aveva la televisione o il videoregistratore o i libri per riempire le sue giornate, nel tempo libero osservava il grandioso spettacolo che la natura instancabilmente gli metteva in scena e fu così che un pensiero sfavillò nella sua coscienza:
“La tempesta infuria anche quando io sono bene al riparo nella mia grotta sopraelevata all’interno della montagna, il sole cocente non mi scotta se mi siedo al riparo di un albero frondoso, il vento non mi sferza più se solo giro l’angolo di una roccia, il mare percuote lo stesso le spiagge con le sue onde anche nei giorni in cui io non mi avventuro sulle sue acque. Non posso che arrivare a concludere che nessuno di questi avvenimenti è veramente rivolto contro di me, ma pioggia, vento, sole e mare continuano semplicemente a fare ciò che hanno il compito di fare, indipendentemente dal fatto di potermi nuocere o aiutare.”
Ora che ne ho parlato vi sembra una cosa così semplice da sembrare quasi ridicola, e, nella vostra altezzosità, magari pensate anche che, in fondo, il nostro Urzuk non ha conquistato una concezione poi così notevole...
Ah, creature mie, se ricordaste più spesso il ragionamento di Urzuk e lo faceste vostro ogni volta che vi lamentate di quello che vi accade, ogni volta che vi sentite come se il mondo intero fosse lì soltanto per crearvi delle difficoltà!
Ritornando al nostro Urzuk c’è poco altro da dire su di lui: non era certo un Leonardo da Vinci e per nobilitare la sua esistenza ha avuto soltanto quell’unico pensiero, abbozzo informe di un ragionamento filosofico, tentativo persino sorprendente - viste le possibilità di pensiero dell’uomo dell’epoca - di applicazione di quel processo logico che ultimamente abbiamo cercato di insegnarvi.
Dopo non lungo tempo ché la vita dell’uomo all’epoca, era decisamente più corta di quella dell’uomo attuale, Urzuk morì, come sempre accade all’uomo incarnato, anonimo e inconsapevole esempio dell’omerica frase: “nati non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”.
E, come sempre accade ad ogni individualità finché non ha portato a termine il suo programma di comprensione all’interno del piano fisico, Urzuk si reincarnò.
Il suo nuovo nome non ha importanza (per comodità continueremo a chiamarlo Urzuk, così come, per comodità, creeremo una improbabile linea incarnativa di Urzuk come simbolo dello sviluppo dell’idea di bene-male nell’uomo) ma nel tempo la sua minuscola idea era stata accettata dai suoi discendenti che le avevano apportato piccole correzioni e piccoli ampliamenti, cosicché essa era diventata ormai un elemento fisso delle concezioni dell’uomo, anche se non aveva avuto per molto tempo degli sviluppi significativi.
Ma il nuovo Urzuk era uno di quegli uomini la cui esistenza era necessaria al Grande Disegno per aggiungere nuovi colori e nuove forme alla sua complessità, ed egli non tradì il suo compito, ponendosi ancora di fronte al tentativo di comprendere meglio cos’era il bene e cos’era il male.
“Se - egli si disse - il bene e il male che mi accadono sono indipendenti dalla mia presenza sul pianeta (probabilmente non usò questo termine ma semplicemente l’equivalente del termine “mondo”) è ovvio che non dipendono da me. Tuttavia io sento che esistono. Quindi deve esserci un qualche essere che ha in mano le redini delle vicende umane.”
E nacque così il concetto di Dio: un essere immanente, al di sopra della realtà umana, che presiedeva a distribuire, più o meno capricciosamente o giustamente, benefici o disgrazie ad ogni essere umano incarnato.
Un Urzuk successivo, antesignano dell’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio nell’uomo e un po’ stufo di sentirsi in completa balia degli avvenimenti, si domandò come influenzare in qualche modo le decisioni divine in favore dell’umanità.
E così nacque il concetto di religione: magari, dimostrandosi servile, ossequente, adorandolo e facendogli offerte, l’uomo avrebbe potuto indurre la divinità a essere più spesso benevola che malevola, magari avendo un occhio di riguardo verso i suoi adoratori a scapito di chi non lo aveva riconosciuto come Dio e che quindi, con ottima probabilità, avrebbe attratto più facilmente su di sé il male, facendo beneficiare, conseguentemente, di una maggior quantità di bene, tutti coloro che amavano, servivano e riverivano il Dio.
L’Urzuk seguente - incarnatosi non molto dopo (ed infatti l’idea che questi escogitò è quasi contemporanea a quella precedente) - perfezionò furbescamente quanto ideato dal suo predecessore:
“Siccome il Dio ha un caratterino niente male, potrebbe anche sentirsi infastidito dalle preghiere di tutti gli uomini che lo adorano: tutte quelle lamentele e quei piagnistei alla lunga possono risultare irritanti. Però se un solo uomo si prendesse il compito di far da portavoce per tutti gli altri... oltre ad aiutare gli altri fedeli e a sollevare un po’ il Dio dalle mille e mille voce imploranti diverrebbe anche il primo beneficiario del bene divino”.
E così nacque il concetto di sacerdote, necessario e insostituibile intermediario con la divinità.
Probabilmente, in qualche punto della catena reincarnativa il pensiero filosofico di Urzuk aveva incominciato ad incrinarsi, a mostrare qualche pecca, anche se dal punto di vista logico la successione delle idee che mise alla luce sembrarono ineccepibili nelle varie epoche in cui nacquero.
Infatti nacque il concetto di Chiesa al fine di radunare in un unico corpo fedeli e sacerdoti. E poi il concetto di Papa, intermediario degli intermediari, uomo infallibile (da notare la contraddizione in termini dei due concetti), vicario in Terra di un Dio sfuggente.
E il concetto di bene e male? Gli Urzuk lo risolsero, infine, o no?
Ahimè se ne disinteressarono, attratti da altre esigenze e da più immediate questioni. Non che la cosa venisse ignorata, semplicemente un Urzuk, forse il meno creativo di tutti gli altri, arrivò ad immaginare che la volontà di Dio è imperscrutabile e quindi il bene e il male sono imperscrutabili anch’essi in quanto espressione dell’intervento divino nella vita dell’uomo.
Ma ormai il primo Urzuk aveva dato il via - come sempre accade - a una catena di imitatori che, nei secoli, diedero vita alla filosofia, interessandosi a tutto ciò che riguardava l’uomo.
Il concetto stesso di bene/male venne esaminato nelle sue varie prospettive, creò linee di pensiero, tendenze di ragionamento, dal materialismo al pessimismo, dal materialismo storico di Marx alla psicoanalisi, mentre il concetto altalenava tra la ricerca all’esterno dell’uomo e la ricerca, invece, al suo interno, spesso contraddicendo se stessa e dando luogo a miriadi di concezioni.
Anche noi non siamo da meno e abbiamo proprio intenzione di parlarvi del bene e del male alla luce di quanto vi abbiamo detto nel corso di questi anni.
Alcuni di voi si annoieranno, altri ne saranno felici e se sarà un bene o un male per voi solo il tempo potrà dimostrarlo.
Resta il fatto che nel grande Disegno così sta scritto e, perciò, così faremo.
Creature serenità a voi. (Scifo)

Abbiamo osservato di recente il concetto di bene/male nel modo più generico possibile, preoccupandoci, più che altro, di farvi notare lo sviluppo del concetto stesso nei secoli dal punto di vista della dinamica del suo sviluppo all’interno delle varie società umane di cui l’ipotetico Urzuk era un rappresentante di comodo per simboleggiare il più generico essere umano.
Risulta ovvio da quanto detto in precedenti nostri interventi che l’idea “bene/male” può essere fatta risalire, come genesi, a un archetipo permanente tra i più pregnanti in quanto coinvolge l’individuo nel suo percorso evolutivo in tutte le fasi della sua storia passata e lo coinvolgerà anche, indubbiamente, nella sua storia futura: la ricerca del bene (ipotizzabile come tendenza ad avvicinarsi sempre di più all’ancora più ampio archetipo “amore”) risulta essere, alla fin fine, l’ossatura dell’interiorità dell’individuo, la meta ancora incompresa che deve essere via via precisata per poter veramente arrivare a consonare con le vibrazioni proprie dell’archetipo dell’amore.
Nella “Critica della ragion pratica” Kant cantava le lodi de “il cielo stellato sopra di me e la legge morale al mio interno”, arrivando a sottintendere, più o meno apertamente, che ogni essere umano ha un senso etico innato che trascende i dogma o i dettami di qualsiasi religione e che, da solo, sarebbe già di per sé sufficiente a indirizzarlo verso la migliore via da percorrere.
Rapportando questo concetto agli insegnamenti che vi abbiamo portato negli anni questa intuizione kantiana si avvicina molto alla scoperta dell’esistenza di quegli archetipi permanenti che, abbiamo detto, risuonano nel Cosmo richiamandoci come fari subliminali verso la scoperta del bene e del male, dell’amore e, infine, di Dio stesso.
Una giusta osservazione che potreste muovere a confutazione di quanto ho appena detto sarebbe quella che sottolineasse come il concetto di “bene” (parallelamente a quello di “male”) ha preso connotazioni spesso estremamente diverse nella storia dell’essere umano. “E allora - potreste chiedervi e chiedermi - non si riesce a comprendere com’è possibile che questo senso innato kantiano o, per parlare con la nostra terminologia, l’influsso dell’archetipo permanente in questione abbia dato il via alla miriadi di concezioni diverse di quest’unico concetto.”
La risposta sarebbe abbastanza immediata e comprensibile intuitivamente ricorrendo ad altri concetti basilari dell’insegnamento quali la percezione soggettiva della realtà e il diverso grado di comprensione di ogni individuo che si accinga a dare una connotazione al concetto di “bene”: è ovvio che per l’individuo il concetto di “bene” è estremamente relativo in quanto strettamente influenzato dalla sua percezione della realtà e dal grado di comprensione, di sentire, raggiunto.
Io volevo, però, sottolineare un altro particolare che, assieme a quelli appena citati, può contribuire a dare una risposta più particolareggiata che spieghi più complessamente il perché della discrepanza tra il concetto di “bene” dell’archetipo permanente e quello elaborato dall’essere umano.
Senza dubbio il “bene” espresso dall’archetipo permanente è da ritenersi assoluto, in quanto comprendente in sé tutte le possibili sfumature dal “bene” al “male” che aiutano a precisarlo e a renderlo completo. E le vibrazioni che l’accompagnano sono uniformi e costanti nel tempo (caratteristica che - avevamo detto - accomuna tutte le vibrazioni tipiche degli archetipi permanenti): l’archetipo permanente non cambia nel tempo ma il fascio vibratorio che emana, nella sua complessità, è assolutamente identico in ogni epoca temporale e in ogni posizione spaziale nella quale opera.
Ciò che provoca la discrepanza che potreste aver sottolineato è la ricaduta degli effetti delle vibrazioni dell’archetipi permanente sull’umanità, e quest’effetto è dato dalla formazione degli archetipi transitori. Questi, infatti, dal momento che nascono dal tentativo di un gruppo di individui aventi vicina evoluzione (e, di conseguenza, vicina comprensione) di adeguarsi inconsapevolmente alle vibrazioni costanti e decise emanate dall’archetipo permanente senza però avere ancora la comprensione adeguatamente strutturata per poter vibrare veramente all’unisono con la vibrazione emessa dall’archetipo permanente. Ne consegue che la concezione del “bene” codificata dall’individuo è costruita attraverso approssimative interpretazioni personali (spesso sbagliate o fuorvianti) di quello che l’individuo “crede” di aver compreso totalmente, con risultati chiaramente, spesso molto distanti da ciò che l’archetipo permanente suggerisce costantemente come “reale”, così reale da potersi ritenere assoluto.
Su questo effetto vorrei che vi soffermaste con un po’ più di attenzione di quanto possiate aver fatto fino ad oggi: ogni archetipo permanente ha la sua “brutta copia”, anche in molte copie, spesso diversissime tra loro, cioè un archetipo transitorio che cerca di imitare, per quanto gli è reso possibile dalla comprensione del gruppo di persone ad esso collegate, ciò che percepisce, attraverso le sue possibilità percettive e di sentire, l’idea “assoluta” espressa dall’archetipo permanente.
Come potete notare il discorso è ampiamente strutturato e complesso in una maniera stupefacente, pur essendo, alla fin fine, semplice sia nella sua logica, sia nella sua meccanica, sia nello sviluppo della sua strutturazione.
Ma non vorrei addentrarmi, adesso, in un discorso così complesso e difficile per tutti voi: ci riserviamo di ritornare su questo discorso in un’altra occasione, se sarà possibile farlo.
Ritorniamo, dunque, al nostro concetto di “bene”, lasciando per il momento da parte le risposte più ampiamente filosofiche e limitandoci a quelle osservazioni più semplici che, con maggiore facilità, possono venire affrontate da ognuno di voi.
Una domanda che ognuno può percepire in attesa di risposta dentro di sé è: “Qual è il “bene” per l’individuo?”.
E’ ovvio che non esista una risposta univoca a questa domanda ed è per questo motivo che vi suggerirei di osservare i vari punti di vista, le varie prospettive in cui essa può essere esaminata alla ricerca di un quadro più complesso di quello comunemente accettato.
“Qual è il bene per il mio corpo fisico?”.
La risposta è a prima vista ovvia e banale: il proprio corpo fisico gode del suo massimo aderire al bene quando ogni sua componente è in perfetta armonia, senza scompensi, sbalzi energetici, sofferenze e malattie. In fondo, se ponete attenzione al vostro corpo fisico vi renderete conto che esso è un perfetto quanto complesso meccanismo che, per poter rimanere integro e manifestare la “vita” dell’individuo, necessita che tutte le innumerevoli parti che lo compongono non solo lavorino in maniera costante e adeguata ma, soprattutto, che queste parti riescano a interagire e a completarsi con tutte le altre permettendo la sopravvivenza fisica dell’individuo.
Per dirla come potrebbe dire Scifo, ancora una volta è individuabile il principio del “così in alto, così in basso”: basta assimilare al corpo dell’individuo al concetto di “cosmo” per notare l’analogia con ciò che nel cosmo succede, permettendogli di esistere, ovvero l’interazione tra le sue parti costituenti, la necessità della loro presenza e l’aderenza alla spinta evolutiva che proviene dalla Vibrazione Prima.
Sulla scorta di questi elementi potremmo arrivare ad affermare che il massimo bene per il corpo fisico dell’individuo è individuabile nel suo trovarsi nella condizione ideale per portare a termine il compito per cui è necessaria la sua esistenza, ovvero permettere all’individuo incarnato di immergersi nella materia del piano fisica ed interagire con essa in maniera tale da poter acquisire, attraverso i processi dell’esperienza, il maggior numero di elementi utili per consentire all’intero “individuo”, di cui il corpo fisico costituisce solo un aspetto, di procedere nel suo percorso evolutivo aggiungendo sempre nuovi frammenti di comprensione che lo portano sempre più verso la riunione con il Tutto. In mancanza, interruzione o malfunzionamento delle sue parti costituenti - pur esistendo una certa elasticità e compensazione tra i veri elementi - il corpo finisce col non poter più essere uno strumento utile e, quindi, più o meno velocemente si degraderà fino a portare all’abbandono di quella materia fisica da parte dell’individualità a cui essa era collegata.
Sembra tutto così ovvio, sembra tutto così logico, sembra tutto così facile... al punto da arrivare a provare un grande stupore nel rendersi conto che l’uomo dovrebbe facilmente arrivare a comprendere che deve avere cura del proprio corpo come se fosse un bene prezioso mentre, evidentemente, questo non accade che raramente e, di solito, nei momenti in cui entra in gioco la sofferenza fisica e la paura di star male. Negli ultimi anni della vostra storia il vostro corpo viene vessato in continuazione dalle condizioni ambientali in degrado, dai ritmi di vita incalzanti, dal nascere di tendenze apertamente autodistruttive come l’attuale uso di forare labbra, naso, palpebre e quant’altro per inserirvi ornamenti metallici e non. E’ lecito domandarsi come mai si ha una tale noncurante indifferenza (quando addirittura non rasenta l’autolesionismo) nel benessere della propria fisicità.
Le risposte possibili sono molte, alcune talmente soggettive che bisognerebbe darle individuo per individuo, ma altre, invece, più facilmente generalizzabili.
Il prossimo mese partiremo proprio da queste risposte per continuare ad addentrarci nell’esame del concetto bene/male. (Ombra)

Dai ragionamenti fatti in precedenza eravamo arrivati a individuare alcuni presupposti essenziali per poter cercare di determinare il concetto bene/male:
1) La connotazione bene/male ha valore assoluto soltanto se è rapportata ai dettami dell’analogo archetipo permanente.
Per dirla in maniera più comprensibile: ciò che, in senso assoluto, può essere determinato come bene o come male trascende necessariamente la relatività ed è stabilità in modo univoco e fisso dalla vibrazione appartenente all’archetipo permanente bene/male.
2) Ogni connotazione bene/male attribuita in un’ottica diversa non può essere che relativa all’ottica di chi attribuisce la connotazione e, di conseguenza, essere - tuttalpiù - un aspetto molto aleatorio (proprio a causa della sua intrinseca relatività e soggettività) e riduttivo del concetto di bene/male in senso assoluto.
E, ragionando sulla domanda “qual è il massimo bene per il corpo fisico dell’individuo” eravamo arrivati a considerare che:
3) Il massimo bene per il corpo fisico dell’individuo è individuabile nel suo trovarsi nella condizione ideale per portare a termine il compito per cui è necessaria la sua esistenza, ovvero permettere all’individuo incarnato di immergersi nella materia del piano fisico e di interagire con essa in maniera tale da poter acquisire, attraverso i processi tipici dell’esperienza, il maggior numero di elementi utili per consentire all’intero “individuo” - di cui il corpo fisico costituisce, per altro, solo un aspetto - di procedere nel suo percorso evolutivo aggiungendo sempre nuovi frammenti di comprensione che lo portano, in maniera sempre più decisa e diretta, verso la riunione con il Tutto.
Era rimasta per il momento senza risposta la domanda: “come mai l’individuo incarnato spesso manifesta una noncurante indifferenza (quando addirittura non rasenta l’autolesionismo) verso il benessere della propria fisicità?”.
Come avevo detto c’è una grande quantità di risposte che è possibile trovare, la maggior parte delle quali, purtroppo individuali, cioè dipendenti dal cammino unico e peculiare che ogni essere percorre nel suo tendere al ricongiungimento con Colui che E’; è quindi difficile - se non quasi impossibile - fare delle osservazioni in merito senza parlare di ogni singolo caso.
Ma è veramente possibile trovare qualche elemento che possa essere considerato valido per ogni individuo incarnato al di là del percorso fatto e dell’evoluzione raggiunta? Ombra
Un elemento in comune fra tutti gli individui incarnati è rintracciabile non tanto nella situazione in se stessa nel corso della quale l’uomo tenta di applicare la “sua” concezione di bene/male, bensì proprio nel fatto che egli cerchi di dare una connotazione bene/male a un determinato elemento dell’esperienza con cui si viene a trovare a contatto.
Mi sembra che sia molto facile rendersi conto che la concezione di bene/male dell’essere umano sia molto diversa da epoca a epoca, da ceto sociale a ceto sociale, da uomo a uomo e, addirittura, da momento a momento all’interno di uno stesso uomo.
Ciò non toglie, però, che non è mai esistito né mai esisterà un essere incarnato che, nel corso della sua esistenza, non qualifichi certi elementi come “bene” e certi altri come “male”. E’ comune, quindi, la spinta a cercare di individuare ciò che è bene e ciò che è male.
Perché ciò accade?
Non dovrei neanche porvi questa domanda, perché la risposta è di una semplicità estrema: ciò accade perché la vibrazione dell’archetipo permanente, come avevamo affermato, è costante nel suo richiamo, è sempre presente in tutto il Cosmo soggetto alla sua vibrazione e non ha mai un cedimento o una variazione di intensità, ma possiede una forza tale che tutta la realtà che attraversa tende - spesso in maniera totalmente inconsapevole ma. non per questo, meno decisa e determinata - ad adeguarsi ad essa, “sentendo” che soltanto adeguandosi nel modo più perfetto ad essa riuscirà a trovare quel giusto percorso che lo porterà alla meta così poco compresa quanto tanto agognata.
Tutto questo insieme di considerazioni, però, all’osservatore attento potrà sembrare qualcosa che non solo non spiega la domanda che ci eravamo fatti (ve la ricordo: “perché l’uomo, spesso, tende a maltrattare il proprio corpo fisico, pur essendo esso indispensabile alle sue esperienze evolutive?”) ma sembra addirittura, dal punto di vista logico, contraddire tutto quanto siamo andati affermando a questo punto.
Se, infatti, il massimo bene per il corpo fisico consiste nell’essere nelle migliori condizioni possibili per poter fare esperienza e l’uomo incarnato cerca di adeguarsi costantemente ai richiami dell’archetipo permanente corrispondente, perché alcuni tendono ad essere distruttivi nei confronti del proprio corpo, spesso addirittura in maniera letale? Vito
Facciamo una prima osservazione cercando di sottolineare un punto che - intrisi come siete di moralismo a buon mercato e di “buonismo ad oltranza” - vi lascerà perplessi se non addirittura oltraggiati o sconcertati: non stiamo parlando dell’ “archetipo permanente del bene”, toglietevi dalla mente questa concezione, perché non corrisponde alla realtà!
Stiamo parlando dell’archetipo permanente bene/male, quindi di un archetipo riguardante, a prima vista, quella che è una apparente dicotomia o dualità che, invece, al di fuori della percezione soggettiva e della relatività non esiste affatto: il bene e il male non sono due concetti separati e opposti, ma sono un unico concetto complementare e nell’archetipo permanente sono presenti - come avevamo già detto, se non vado errato - tutte le variazioni di percentuale tra il bene e il male ma la somma delle due percentuali tende a manifestare sempre il cento per cento della vibrazione emessa dall’archetipo permanente.
Immagino che per voi sia abbastanza difficile capire questo concetto, dal momento che è così difficile anche per me trovare le parole adatte per riuscire a farvelo comprendere, anche perché siete abituati dai condizionamenti che influiscono sulla vostra vita a considerare il bene come la meta da raggiungere e il male come la cosa da evitare.
Il fatto è che l’archetipo permanente che stiamo esaminando non vi sussurra in continuazione: “tendi al bene e rifuggi il male”! Questo lo dicono le vostre religioni o le regole delle vostre società. Vi dice, invece, di arrivare a consuonare con la totalità della vibrazione dell’archetipo bene/ male, qualunque sia la percentuale di bene o di male che vi troviate a sperimentare.
Questo perché la somma dei due elementi finisce col dare comunque cento, ma questo significa qualcosa di più di una semplice operazione matematica, di un semplice mutare di percentuale tra i due fattori: significa, invece che se, nelle vostre esperienze, raggiungeste - per assurdo - il cento per cento del male ciò non vorrebbe dire che siete totalmente malvagi ma vorrebbe dire che, avendo compreso il cento per cento del concetto di male avrete, di conseguenza, compreso anche il cento per cento del concetto di bene, trascendendo la dualità e vibrando all’unisono con la vibrazione emessa dall’archetipo permanente bene/male.
Mi rendo conto che questo discorso, dal vostro punto di vista, possa sembrare molto pericoloso in quanto può servire all’individuo per cercare di giustificare di fronte a se stesso o agli altri qualsiasi “azione malvagia” si trovi a compiere.
Ma vi ricordo che stiamo parlando in termini assoluti, in termini, quindi, di adeguamento della vostra coscienza all’Assoluto stesso e nell’Assoluto, per sua stessa definizione, non è presente solo il bene nella sua forma più estesa ma è presente anche la totalità del male, ed essi sono due elementi non antitetici ma complementari, necessari per comprendere la Realtà.
Ritornando alla nostra domanda di partenza la risposta che è possibile dare è, in fondo, abbastanza semplice: se il massimo bene per il corpo fisico costituisce la sua condizione ottimale, grazie alla quale è possibile usare al meglio tutti gli strumenti che si possiedono e, perciò, ricavare i migliori frutti dall’esperienza che si sta vivendo, essere autodistrutttivi o, addirittura, distruggere il proprio corpo fisico significa ugualmente ricavare il massimo dall’esperienza che si sta vivendo... in parole povere: una grande bontà fa procedere nell’evoluzione l’individuo allo stesso modo di una grande malvagità: da entrambe le situazioni egli può ricavare il cento per cento della comprensione richiesta dall’archetipo permanente bene/male pur percorrendo due vie apparentemente inconciliabili ma che, in realtà, gli daranno la comprensione non di un solo polo della vibrazione emessa dall’archetipo permanete, bensì di entrambi i poli e, in conseguenza di ciò, la sua vibrazione sarà pienamente consonante con l’archetipo stesso. Scifo
Naturalmente, per necessità di spiegazione, chi mi ha preceduto ha usato la tecnica dell’assurdo per spiegarvi dei concetti di base: sapete benissimo che nella realtà non esiste l’individuo che sia al cento per cento aderente con il bene o al cento per cento aderente con il male e, non solo: in base a quanto abbiamo detto ciò non sarebbe neppure possibile, dal momento che comprendere il bene al cento per cento significa comprendere al cento per cento anche il male.
Come accade, allora, che questo benedetto corpo fisico, pur così evidentemente necessario e indispensabile all’essere umano non solo ai fini evolutivi e per fare esperienza, ma anche semplicemente per vivere i suoi giorni venga con tanta facilità vessato e menomato da comportamenti nocivi?
Più dettagliatamente: se è vero - com’è vero - che l’archetipo permanente sia nel suo aspetto “bene” che nel suo aspetto “male”, stabilisce che il corpo fisico è, comunque, indispensabile alla comprensione della Realtà da parte dell’individuo, come può accadere che la vibrazione che l’archetipo permanente in continuazione e con estrema costanza trasmetta non induca l’individuo a tenere il proprio corpo fisico come se fosse la cosa più preziosa che possiede, quindi da proteggere e da salvaguardare da ogni possibile danno? Ombra
E’ importante ricordare che le vibrazioni emesse con costanza e uniformità da un archetipo permanente in tutta la realtà del Cosmo costituiscono una sorta di “canto delle sirene” che indica la via da percorrere e le mete da raggiungere per ogni individuo incarnato.
Il problema è, però, che, non essendo ancora state raggiunte, queste mete non sono comprese dalla coscienza, dal sentire dell’individuo, né appaiono chiare alla consapevolezza dell’uomo immerso nella materia del piano fisico, ma risuonano come un richiamo subliminale a cui l’individuo non può sottrarsi, dal momento che le vibrazioni dell’archetipo permanente sono così forti e sottili da pervadere tutta la materia che riveste l’individualità incarnata.
Questa non può sottrarsi al “canto delle sirene”, in quanto esso non è qualcosa di veramente esterno, bensì qualcosa che è strettamente intessuto con il suo essere e, perciò, gli appartiene... e, se ci pensate bene, quanto ho appena detto richiama con evidenza il concetto che più volte nel tempo vi abbiamo presentato, ovvero che non vi è nulla da scoprire, in realtà, da parte dell’individuo, ma che si tratta “solamente” di acquisire la consapevolezza di ciò che egli già possiede al proprio interno.
Senza alcun dubbio potreste affermare che quanto abbiamo appena detto significa che gli archetipi permanenti, alla fin fine, si rivelano non essere altro che degli ennesimi condizionamenti (i primi e i più imprescindibili) che condizionano il cammino evolutivo di ogni individuo, e non si potrebbe non dirvi che avete ragione!
Inoltre, i concetti che vi ho appena esposti potrebbero anche dar fastidio a quelli tra di voi che sono strettamente legati all’idea della propria supposta libertà e che si ritengono fautori e difensori a spada tratta del libero arbitrio dell’uomo.
E, tutto sommato, ancora una volta non potremmo fare altro che dire che avrebbero ragione, almeno dal loro punto di vista.
D’altro canto io penso che non sia concepibile, a nessun livello, una costituzione della Realtà priva di qualsivoglia condizionamento: a ben veder l’esistenza stessa dell’Assoluto può essere concepita, in questa visuale, come condizionante in maniera determinante dell’intero esistente e quindi, a maggior ragione, del modo in cui l’individuo conduce il proprio percorso evolutivo... ma lasciamo da parte, per il momento, questo spinoso e, apparentemente, irrisolvibile argomento, altrimenti perderemmo completamente di vista quanto stiamo cercando di spiegarvi.
Per comprendere in maniera più dettagliata le conseguenze sull’individuo incarnato derivanti dell’esistenza dell’archetipo bene/male, è necessario esaminare alcuni altri importanti elementi che scaturiscono dalla sua esistenza all’interno dello sviluppo della Realtà così come è sperimentata dell’uomo.
Se avete letto con attenzione quanto abbiamo detto in precedenza ricorderete certamente che avevamo sottolineato il fatto che l’influenza dell’archetipo permanente ha delle “ricadute” sulla vita dell’uomo, individuabili in primo luogo negli archetipi transitori che di volta in volta si formano e che costituiscono una copia imperfetta dell’archetipo permanente di cui sono la ricaduta.
E’ un discorso difficile da spiegare così come, credo, è difficile da capire veramente, quindi proverò a spostare quanto stiamo dicendo a livello di archetipo transitorio, in maniera da fornirvi una specie di esempio di quello che, a ben vedere, non è altro che il ripresentarsi di un nuovo ciclo vibrazionale che ha il suo inizio all’interno dell’archetipo permanente, trova la sua risonanza all’interno della coscienza dell’individuo che, nel tentativo di adeguarsi ad esso crea, con le vibrazioni delle proprie supposte e teoriche comprensioni, un archetipo transitorio, immagine parziale e, ovviamente, insufficiente, della totalità delle vibrazioni emesse dall’archetipo permanente.
L’archetipo transitorio diventa, per l’uomo incarnato, il territorio, a livello di sperimentazione delle proprie comprensioni, entro il quale si modificano le risposte del sentire dell’individuo alle sollecitazioni dei nuovi dati provenienti dall’esperienza che egli compie nel corso della sua vita arrivando a portare briciole di comprensione al corpo akasico di ogni individuo che si muove in quello spettro di supposte convinzioni esatte, aggiornandone la costituzione e chiudendo il ciclo vibrazionale con il suo inconsapevole confronto con la vibrazione proveniente dall’archetipo permanente che mantiene così intatta la sua funzione di indicatore del percorso da compiere.
Sembra una cosa molto complicata - ed in effetti lo è, pur essendo, in fondo, semplice ed essenziale nel suo percorso - ma forse, e perdonatemi se mi ripeto, è più complicata da spiegare che da capire!
Cerchiamo adesso di trovare un archetipo transitorio che potrebbe essere considerato una delle ricadute dell’influenza dell’archetipo permanente bene/male (e ci limitiamo a un solo archetipo transitorio per semplicità, ma tenete sempre ben presente che solitamente le ricadute sono molteplici).
Io suggerirei che l’archetipo transitorio più evidentemente derivante dall’archetipo permanente bene/ male sia quello di giustizia/ingiustizia (e sì, anche per quanto riguarda gli archetipi transitori è meglio abituarsi a pensare pensare ad essi come a una dicotomia di apparenti opposti rispetto alle cui gradazioni l’individuo fa riferimento per sperimentare la propria maggiore o minore aderenza alle vibrazioni dell’archetipo permanente!).
Voi direte: ma non potrebbe, l’archetipo giustizia/ingiustizia essere, invece, semplicemente un archetipo permanente? Cos’è che gli fa acquistare l’attribuzione di “transitorio”, invece di “permanente”? (Ombra)
Il concetto bene/male è evidentemente ben diverso, nella sua qualità, rispetto a quello di giustizia/ingiustizia: infatti l’attribuzione bene/male è un’attribuzione che (e questa d’altra parte è una caratteristica peculiare dell’archetipo permanente) ha la sua stessa validità in tutto l’ambiente del Cosmo, al punto che si potrebbe affermare che ciò che l’archetipo permanente definisce come bene o come male è valido e identico su qualsiasi pianeta abitato da razze in evoluzione all’interno dell’intero Cosmo di cui il pianeta Terra fa parte.
Certamente, come dicevamo all’inizio, la confusa percezione che l’uomo ha del concetto bene/male (e la conseguente applicazione nella vita di tutti i giorni di tale idea che egli cerca di mettere in atto) diventa, nella sua applicazione da parte dell’individuo, qualcosa di strettamente relativo che si discosta grandemente dalle vibrazioni emesse dall’archetipo permanente. Ma il punto di partenza, la vibrazione dell’archetipo permanente, è sempre e comunque immutabile e ad essa porterà, qualsiasi percorso faccia per raggiungerla, qualsiasi essere in via di evoluzione.
Ciò non succede, invece, per l’attribuzione di giustizia o di ingiustizia: essa (e questa, come ormai dovreste sapere, è una caratteristica peculiare dell’influenza degli archetipi transitori) varia non soltanto da punto a punto del Cosmo ma da tipo di società a tipo di società e, persino, da essere umano ad essere umano.
Non dimentichiamoci, infatti, che è agli archetipi transitori che fanno capo le varie civiltà, società, confraternite e così via che, proprio per questo, hanno un percorso limitato nel tempo anche nei casi in cui (vedi l’impero egiziano) attraversano un periodo temporale di vari millenni.
Per fare un esempio ancora più semplice e in termini più facilmente accessibili a tutti voi potremmo dire che la differenza sostanziale tra un archetipo permanente e gli archetipi transitori che ne costituiscono la ricaduta sull’insieme di elementi che determinano l’ambiente in cui si manifesta e sperimenta l’evoluzione è la stessa che esiste tra i termini “odore”, “profumo” e “puzza”: certamente il profumo e la puzza sono definibili genericamente come odori ma non è vero in senso assoluto il contrario in quanto l’attribuzione ad un odore della qualificazione “puzza” o “profumo” deriva non da intrinseche qualità dell’odore, bensì da qualità intrinseche a chi cerca di definirlo.
L’odore di un’essenza, per esempio, può essere definito come profumo o come puzza in dipendenza da vari fattori variabili: dalla capacità olfattiva di chi li percepisce, ad esempio, o dalle convenzioni sociali o, persino, da una qualsiasi moda.
Si può quindi affermare che l’archetipo transitorio risulta indubbiamente essere strettamente dipendente dalla relatività e, perciò, dalla percezione soggettiva del percipiente e il fatto che, magari, un gruppo di percipienti lo definiscano in una certa maniera invece che in un’altra diversa non lo rende, per questo, meno relativo.
Questo sta a significare che, a differenza dei dettami dell’archetipo permanente, i dettami degli archetipi transitori possono venire superati, dimenticati o enormemente trasformati a mano a mano che l’evoluzione degli individui procederà nel suo cammino. Cosa che, lo ripetiamo, non avviene né può avvenire per ciò che è “sussurrato” dagli archetipi permanenti. (Vito)

In mezzo a questa massa di dati che vi abbiamo dispiegato davanti, sembra essere andata perduta la domanda da cui tutto ciò è provenuto: “perché l’uomo, spesso, tende a maltrattare il proprio corpo fisico, pur essendo esso indispensabile alle sue esperienze evolutive?”.
Il fatto è, creature, che l’uomo incarnato è intessuto, come tutta la Realtà, dei rintocchi degli archetipi permanenti, ma, fino a che non raggiunge una certa ampiezza di sentire (cioè di evoluzione) percepisce molto più nettamente le vibrazioni degli archetipi transitori a cui la sua evoluzione fa riferimento nel corso dell’incarnazione e, se l’archetipo transitorio che condivide con chi ha raggiunto un’insieme di comprensioni vicine alle sue pensa di aver compreso che aver cura del proprio corpo significhi sfiancarsi in corse interminabili respirando a pieni polmoni aria inquinata o che chi usa il proprio corpo come un puntaspilli è più aderente al concetto di bellezza o che con un tatuaggio può arrivare a comunicare maggiormente se stesso agli altri, correrà a perdifiato nell’ora di punta sulle vostre strade cittadine o si trafiggerà il corpo con lo stoicismo di un fakiro indiano o ricoprirà il proprio corpo dei più improbabili messaggi visivi.
E questo continuerà finché la comprensione degli individui che fanno capo a tali archetipi transitori non prenderanno coscienza - grazie all’esperienza diretta - che i loro polmoni si sono deteriorati molto più in fretta di chi - splendido esempio di mollaccione - non ha mai fatto joggin, o che, magari, potevano evitare l’epatite C bucandosi meno il corpo o che farsi tatuare un ideogramma cinese sulla natica destra poteva forse comunicare qualcosa a un cinese ma che cinesi a disposizione con cui comunicare non ce n’erano poi molti e, allora, forse era meglio comunicare con i mezzi tradizionali.
Come vedete le semplici considerazioni di partenza ci hanno portati molto lontani rispetto al punto di partenza.
Creature serenità a voi. (Scifo)
view post Posted: 6/4/2023, 07:10 Relazione: Tu sei responsabile - Do Ut Des - Do affinché tu dia
Appena ho visto il titolo, due anni fa, ho capito subito di non potere comprendere la portata e l’importanza di questo argomento per quello che riguarda il mio rapporto con le responsabilità. Da quel momento mi sono trovato di fronte a tante scelte diverse e alle loro conseguenze... forse, adesso, posso dire di essere più responsabile. Un altro motivo per cui mi sento in difficoltà a fare questa relazione è il fatto che mi sento ancora in subbuglio, il mio rapporto con le responsabilità si sta ancora modificando. In effetti ho avuto anche una leggera repulsione a iniziare questo lavoro proprio perché non mi sento di poter esprimere completamente quello che mi succede. Sto cambiando e non so, ovviamente, in cosa. Per cui quello che traspare da questo mio scritto è una breve fase della mia vita e nient’altro.
Quest’estate mi sono trovato di fronte ad una nuova porta che si stava aprendo e ho deciso di attraversarla. Mi sono trovato, cioè, di fronte alla possibilità di abbandonare il luogo di lavoro in cui mi trovavo e in cui ero protetto dal nucleo familiare per andare in un luogo sconosciuto e misterioso ma tuttavia, per quello che mi vibrava dentro, molto allettante: un passaggio da un lavoro in un negozio di copisteria ad un lavoro poco stabile e che mi avrebbe portato a girare per tutta la città, ovvero lavorare per una cooperativa di assistenza a disabili.
Così, dopo un brevissimo tirocinio di tre giorni in uno degli istituti gestiti da questa cooperativa, sono stato accettato e ho ricevuto la proposta di fare il contratto dai primi giorni di novembre. Da allora ho continuato a fare lavori per la cooperativa, un po’ nelle scuole, un po’ nei servizi domiciliari e di nuovo nell’istituto, che si chiama “Arcipelago”. Per me è stata un’esperienza incredibile e terribilmente utile. È proprio di alcune di queste esperienze che vorrei parlare per descrivere quali paure le responsabilità mi hanno provocato e quali soddisfazioni ho ricevuto.
Il primo giorno di tirocinio è stato tremendo per l’impatto, anche perché - per mettere subito in chiaro la situazione - sono stato inserito nel gruppo dei disabili gravissimi e mi sono trovato di fronte a persone senza nessuna possibilità di comunicazione, qualcuno addirittura in stato vegetativo e altri in uno stato di sofferenza continuata. La sofferenza che mi sono portato a casa è stata atroce, ero sicuro di non poter resistere. Ma il secondo giorno ho visto il gruppo dei disabili meno gravi e ho provato la gioia di comunicare e fare dei favori a persone che hanno veramente bisogno di aiuto. In particolare devo ringraziare una delle “ragazze” V. di 44 anni che, con quella che forse era una ingenua domanda, mi ha messo di fronte a una delle mie “questioni interiori” che cercavo di evitare. Be’ la domanda è nata dal “dialogo” con lei (comunica attraverso un metodo speciale in cui si usa una lavagnetta trasparente e lei guarda le lettere per formare le frasi) stavamo chiacchierando appunto del mio cambio di lavoro e lei mi ha chiesto “perché hai scelto proprio questo lavoro?” ... Inconsciamente l’avrei strangolata!!! Non potevo mentire e mi sono aperto dicendo (cerco di riprodurre esattamente quello che mi ricordo di aver detto) “Bella domanda! Beh,.. ecco... il fatto è che io sono qui perché ho bisogno di aiuto, ho bisogno di aiutare per essere aiutato. Cioè il fatto di poter fare qualcosa per gli altri mi fa stare meglio. È una bella cosa vero?” (domanda fatta perché mi sentivo instabile e dovevo prendere tempo per riprendermi), lei alza lo sguardo (che nel suo modo di comunicare significa sì) e ride. Questo è però andato a cozzare con il contrasto delle immagini che sto affrontando in questo periodo, un contrasto tra l’idea del menefreghismo dovuto al mio “passato” e l’idea di “guaritore” che è, invece, dovuta alla mia condizione di sensitivo.
Anche il primo giorno in cui ho lavorato all’interno di una scuola è stato “traumatico”, questa volta per dei sensi di colpa miei. Sono stato mandato a seguire in una scuola materna un ragazzino di 5 anni con problemi di ritardo e di comportamento. Un bambino, M., che mi si è affezionato subito al punto di arrabbiarsi se qualche altro bimbo voleva giocare con me, un bambino che si arrabbiava se non poteva fare quello che voleva. Un bambino che mi ha dimostrato grande affetto fin dal primo giorno. Ma appena vedeva nel suo arco visivo un bambino con qualcosa in mano si alzava per prendergliela e giocarci, ma la cosa per me più tremenda è stata vedere i suoi scatti d’ira e rendermi conto che alle spalle la famiglia non poteva che essere un disastro. La sua rabbia non si limitava a parolacce pronunciate male, ma a pugni sulla schiena mirati a far male, che dopo il primo giorno cercavo di prevenire. Ci riuscivo perché avevo identificato una sorta di tic che si presentava poco prima dello scatto d’ira. Il primo giorno che l’ho seguito però sono stato ferito nell’Io in maniera profonda e i pensieri ricorrenti erano:
“Non è giusto che un bambino di 5 anni sia ridotto così” e addirittura: “L’Esistenza è stata ingiusta” e neanche le parole delle Guide sono riuscite a venirmi in aiuto perché questo pensiero nascondeva un colpo inferto molto più forte:
“Che imbecille sono stato a cercare di distruggere me e tutto quello che avevo intorno, quando c’è gente che sta così male senza averne la responsabilità!”
Un’altra esperienza importante riguarda nuovamente un servizio che ho fatto per un’altra scuola. Dovevo seguire per due ore, dall’una alle tre, una ragazzina della prima media emofiliaca, ovvero con una problematica molto particolare: il sangue non si coagula; questo significa che se per sbaglio la ragazza si fa un taglietto è da portare di corsa all’ospedale. A complicare la situazione c’era anche il fatto che la fanciulla non accetta questo suo problema, di conseguenza non accetta neanche il fatto che ci sia qualcuno che la controlla... insomma ho dovuto far finta di essere un comune professore delle medie! Dovermi prendere questa responsabilità è stato pesante perché l’idea che la ragazza potesse farsi del male mi terrorizzava, anche perché la seguivo nella pausa pranzo in cui i ragazzi vanno nel giardino a giocare. Però mi ha aiutato a capire quanto è facile autosuggestionarsi considerando solo poche delle infinite possibilità che possono accadere!
Un’altra esperienza riguarda il servizio domiciliare che faccio ad una persona di 52 anni malato di sclerosi multipla da 14 anni, ormai in carrozzella da una decina di anni. Quest’uomo (che per fortuna è riuscito a crearsi una vita lo stesso) non è più autonomo, per cui è sempre seguito da almeno una persona (tranne di notte, comunque ha dei sistemi per contattare velocemente il personale). Ha dovuto riprendere la sua vita in mano e considerare il fatto di dover dipendere completamente dagli altri; detto con parole diverse, si può affermare che è costretto a lasciare la responsabilità della sua sopravvivenza ad altre persone. Cavolo, anche se solo per un’ora alla settimana ho in mano la sua vita … A questa situazione associo varie emozioni che hanno bisogno di alcune spiegazioni:
- paura di recare dei danni al suo corpo fisico già malridotto,
- soddisfazione per il fatto che faccio del bene a una persona che ha veramente bisogno,
- ammirazione nei confronti del suo coraggio nell’accettare questa situazione,
- piacere nel vedere che, nonostante il suo handicap, è una persona con cui si possono fare discorsi un po’ più profondi e stimolanti.
Infine questo giovedì mi si è presentata un’ennesima esperienza molto importante. Ero nell’istituto in cui ho fatto il tirocinio e mi trovavo nel reparto dei disabili gravi. Ero momentaneamente da solo nella stanza con cinque o sei “ragazzi”. Uno di loro, che sta passando un brutto periodo a causa di una recente operazione alla gamba per un femore rotto, ha avuto una delle sue crisi epilettiche. Mi era già stato detto che poteva succedere e sapevo che erano giorni a rischio, ma la situazione era molto particolare. Mi sono accorto subito che il ragazzo aveva cominciato a tremare in maniera strana di colpo, portando la testa all’indietro, ma mi sono ritrovato completamente ghiacciato perché non sapevo cosa fare. Per fortuna un collega che si stava fumando una sigaretta sul terrazzo si è accorto della crisi ed è scattato a tenergli la testa in modo che non si soffocasse con la lingua. Io nel frattempo mi sono alzato e mi sono avvicinato. Finita la crisi, ho cominciato a sentirmi male, mi è venuta una specie di crisi di panico, quasi uno svenimento. Ma cos’è che mi ha congelato? Riflettendoci, ho trovato abbastanza facilmente alcuni dei motivi:
- il fatto di essere da solo nella stanza mi rendeva il principale responsabile della situazione e della salute dei “ragazzi”,
- non avevo nessuna idea di cosa comportasse una crisi epilettica, quindi neanche di cosa avrei dovuto fare,
- avrei dovuto documentarmi e prepararmi in anticipo sull’epilessia, in modo da sapere cosa fare.
Per fortuna, dopo che mi sono ripreso, mi è stato spiegato che non ci si può fare niente, se il “ragazzo” dovesse morire per una crisi epilettica non ne è responsabile nessuno. L’unica cosa che si può fare è impedire che soffochi. Queste spiegazioni mi hanno permesso di sentirmi più tranquillo; per lo meno, dovesse succedere l’ipotesi peggiore, cioè la morte del ragazzo, mi ritroverei ad affrontare solo il dolore per il dispiacere.
Per cui posso dire di aver fatto diverse esperienze riguardo a questo argomento, ma se dovessi cercare di definire esattamente cos’è la responsabilità mi troverei in difficoltà, perché è, in realtà, un argomento molto vasto e la si può vedere attraverso tanti punti di vista. Penso che la si possa definire solo se collegata a qualche esperienza o situazione.
Concludo la relazione con un pezzo del Cerchio di Firenze, che non parla solo della responsabilità, ma anche dell’aiutare gli altri; proprio come ho fatto io in questo mio scritto.

Perciò tu avrai capito la vita
non quando tu farai il tuo dovere in mezzo agli uomini,
ma quando lo farai nella solitudine.
Non quando, pur raggiunta la notorietà,
potrai avere una condotta esemplare agli occhi degli uomini,
ma quando l’avrai e nessuno lo saprà, neppure te stesso.
Non quando tu farai il bene e ne vedrai gli effetti,
ma quando lo farai e non ti interesserà avere gratitudine,
né conoscere l’esito del tuo operato.
Non quando tu potrai aiutare efficacemente e disinteressatamente,
ma quando aiuterai pur sapendo che il tuo aiuto a nessuno serve,
neppure a te stesso.
Non quando tu ti sentirai responsabile di tutto ciò che fanno i tuoi simili,
ma quando conserverai intatto il senso della tua responsabilità,
pur sapendo d’essere l’unico uomo al mondo.
Non quando tu avrai compreso che tutti gli esseri hanno gli stessi tuoi diritti,
ma quando tratterai l’essere più umile della terra come se fosse
Colui che ha nelle Sue mani le tue sorti.
Non quando tu amerai i tuoi simili, ma quando tu stesso
sarai i tuoi simili e l’Amore. (dal CF77)


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